giovedì 28 gennaio 2010

Voce spremuta dalle mie tempie. Sembra un ricordo. Pulsano i numeri. Conto. E riconto. E non so cosa conti davvero. Nella seguenza di tintinnii maldestri. La voce si insinua. Come il soffio di una margherita. Geme e si nasconde. O il sibilo di un serpente. Un millepiedi si affanna sul cemento. E sogna fango e terra. Ed è già mattina. L'attimo in cui mi distacco dal mio ramo. E ricomincio a cucirmi le ali. La voce sa di sole. Accarezza i pensieri. Non riesce più a farsi male. Non ricorda di averne fatto. Di aver masticato parole. Ha deciso di amarsi. Ma è una mezza verità. Di quelle bisbigliate al risveglio. Con la voglia di caffè. Con il suo odore di portentoso mistero. Un filo di erba come segnalibro. Del sogno interrotto. E il cuscino ha l'odore di radici. Quello sognato e tanto pensato. Per riuscire a stare bene. E delle carezze di mia madre. Poche. Ma sincere. E la voglia di usare i suoi vestiti. E le scarpe con il tacco. Niente a che vedere con le mie. Ma sembravano scale dove fare ondeggiare i sogni. E il suo rossetto. Per immerggerci le labbra. E stampare baci sullo specchio. Come se fosse marmellata di ciliege. E una promessa reciproca. Guardo tra gli scaffali. I raggi schizzano polvere. La contorcono. Ed il pulivoscolo sembra una magia. E giro lo zucchero nella tazza. Troppe e troppe volte. E mi sfondo la mente pigra con una delle mie insostenibili ricette. La fiamma è troppo alta. Ma è così che mi piace. Con il canto furente dell'olio. Nel tegame. Mi fa credere che tutto andrà bene. Ha un odore. E una voce. E questo basta per rassicurarmi. Una vecchia fiamma dilata la ombra. Attraversa carne. E strati di pensieri. Impastati. Senza ordine. Senza regole. Dilatati e prosciugati. Annusa la loro voce. E la striscia. E quello che resta è ombra tremula. E cenere. Quello che resta di ciò che non riprende a scorrere. Con la forza di continuare. Io non riesco a negarmi il sangue. E quel puntino che nonostante tutto c'è. Solo che gli impedisco di parlarmi. E resto ombra dell'ombra. Il guizzo diabolico mi morde la pancia. Ma è solo un istante. Tutto tace.
Come se quel muro fosse un giardino.
Di fiori muti.
Siamo contenitori infetti di sogni assolutamente puri.
Come se fossi ombra. Scivolo. L'acqua sulla schiena. E il sole oltre. Leonzuola di acqua. Carezze che non si negano. Forse una seconda pelle. L'inconosciuto ha un odore buonissimo. Da farti desiderare di poterlo assaporare. A morsi. E lasciartelo sciogliere. Sotto il palato. Come se fosse grotta di desideri nascosti. Io posso dire le cose più normali. Con un lembo strano. Una sacca in cui la stranezza si insinua. E insidia tutta la normalità che posso contenere. Strano destino. A volte troppo fragile. E a volte troppo forte. Mai giusta. Mai donna. O bimba. O vecchia. E non è nel mezzo. Perchè nel centro esatto io ci sono andata. E non vi ho trovato che rivoli di essenza. Nessuno riesce a capire che forza e fragilità sono gli strati della stessa pelle. La mia. Insieme si sono sedimentati. E forte è il mio sentire. E conservare. E non risperdere. Fino al confine. E forte è la voglia di amare. Assolutamente forte. Fragile la capacità di farlo. Come velina. Il vento la piega e la fende.
Come non si possono amare le formiche?
E le coccinelle?
E non amare la perfezione della tela di un ragno?
Amare è fragilità e forza.
E' nascere e morire.
E resto nuda.
Senza quella pelle.
Ho imparato a tenere aperte tutte le finestre.
Senza paura del freddo.
Perchè quella è anche l'unica via della luce.

domenica 24 gennaio 2010

Ti ho lasciato tre ciglia sul cuore. A forma di piccole s. Arcuate e flesse come una preghiera. Corde per tre piccole formichine. E i tuoi occhi sembravano di cielo. Ma il tempo ha smangiato tutto l'azzurro che vi navigava dentro. Un prato di mare. "Sei il mio husky". E mi sorridevi mangiandomi il dissenso. E mi spalmavo nella tua voglia. "Sei la mia bimba". Quasi mi offendevo. E lasciavo la tua mano. Mentre con gli occhi ti supplicavo di ristringerla. Ancora più forte. E che leccassi il mio broncio. Adesso i tuoi occhi sono specchi coperti. E in te non vedo. "Vuoi un caffè?". No che non lo voglio. E voglio solo andare via. E salutare te e quello che non sei. Ho creduto di morire mentre la abbracciavi. Una mano sullo sterzo. E una altrove. E io affondavo in un marciapiedi. In una notte di stelle. Nessuno mi aveva vista. Neanche le vostre lingue. Prese a scambiarvi l'intimità come un vortice. Sembrava una spirale. E io mi confidavo solo con il mare. Nessuno doveva capire tutta la vergogna. E i pezzi di donna che annegavano. Uno per uno. Birra e sabbia. E mi osservavo. Sorridere a sconosciute labbra. Ed aggrapparmi a pezzi di cielo. La sabbia graffiava e non sentivo. O sentivo meno. Perchè volevo solo dormire. Ti ho lasciato tre ciglia sul cuore. Erano ami di futuro. Adesso sono chiavi. Troppe s. Troppe.
E' che quando ti è stato tolto ti spingi a credere che tutto è consentito.
Ma la possibilità è la figlia di una volontà leggera.
Fatta di nuvole e desiderio.
Succo dell'anima.
E adesso ho solo voglia di pane.
Per strofinarnarcela.
E poi dormire.
Allora mi sembrava fosse amore immenso. E che non sarebbe mai finito. Ma in fondo l'amore è fatto di istanti in cui siamo immensamente noi. E gli altri sono picchi di luce che ci illuminano il cuore. Una specie di maldestro gioco di soli.
Nel gioco degli specchi la figura è spinta sempre più a fondo. Perchè cercarsi a volte è una buona scusa per non trovarsi. Come se avessimo il timore di riconoscerci nell'unico pezzo che riusciamo ad incastrare. Ad abbordare. Come se fosse una mignotta all'angolo. E ammiccasse ai nostri fischi. Senza sapere se è puro apprezzamento. O solo disgusto. O la rassicurazione di essere diversi. Nella casa di una vita assolutamente normale. E ce ne sono altri. Infiniti noi che vivono tra pelle e testa. Sante e puttane che si aggirano sulla mia gola. O solo socialmente compatibili. Nè ballerine nè devote. Sanno fare ilsugo. Se gli capita. E a volte crediamo di dare tanto e troppo. Come se comunicare fosse facile come respirare. E ti respiro la mia verità. Ma tu vedi solo il vapore del mio alito sul vetro. E tutto il resto sale. E cade. Colpa di istanti. Un gioco di prestigio. Con le emozioni giuste che escono dalla scia della donna cannone. La coda dei sogni. Una cometa peccaminosa. Strano artificio le parole. Incastrano le cose nelle lettere. Danno la voce a pezzi di cose. Forse quella sbagliata. E i pensieri diventano cose delle cose. E fatti di cose. E smettono di popolarci angoli nascosti. E cessano di essere nostri. Non è che cambiamo. Solo dopo averli secreti siamo più leggeri. Ed altri. Le parole sono le ali dei nostri pensieri. Ali che li uccidono. Perchè li staccano da noi. E diventano l'altro che tanto ci fa fremere. E il piccolo dio che è in ognuno di noi riprende a sorridere. E' un contadino che ci ara e ci semina dentro. E noi siamo i campi di noi stessi. Con la costante che il frutto è stato portato via. Perchè è così che deve essere. E perchè dire è un pò essere. Ed essere è comunque amore. Come se l'autenticità fosse il dono del divenire. E nella astrazione mi perdo. Ma sento l'odore del bucato. Il sole è in ritardo. Ma arriverà.
Che poi è la differenza tra parlarsi o parolarsi addosso.
Niente. E tutto. La misura dell'astratto. Vuoto dentro. E ti sembra di essere sospesa. Tutto quel vuoto riempie troppo. Mi esplode dentro. Come un sole nero. Un sole di pece. E tutto copre. Anche la gioia. Travolta da una patina. Niente. E niente più stelle sbriciolate. E lune crocifisse. Nascoste nelle tasche. Come biscottini. Niente poesia. Non scivola più sugli occhi. Lasciandoteli chiudere. E Cullare. Nel mare dei sensi. Come il velo che ricopre il mondo di nebbia morbida. E puoi sognare oltre. Mai più segni incisi sulle vene. Il disegno dell'incauto divenire. A serrarle. A trattenere battiti. E a morderne il corso. Per spezzettare il tempo. E dilatarlo. Infilandoci attese. E pause. E una linea ruba punti. E si spinge avanti. Divide il bene e il male. Come mari avversi. E tu sei riva. E acqua. E mentre avanza ti squarcia dentro. Una corda che frusta. E separa. E mescola segni a pelle. E pelle a piacere. E dolore. Come se fossero rivoli di vita.
Niente.
E tutto.
E il concreto sta sbranando l'astratto.
Lo chiamano tempo.
Un fiume inverso che ci scorre dentro.
Ho morso stelle. E ne conservo il sapore sotto il palato. Come un segreto.

sabato 23 gennaio 2010

Non ho più occhi da staccare dalla mia verità. Ed è cieca. Annusa la dignità. Persa vaga. E vaga come un delirio. Ondeggia e si dimena come un palloncino pazzo. Impiccato dal filo che gli impedisce di sgonfiarsi e precipitare. E attraversare l'aria. Sentirla addosso. E contro. Forse è quello dimenticare? Riempirsi di distanza? O salvarsi? Dimenticare è suggere gocce di vita ad un ruscello. Sta ancora vagando. E si nutre di buio. E si fa chiamare amore. Con la pretesa di essere compresa. Ma gli altri non sanno cosa abbiamo dentro. I fogliettini appuntati intorno al cuore. E come ti muovi fa male. Ha la voce di un fiore. E il suo respiro. L'ho sentito. Lo ricordo. L'unica compagnia alla sua apnea di luce. Non sa descrivere il bene. Lo ha dimenticato. Presa come era a spiegare. E ha barattato i suoi petali con le parole. Se fosse un fiore sarebbe davvero osceno. E indegno. Con il cuore nudo. Con tutta la paura che gli batte dentro. E una brina a raschiargli l'anima. Per ricamarci la vergogna. Soffiaci sopra. Come ti ho chiesto mentre mi abbracciavi. E io cercavo di riaprire gli occhi. E di trovarti tra le mani che mi attraversavano. Senza che comprendessi il confine. Il sogno mi ha ingoiata. E mi sento ballare nella sua sagoma. E questo sole che mi batte dentro nessuno sa scorgerlo. Tanto non serve più. Io non ho occhi. E le mie dita hanno imparato a parlare con il buio.

venerdì 22 gennaio 2010

Perchè l'unico pane che vorremmo mangiare è la comprensione. Ma è un pane che non sazia. Nella bulimia d'amore. E voler bene non si spiega a parole. Scorre nelle vene. E nel battito del cuore. Ed urta contro il senso di possesso che sentiamo esserci negato. Come se dare agli altri togliesse a noi. Perchè nell'amore abbiamo riversato tutto quello che ci è stato tolto. Lasciandolo con il suo tronco curvo a patire l'inverno. E con le foglie in mano. E non coprono dal freddo che imploriamo. Per non sentire. Se non mi hai compresa non era bene. Era specchio. Per vederti forte. E lasciarmi contorcere nella tua sagoma. E io la sentivo casa. Mentre era solo ombra. Avrei voluto che tu avessi strappato dalla mia carne il sole che da qualche parte è scivolato. Ma se mi rimproveri di essere buio è perchè lo rimproveri solo a te. In una guerra senza terra. Fatta di menti che si intrecciano e liberano. E non capirsi è più facile che capirsi. C'è desolazione sotto l'albero della solitudine. Ed è quasi fallimento. Perchè mi resta la vita. E la riavvolgo tra le vene. Senza molta voglia.

giovedì 21 gennaio 2010

E io non potrei. E non posso. Ma se poi voglio. E poi sento. Forse voglio. E mi pento. Mi capita di attendere. E decidere. E morbidamente cambiare idea. Modellando il ripensamento. E' creta. Ma le sue forme sono orride. Come solo l'autenticità può sembrare. A chi lecca la saggezza. Come se fosse una caramella proibita. O mi capita di devastare un proposito. E' incoerenza questa brodaglia indegna che cucino. E mescolo e rimescolo. Densa ed autogestita. Mentre affetto incomprensione. Fette irregolari ed imprecisi. Con la forma di una pretesa. Ma l'odore del pane. L'intreccio tra sensi e anima. Non è forse l'amore il morso feroce e secco al proprio destino? Con tutta la forza che abbiamo in corpo. Forse è la misura del più lurido dei domani. E' un forse di cartone. Ricamato e composto. Con le lettere uguali. Equidistanti. Perchè non vi sia significato nella differenza. Sa di sandalo. E me lo trovo strisciato sui miei fianchi. Come se fossero prati da ricostruire. Mentre sono sono valli di solitudine. Ti viene quasi voglia di bruciare il grano che vi spunta. E osservare l'incendio. Dilatare le margherite. Ed i papaveri. E poi amputarli. Perchè distruggere significa staccare un istante in cui tutto diventa per sempre. Prima di voltarsi.
Un giorno ho bruciato la tua idea.
Una collana.
Idee come abbracci.
E dopo quella tante altre.
Ma nessun fuoco è stato così doloroso.
Come quello.
Inzuppato di follia.
Quasi disperazione.
Con il fumo che mi corrodeva gli occhi.
E lacrime e parole erano lo stesso.
Rotolavano addosso.
Come bava.
O come fame.
Un vestito troppo leggero.
Per coprirmi da tutto il freddo che sentivo.
Lo chiamavano velo della colpa.
Io l'ho chiamato domani.
E poi ancora domani.
E poi ancora e ancora domani.
Perchè non avevo altri nomi da dargli.
Ma solo la voglia di arcuarlo.
E di piegarmi a forma di domanda.
E mi trapassavano e pungevano tanti di quei domani.
Così tanti da accumulare una foresta fatta di passato.
Di alberi senza tronco.
Sto ancora cospargendomi le labbra di cenere.
Di quella cenere chiamata verità.
E poi è quello che resta.
Resta e non vorrebbe.
Perchè il posto della verità è altrove.
Ti è mai capitato di pensarmi impudica?
E di vedermi impudicamente assorta
a tagliare le vene all'angelo che mi solca le viscere?
Ho bevuto umiliazione strisciando fino alla sua ciotola.
Già.
E adesso taci.

lunedì 18 gennaio 2010

Oggi
sono
riva.
Sono
sponda
immobile.
Attenta
a
non
farmi
mutare.
Un
finto
equilibrio.
Fatto
di
assi
incrociate.
Una
stabilità
fumè.
Riva
composta
e
pettinata.
Mi hanno rubato le trecce.
Mentre vorrei essere mare aperto.
E osservare il mondo sotto.
La voce dei pesci.
La loro voglia di camminare.
Almeno una volta.
.
Il mare è il posto dove si può volare.
Senza ali.
C'è una coltre fitta. Sembra nebbia. Di tulle e pizzo. Sfacciato ma sincero. Se ci metti le dita dentro lo rompi. Senza squarcialo. Intuisci quello che c'è dall'altro lato. Ma non ti tocca. Non fino in fondo. Ha la resistenza del candore. Della voglia di purezza. Una rete che ti cola ovunque. E a volte si chiama intimità. Filtra la gioia. Filtra il dolore. E mi giungono da lontano. Impuri. Perchè hanno respirato. Mi capita di rimpiangere quella che ero. Un bozzolo interrotto di una improbabile farfalla. Perchè la furia ti toglie il dono più prezioso. La consapevolezza di potere. E' quello che dà il giusto colore alle tue vene. Tutto sotto.
Sotto il mare che ci è concesso.
Perchè il mare è la pelle dell'abisso.
L'orizzonte si spezzetta in segmenti. Si ripiegano e si sovrappongono. Dissonanti. Sospiro su sospiro. Dal lieve stridore. Si percepisce appena. Ha un battito morbido e sembra un ventaglio. E si flette. Come una gerbera pendula. La bestia avanza. Con lo stelo tra i denti. Lieve è la danza dei petali confusi. A caccia di luce. Con i denti che affondano. E il movimento è il canto del divenire. Un Tanto tempo fa mi cola dalle labbra. Sono indecisa se sia un ricordo. O una fiaba. O un sogno accartocciato. E la vita si ripiega su di sè. Mi fa ancora battere il cuore di dolore. Un dolore vero. Pieno di dignità. Senza immaginazione. E rapido scivola tra le mie carni. Forse per ricordarmi che sono donna. In un mondo che ha fame di sangue. Da esibire solo se necessario. Dal colore indefinito. Quello che ognuno vede a modo suo. E colora di significato. E tutto sembra poco. Perchè è lontano. E senza voce. Come se la pelle fosse fatta di aria. L'orizzonte ancora non annega. Non affonda. E precipita in tentativi. Mentre affondo nella polpa di una disperazione inerme. E nella sua ombra spalmata sul muro. Un sole muto. E l'ombra diventa la casa della luce. Il suo rifugio segreto. L'orizzonte è una lama affilata. Avanza. E decapita l'attimo. Sto scomparendo. Dovrei strappare le orme di tutta questa ingiustizia dal suolo. Ma ci ha pensato l'oblio. Devo annotarlo sulla mia anima. E mi perdo in pensieri inutili. Come una vita serena. Nella ingiustizia più lurida. Mentre il dolore ha morso vite e vite. E questa rabbia bastarda non cambia le cose. Vita che convive con la morte. Spaventosamente. Si chiama impotenza questo serpente nella pancia. E' là che si impicca la nostra dignità. Nessuno sa nulla della vita dei senza voce. E la terra grida e sputa sangue. Come se essere uomini non bastasse. Mentre è più che mai un dovere.
E sono intrappolata in un maledetto momento. E chiudo gli occhi. E non c'è nulla di vero. Una malata fantasia di velo e polvere. Di quelle che dovresti cacciare via. Ma non basta soffiarci sopra. Servono due dita. Un colpo secco e due dita in gola. Per strappare il demone dell'indegnità e del disprezzo. Un tatuaggio che grida. In quel momento le mie ciglia si sono accarttorciate. In quel momento si sono inginocchiate. E piegate. E Flesse. Come se il dolore avesse un suo calore. Un fuoco impuro. Incontrollabile ed impuro. E quell'istante si è conficcato nelle pupille. Come un ago. Nascosto. E senza cruna. Senza poter parlare. E sono intrappolata nell'istante. E poi erano tanti giorni. Forse mesi. Inutili anni. E si erano accovacciati in un attimo. Senza permesso. In quel momento si sono ribaltate le mie tasche. Erano vuote. E' è stato inutile tentare di rimpierle. Con tutta la dolcezza che avevo. Scivolata via. Fino a rendermi una brocca vuota. Sono piombati addosso alle mie povere mascelle. Io non sapevo se ridere. E non capivo se fosse stupore di cristallo. Quello che ti riempie di riflessi. O un urlo muto. Bevo vino rosso. Sorsi piccoli e composti. E cerco il fondo del bicchiere. Mi fa credere di avere labbra rosso vermiglio. Labbra che hanno superato il bordo. Per inghiottire il mondo. E' così intenso. Un buco rosso. E mi fa chiudere gli occhi. E metterci sopra due margherite. Ficcarle dentro. A fondo. Incastro margherite al posto degli occhi. E i loro steli si intrecciano alle mie viscere. Così nessuno si accorgerà che ho le ciglia bruciacchiate. Fa male. E non vorrei. E non dovrei. Donare questo malessere spalmato sul pane. Come marmellata di albicocche. Cancella il vermiglio dalle mie labbra. Le leviga. E spiana il mio broncio atteggiato a perdono.
Oggi ho respirato al contrario.
E ho ricordato.
E ho ricordato di non saper spiegare.
Quando ero donna. E donna non mi sentivo. E mi modellavo. Imitavo l'aria. E ancheggiavo. Come arpa. Lanciavo segnali fatti di stelle sminuzzate. E perdevo. Mentre credevo di guadagnare. Perdevo ed amputavo la donna che lasciavo piegare. Non sarei mai stata fiore. E la mia pelle divenne tronco. Capace di sopportare. E tutto scorreva dentro. Così dentro da non sentirlo più.
E' corteccia la morsa intorno al cuore.
Perchè il cuore è una caverna.
Segreta.
E non riesco a sentirne l'odore.

venerdì 15 gennaio 2010

Come grani di un rosario. Senza orecchie. Gli attimi scorrono. E le le mie dita scivolano sulla loro superficie liscia. Lasciano una impronta. E' il calore della mia mano. Forse è sangue. Forse è vergogna. Scivolano. E parlano. A caccia di comprensione. E di insistenza. Tanto nessuno può sentirli. Fingono una preghiera. Ma è una lagna. Fingono di sapere. Mentre ignorano. Ma sanno di ignorare. E che lisciare quei grani non è pregare. La preghiera è fatta di aria. Di luce che non ha forma. Una luce senza dove. Pura nella sua caverna sconosciuta. L'ignoto è la luce più intensa. Ma il mare ha già rovesciato l'onda sulla riva. L'ha vomitata dalle sue viscere. Come io vomito pensieri. Dopo che li ho trattenuti.Spinti dentro. Stritolati. Facendoli soffrire soffro anche io. E questo dà il senso e la misura. Pensieri fatti di paura. E di percezioni. Quasi sempre esatte. Sento con la mente. Là trattengo. Nella mia caverna. Nel mio utero segreto. Dove consepisco e abortisco. Amore e odio. E comunque amore. Quella che molti chiamano follia. Perchè non sanno amare. E io lo faccio a modo mio. E mi faccio ferire nel cuore. L'istante dopo essere rinata. E' che per me ci sono regole assolutamente inesatte. Solo la casualità mi incanta. E il ciclo dell'onda sulla riva. E la danza delle conchiglie alla deriva. E' perchè ho vissuto vicino al mare in inverno. E ho imparato che niente può sorprendere. E' un ballo di ombre e fantasmi. Ma non fanno paura. Ecco, io cerco l'istante in cui tutto diventa semplice. Come baciare l'impossibile. Schiudere le labbra e affondarci dentro. E attendere. Attendo la neve d'estate. Non l'ho mai vista. E per questo mi accontento della pioggia. Ha sempre qualcosa da raccontare. Come se fosse lacrime. Contenitori della nostra intimità. Si aprono in mille rivoli. Con la voglia di arrivare ovunque. Mentre invece sono destinate a fermarsi prima della meta.
Se avessi bevuto le mie lacrime avresti saputo la mia verità.
Ma forse il suo sapore non ti sarebbe piaciuto.
Non era amara.
Solo diversa.
Io già sapevo.
Me lo avevano raccontato le foglie.
Anche loro si sono fatte bagnare.
Tante e tante volte.
E i pensieri sono come le foglie.
Su una finestra ho scritto una storia fatta di alito. E di occhi. Occhi strisciati. Per vedere senza vedere. Come piace a me. Per poter immaginare. E disegnare con la mente. E senza confini. E rubare il senso più vago delle cose. Occhi che appaiono e scompaiono. "Indovina chi sono". Riconoscersi è facilissimo. Vorrei mi riconoscessi dal mio sorriso. Con la paura di voltarsi. E infilzarsi nel tempo. Perchè magari si è altri. Una volta è successo. Occhi che emergono da occhi. Come se le pupille fossero pianeti distanti. Annegati e riemersi. Lontani. E la lontananza è la misura inversa dell'amore. Nella geografia dell'anima. Una specie di caccia al tesoro. E il tesoro non c'è. E non passano dalla mente. E dalla dignità. Il cuore ha mille orecchie. Percepisce ogni fruscio. Ogni variazione. Una minima deviazione. E la storia fatta di alito scompare. O diventa carne. "Indovina chi sono". Io non lo so chi sei. E non so neanche chi sono io. E neanche mi importa. Ho perso tutti i pezzi. Ma non posso dirlo. Mi perdo nella mia tazza lilla ogni mattina. E riaffioro al tramonto. Non ho più stelle da sciorinare nel cielo. Potrei solo raccontare il loro ricordo. Disegnarle con le dita contro il vetro. Ma nei miei ricordi non hanno più colori. Sono stelle senza pelle. Hanno una voce flebile che ho rinchiuso in un barattolo.
Per annusarla poco.
Se capita.
E trattenerti nella mente. Come se fosse un libro. Dalle pagine bianche. Lasciarsi arare. Come un campo che esplode. Con il profumo del mentre. Spiare la gioia. Con un occhio chiuso. E le ciglia per tenda. E sentire i suoi raggi sfiorarti. Leccarti le palpebre. Descrivere non basta. Una pioggia di parole. Addosso. Fino alla carne. A farsi brivido. E a contrarti il cuore. All'impazzata. E lasciarlo in sospensione. Al centro. Di te. Periferia dell'incanto. Mio nonno descriveva l'amore. Parlava di un vizio. E gli brillava la voce. Abbassava gli occhi. E quasi sorrideva. Al passato. Al tempo che fu. All'attimo intrappolato. E si scavava un posto nella mia memoria. E a volte ricordare è un atto di amore.
Ricordami come adesso.
Mentre ti dormo sulla pancia.
E tu mi baci le ginocchia.
Come se io fossi la placenta in cui tutto si può.
Nascere o morire.
E forse essere.
Perchè esistere è lasciare un segno.
E i segni più profondi sono nella mente.
Come se adesso fosse un armadio segreto.
Sono noi ne abbiamo la chiave.
Una ragnatela sul palmo della mano. Un guanto ignoto. E studio il cuore del ragno. Le dita si aprono come un fiore di carne. O forse solo come carta bagnata di aria e sangue. E sulle mie linee il ragno ricama. Gioca a disfarle. E io sento i suoi nodi. La sua presa. La stretta. Fino alle tempie. E il loro lento sciogliersi. Le dita si protendono. Osservano e chiedono pietà. Con le loro parole goffe. Non è una offerta. E' resa. Un fiume segreto irriga le mie caverne. E strappa erbe e detriti. E la terra canta il distacco. Le note si accavallano. Quasi cozzano. E il palmo è liscio come una tela. Da imbrattare. Di tempo. Lo spazio tra le pieghe dell'infinito. La sua claustrofobica apnea. Risvolti di ignoto. Il ragno passeggia tra le mie linee. In attesa dell'insetto che farà deviare il suo corso. O solo catturerà la sua attenzione. Tra linea e linea. Ci sono io. La virgola prima del precipizio.
E' facile capire quello che non siamo per gli altri.
Non quello che siamo.
Non so esistere per me.
E di mio.
Afferro il mio essere poco e male.
E gli tolgo ogni nome.

lunedì 11 gennaio 2010

Io poi li conto i petali di un fiore. E perdo il conto. E ricomincio ancora. Solo perchè toccare la sua corolla mi fa pensare di lisciare le tue ciglia. Hai petali per ciglia. E io ti imploro di intrecciarle alle mie. Di mescolare ciglia e voglia. E il polline sul collo. Su cui le mie dita disegnano il percorso. Linee che diventano onde. Senza il coraggio di respirare troppo. Sarebbe schiudere il mio tremito in brividi e poi donarmi. Senza chiedere. E pelle e parole. Come se fossero una sola cosa. Quello che ho fatto. E ricomincio a contare. E perdermi per ritrovarti. Nella luce più pura. Quella che non ha limiti. Dove l'assoluto è l'unica regola. E si mimetizza nel domani. Perchè ha paura. Ma la liscia perchè non vuole tanti segni. Ma uno solo. Indelebile. Nessuna pioggia lo cancellerà. Ti dono il mio sussurro.Lento e prezioso. Ti parlerà di te. Dei fiori impiccati che ha raccolto dalla cesta della tua anima. Ti chiede una traccia. E ti dirà quello che di te dice il mio cuore.
Mordimi il cuore.
E poi ricoprilo di baci.
E sanguinerò di te.
Ti spingerà dentro quello che tu non sai.
Il mio cuore ha annusato il tuo.
Lo ha modellato.
A forma di possibilità.
E di porta dei sogni.
Spalancami.
E fammi inizio e fine del tuo viaggio.
Non c'è nulla di fragile nel delirio. C'è un frammento di orrore che ha fatto un salto oltre una siepe buia. Io sono nascosta dietro quel salto. Intrecciata a rami e a edera. Ma non l'ho fatto io. L'hanno fatto i miei occhi e non sanno più tornare indietro. E rovistando dentro i miei ieri quello che vedo è assolutamente uguale. Ma così bagnato di differenza ed indifferenza. E quelle goccioline non sono amore. Sono distacco. Da una placenta che è la coperta più calda che io sappia ricordare. Ne tengo un pezzetto sotto il gomito. Come se fosse ombra. E con le mani io cerco l'odore dell'innocenza. Nascosto da strati di altri odori. E da una maledetta astrazione. E si incastrano errori con l'odore della lavanda. Ed il mio modo di amare scivola dalla lama. Mentre affetto tempo. Prima di straiarlo nel pane che sto per mordere.
E mi distraggo e dimentico e sotto il mio palanto si scioglie una preghiera.
Giuro che è l'ultima.
Poi non ci saranno altri giri di giostra.
Erano prove e non tentativi.
Ed incompiuta più che mai io mi giro ancora.
Prima di affondare nel mio labirinto di parole fatte di pelle.
Lontano è la misura del mio bisogno.
Quello di cui mi vergogno.
E in cui ho smarrito una scheggia di dignità.
Con cui ho inciso il mio nome.
Con una cicatrice.
Alla donna che è in me.
Tutto l'orrore di cui ho bisogno è nei miei occhi.
Ripulisco da ogni eccesso le mie tempie. Succo di fragole acerbe. Schiacciate con la forchetta. E di incapacità di spiegare. La polpa che si insinua tra i suoi denti. Il mio sangue non è rosso. E' fatto di nuvole. E di inconsistenza. E non è un errore. Non so rispondere a chi mi chiede "se". In genere non separo la volontà dalla risposta. E me la ritrovo che sanguina e di succo di fragole lascia una scia. E si squarcia tra gli spicchi di una estate. Incastrata nell'orlo di una gonna di una femmina insana. E la distanza tra me e gli altri è vuoto pieno di mille ombre e pretese. Adesso stanno affondando le mani nella mia gola. E non riesco a dimenticare. E l'indimenticato assume nuove forme e si maschera di realtà. Ma la realtà è la peggiore maschera che io conosca. E riaffiorano le parole non dette. Ma quello che conta per me è in quei dettagli che in genere si nascondono. Incerti se essere ombra o sostanza. Vorrei solo urlare. Come urla la mente. Avete sentito quel grido? Definitemi pazza. Io ci sorrido. Non mi importa. Detesto le forme composte e meditate. Detesto i confini delle cose. Detesto il limite tra la mia pelle e l'aria. Il filtro del giudizio. E ripiego malvolentieri la mia follia dentro una scatola che la contiene a stento. Questa è presunzione. Lo so.
Oggi ho pensieri fatti di porcellana fine. Con la superficie lucida. Così gli altri possano almeno rispecchiarsi. Io ho autentica incapacità. Dote rara.
Avete mai pensato a quanto strana ci appaiana la nostra voce quando la sentiamo?
E' che i pensieri hanno una voce loro.
E anche la mente.
E' la voce che ci parla anche se non vogliamo.
A volte non fa neanche in tempo.
E di istinto ci agitiamo in una giungla di carne.
Regalami un raggio di sole.
Oggi mi serve.
Lo userò come segnalibro.
Delle pagine non lette.
Ti ho cercato in un fiore.
E sono rimasta incastrata al suo stelo.
Tra le spine.

venerdì 8 gennaio 2010

E persa e spersa tra specchi e il loro ansimare e le loro contumelie mi sono ritrovata tra le mani mille e una me. Quasi dimentica di avere pezzi sconosciuti e scomparsi li ho osservati con rinnovato stupore e sdegno. Sono nelle mie pupille. Oggi sono incastrata là. E ho cosparso queste labbra di famelica inconsistenza. Fino a sentirne fitte nella pancia. E l'ho urlata più che potevo. La mia labile volontà e i suoi intrecci d'aria. L'ho vista fare capriole. E sciogliersi nel vento. E tra la polvere. Come se un fuoco malvagio stesse mangiando le mie fantasie di carta. Il vento ha rubato ancora. Ha rubato parole al mio urlo feroce. E ciocche di capelli alla mia bambola. Non posso farle le treccine che non ho mai avuto. E farla dondolare sui tacchi che le infliggo. Il suo dolore è tra le tempie e le caviglie. Ho colorato la sua bocca di porpora. Indelebile come il sangue. Posso solo scrivere una nuova storia sulla sua pelle di plastica. E fingere che sia carne. E carne non è. Le manca il marchio di un odore. Quello che si dimentica più difficilmente. E' strano quando qualcuno ti scrive una storia sulla pelle sei l'unica che non riesce a leggerla. E non puoi conoscerla se non ti prestano gli occhi. Hai solo una voce dentro che ti racconta una storia sua. E non è mai quella giusta. Ha tante parole. E poca musica. Ma il suo odore ha una scia buonissima. Mi ricama la mente di tormento. Aghi dolcissimi. E io li imploro di non lasciarmi. Come se nel mio errore io mi faccia rinascere la voglia di cambiare. E intanto provo a dimenticarmi. E mi addormento con i piedi tra i tuoi. Ma non sempre.
Nel non sapere più dire c'è la tana della mia verità. Un pudore finto e bugiardo. E le mie nocchia nella neve. A disegnare la casetta. Con le finestrelle. E le nuvole fino al comignolo. Le tende alle finestre. E dietro la mamma. Con la mano che saluta. Non mai saputo chi. E un cielo cosparso di stelle. Stelle fatte di neve, destinate a sciogliersi. E a frantumarsi in goccioline crudeli. Fiumi di sogni. Sbagliati come molti dei sogni. Sognare è mordere voglie al confine con il peccato. Al margine tra il bene ed il troppo. E noi siamo oltre la linea. Macchio la neve e poi cerco di cancellare ogni segno. E mentre io mi strappo il perdono e l'orgoglio mi chiudo nella scatola della mia sfrenata e frenata ossessione. Qualcuno la chiama testa. Rimbomba l'abbandono. Il primo che mi strappò pelle e unghie. E non seppi reagire. Non volli spiegazioni. Mi prostrai all'altare dell'orgoglio. E seppi leccarne la più gelida delle punizioni. La solitudine. E l'impossibilità di spiegare. Ogni volta dopo. Mi sono ostinata a spiegare tanto. Mi sono avvinghiata al troppo. E mi sono sentita annodare da una corda ruvida e pesante. Quella che si proclama indifferenza. Mentre ti viene rovesciata addosso come un capolavoro di goccioline. E le senti disegnarti la miseria addosso. Il tuo essere frammenti di donna. E ti senti scivolare in ognuna di quelle gocce. Perchè scorrere aiuta a dimenticare. A non pensare. A pensare poco e in maniera saggia. Fino a divenire ghiaccio.Ma non succede mai. Arriva ancora fuoco. E ti frega la voglia fottuta di respirare. E spiego e rispiego. Lo faccio senza sapere usare le parole. E questo mi fa affogare nella astrazione. Una sacca ricavata dalla voglia assoluta di sincerità. Una fame di sincerità che ti fa ritrovare nuda. E senza forze. Come se avessi nascosto in una pozza tutta la tua capacità di difenderti. Perchè il sogno è di adagiarti in una comprensione senza fine. La goccioline sono evaporate. Ma il segno c'è. Un percorso sbagliato che non si cancella. E torna e ritorna. E ogni volta ti ritrovi sentiero vergine. Ma non è vero. Ogni volta mordi tutta la luce che ti capita. Ma la fame non passa. E il freddo neanche. E con le dita cerchi di lisciarti addosso un pò di amore. Ma dura poco. E un'altra stella di neve si scioglie e rotola giù. Da questo cielo. Di carta.
C'è un disordine morbido. Dove gli spigoli sono implosi nelle curve. Inghiottiti da svolte improvvise. Un disordine fatto di strati. Come lenzuola. Su lenzuola. E coperte. E tu ci stai comodo. E ti riscaldi e ti cerchi. E cerchi il calore. Pezzo per pezzo. Strofini il tempo sulle tue parti monche. La eco si stempera nella distanza che ci metti per trovarti i pezzi. E nel percorso senti solo il calore della ricerca del calore. E lo chiami amore. Piccolo bacio invisibile all'anima. Bacio e morsi. Ravvicinati. Tanto da sempre una cosa sola. Legame. Senza essere catena. Perchè ha le ali. E cuci i rigagnoli della assenza con la comprensione e l'accettazione. Il filo è sempre corto. Troppo corto. Ci vuole altro amore. Ancora di più. Da non bastare mai.
Il candore non è nella assenza di sporco.
Non è nella voglia di ripulirsi.
Ma nella forza di vedere.
Ha occhi grandi.
Immensi.
E a volte sembrano dita che si intrecciano.
Il silenzio della notte si mescola alla voce nella mia mente. Quella stessa voce che mi raccontava le favole. E mi confidava i segreti. E il telefono non squillava. E io ti parlavo. Anche se non c'eri. Riempivo di frasi e di risposte le domande mai fatte. E mi sorridevo. E sorridevo a te. Anche se non potevi vedere i sorrisi che ti strusciavo sulla faccia. E il mio respiro si riversa sul mio cuscino e si perde da ciglia e insonnia solida e maniche sempre troppo lunghe. Da inciamparci i pensieri. E perdersi le mani. Sospesa in una bolla blu. E pensieri dentro rettangoli lilla. Fino a schizzare in cubetti. Sembra tutto così lontano. E senza limiti. Capace di espandersi oltre ogni muro della logica. Tutto lineare e senza sangue. Come se la notte ci lasciasse scorrere altrove. Nella valle del tutto. Anche questo non_sonno. Inzuppato di sogni. E di voglia di sognare. E' che ho tutto quello che voglio. In questa bolla. Ma ho paura a dirmelo. E mi limito a sussurrarlo. Fino a stemperarlo nel coraggio. Non ci sono messaggi nella mia zattera alla deriva. Forse perchè è una tempesta immobile. Quella che attende che qualcuno le cambi il nome. Io non ho il coraggio. E continuo a non chiamarla. Le voci della strada. In un sabato che ormai è spacciato a divenite una domenica più che sfacciata. qualche luce. L'unica prima di trasformarsi in giorno. Questo è un silenzio che non vuole saperne di tacere.
L'amore è il fine e lo scopo. La perla ed il filo della collana. E a volte il collo su cui si posa. L'amore è nella carezza tonda su quella pelle. Attraversata da conchiglie mute. E nei riflessi che invadono gli occhi. Nelle pupille che da spilli di buio diventano mari senza fondo. Capaci di fagocitare intere esistenze. Il mondo e le sue paure. E la sua immensa bellezza. Senza nessuna voglia di restituirle. E sputare fuori tutto il coraggio possibile. E anche quello impossibile. L'amore è il tramite e la meta. La cruna e l'ago. Il punto in cui l'ago affonda. E inizia il suo racconto. L'amore è nel disegno che si dilata sulla tela. Fino a danzare di una immobilità immortale. Pulsa. Ha sangue immemore. E mille anime. Ognuno lascia la sua. Un pezzettino. L'amore è l'occasione. E pure lo strumento. E' la destinazione. L'origine ed il percorso. E la direzione. Basta puntare una stella. E spingersi a desiderare. E' la tela ruvida ed il pennello che la impregna. E' il colore che si inebria nelle figure. Una incognita che si scioglie. E' l'occhio che si compiace e ruba emozioni fino a farsele tremare dentro. Dentro. Fino al cuore. E alle vene. I corridoi verso l'inferno della nostra carne. E sospingere fino all'altare del bene. Scivola nei meandri di una memoria fatta di tempo e di impossessamento. Di vita e di vite. L'arte placa, livella, lima ed eleva. E siamo pezzi di cielo. E battiamo in altre vite ed altri cuori. E se gli auguri ce li facessimo ogni giorno? E se fossimo capaci di augurarci la gioia e la serenità per gli altri? Togliendo ogni velo. Ogni filtro. Senza paura. Lo dico a me stessa. E a volte mi risulta difficile guardare gli altri negli occhi. Mi rifugio in minuscoli spicchi di luna. Così sottili da sembrare canditi. E mi ripeto che nella bellezza non può esserci menzogna. Già gli auguri dovremmo farli ogni giorno al mondo. E sorridergli per la forza immensa che ha di continuare a muoversi. Sarebbe una specie di commemorazione alla vita.
Non faccio auguri.
Vi abbraccio con il cuore.
Cuore contro cuore.
Il mio cuore di carta.
Soffio la voglia di amore.
E nel soffio si piega.
Senza nessun bisogno.
Un pesce senza lisca.
Sempre.
Ogni giorno.
Come se fosse l'unico.
E ogni azione fosse il tentativo sincero di riempire il mondo di pensieri.
Perchè attraverso quelli siamo vivi.
Millimetriche scissioni di volontà.
Un imbuto gigante.
Fino alla grande pancia.
Con la voglia di credere che tutto può essere.
Non è magia.
Ma leggerissima realtà.
E' poco poco.
Di più non so fare.
E chi mi conosce sa che lo faccio anche male.
E se cambio idea e mi ripercorro poi non me ne pento.
Vi dono un "quasi".
E' un mondo di possibilità.
Non trovo più le mani del mare. Non sento le sue dita sulle gote. Capaci di levigarsi e levigarci il più blasfemo degli stupori. Quello che non ha colpa. Ma che urla al mondo. Senza paura. Non riesco a sentire il suo battito selvaggio dentro. Incastrato al mio respiro. Audace come un dardo che sbaglia la traiettoria. Quelle schegge di onde furiose che a volte mi hanno allagato il cranio. E mi hanno strisciato nella mente. Capaci di farmi fremere la schiena. Di disegnarci la follia. Goccia per goccia. Una follia lenta. Iregolare e lenta. Percorsi mozzati. E poi risucchi mordibi come abbracci. Tanto da non farti sentire la separazione. E la distanza. E mentre si allontanano ti hanno strappano un pezzetto. E non lo sai. E la sabbia è la muta testimone. E muta urla. C'è una follia che ha una magia sottile come un filo di ferro. Dentro. Un'anima in movimento. Un tronco quasi invisibile. E la senti tua. E hai imparato a non vergognartene. Anche quando te la sputano addosso. E tu la stringi forte. Come non hai mai stretto niente altro. E non è la tua pelle. E'la pelle dell'ignoto. Anche se ha freddo non lo ammette. E se le respiri contro ti accorgi che era solo neve. Ma sembrava una magia. E' forse lo era.
La magia non ha bisogno di carne.
Ma solo di una casa.
E spesso quella casa si chiama mente.
Mentre a volte non ha nome.
O ha un nome impronunciabile.
Leggilo dalle mie labbra.
Lo sto sussurrando.
E come ogni sussurro ara più di un aratro.
Mi è capitato a volte di sferruzzare a maglia la mia dignità. E le volte si sono leccate i confini. Lembi di una ombra in movimento. Occhi negli occhi. Pupille come scintille. A divorare tutto il verde che potevano. Scivolate in strati. E stralci. E frange. Di una gonna sempre troppo corta. Incompiute. Come bambole dalle treccine mozzate. Bambole amputate dalla troppa voglia di mostrare. E le ciglia nella tasca a quadrettini. Da estrarre come minaccia di redenzione. Nel pizzo delle loro mutande inutili e goffe. Per coprire una nudità inesistente. Fatta di plastica e di intuizione. E la lana si arrotola e scivola dentro nodi inestricabili. Labitinti dalle trame contorte. E assolutamente inutili. Come tutte le cose complicate. Anche questa ansia che mi adorna il collo come una collana è inutile. E mi rende fa sentire sempre sbagliata. Ma non riesco a lisciarne le vene. Eppure hanno un odore buonissimo. Prova ad annusarmi le vene. E baciale una per una.
E a ripulire le sbavature di righe deformi ed ingorde.
Rimmel dentro le occhiaie.
Come lune inverse.
Poi accarezzo le cose che amo.
Con le dita del cuore.
Stanno tremando.
Accarezzo i pezzi di amore che ho conservato.
Senza stringerli.
Ho paura di fargli del male.
So il male che l'ardore può fare.
Nella sua voglia pazza di affondare fino al centro.
E colare a picco.
E colarsi contro.
Polvere di nulla.
Mi sento così.
Perchè ho annodato il fazzoletto stretto stretto.
Per non dimenticare.
Polvere di nulla.
Semplice e imperfetta.
Come piace a me.
Eppure ha un odore buonissimo.
Lo sto ancora annusando.
La voglia di tagliare l'attimo. Di infilzarlo. Di spaccargli il cuore. Di inanellarlo. E in fondo di spalmarlo di solitudine. Come se fosse neve. Bellissima ma gelida. Si scioglie subito. E tutto torna come prima. E' un attimo che rotola sui successivi. E corre olontano. Davanti agli istanti che lo precedono. Si fa chiamare tempo. Una alchimia di numeri. Ma è solo una scheggia. Regolare ed identica ad infinite altre schegge. Schizza aspettative e risatine. Tintinnii. E si scioglie come baci sotto la lingua. Vortici di desiderio. per scavare segreti negli altri. E tacerli. Ad occhi chiusi. E quando li hai aperti il mondo non ti ha aspettato. E puoi salvarti solo arrendendoti. E' assolutamente uguale. Ma abbiamo un sordo bisogno di renderlo speciale. Perchè sentiamo il bisogno di distinguere fine e inizio. Abbiamo bisogno di confini. Di margini. Di sensazioni nette. Come se l'anima non potesse espandersi. E dilatarsi. Come una bolla di sapone.
Gli auguri sono fatti per gli altri.
Per noi c'è solo speranza.
E voglia.
E voglia di speranza.
E la voglia di continuare ad augurare.
E a saper augurare.
Perchè da soli siamo davvero poco poco.
Perchè i baci delle foglie sono fatti di rugiada. Stomi urlanti a caccia di dolcezza liquida. Mordono aria e si contraggono. E' sempre la stessa storia. E provo un disappunto indistinto. Sento che dietro un lenzuolo vergine ci siano litri di giudizio. Chi dice che non giudica ha già giudicato. Me ne frego. A me non importa mai. La cattiveria che diventa lezioncina. E disinteresse. E la bacchetta puntata sulla lngua. Pronta a colpire. Chiudi la bocca, scema. E ingoiati la lingua. Non è cuore. Credevo fosse cuore. Scema. E' altro. Il cuore non c'è. E' stato lanciato lontano. E adesso brilla come una stella pazza. Ad ogni alba si lascia possedere dalla luce. Solo un poco. Per non dimenticare. Ma senza ricordare. Non ne ha voglia. Non voglio più vomito di stelle ad imbrattarmi l'anima. Sembra una impronta. Ma prima del nuovo giorno corre a perdifiato. Tra i corridoi del cielo. Quelli che sbucano nel ventre. La chiamano notte. Io la chiamerei mavaffanculo. E poi la chiamerei sorriso. Ma in silenzio. Per rifugiarsi nel magazzino delle stelle. Quelle che dicono tante parolacce. Nella differenza tra perfezione e bellezza sono rimasta incastrata. E poi mi sono accorta che non ero. Era un'altra. Io sono libera.
Non c'è niente da capire.
Non è stato detto nulla.
Non si può piacere sempre.
Non lo voglio il sigillo della approvazione.
E a volte complicare le cose serve solo a riempire righi e spazio.
Nulla da capire.
E da comprendere.
Un vuoto che si dilata nella pancia.
Finzione.
L'artificio più vero.
Quello che ti consente di spingerti tra la mente e il cuore.
E nessuno dei due è disposto ad ascoltare.
Non è un inno.
Ma una preghiera inversa.
E non porta alla dannazione.
A volte la follia è solo una porta.
Ma non porta niente.
Perchè di nuovo si può anche soffocare. E respirare in prestito. Pensa alla bellezza del cielo. Una delle cose che puoi sentire senza comprendere. E senza vederlo tutto. Senza conoscerne la portata esatta. E i confini. La profondità. C'è. Come il bene e il male. Da sempre. E la voglia di essere ibridi. Proclamandoci diversi. Perchè la diversità è un velo. E invece ci siamo. Malati di assenza. E se non guardiamo il cielo. E' il cielo che guarda noi. Ho voglia di bendare il cielo.
Ho unghie nella pancia a volte.
Ma le ignoro.
Odio la loro voce nella mia pancia.
E poi odio me che odio.
Odio me che non so porre mai il limite.
Ma il mio limite sono solo io.
La meraviglia dell'inizio e della fine è qui.
E non si chiama consapevolezza.
Toglimi la benda.
Scivola. Goccia per goccia. La mia memoria liquida. Ricami su un qualsiasi parabrezza. Di una macchina sconosciuta. E la tua voce lontana. Come se fosse alito. Senza una storia vera. Il ricordo deforma la verità. Angolazioni. Tra la vergogna di angoli muti. Frammenti sparsi di un collage incompleto. Ma è una storia che conosco. Perchè non ne sono protagonista. E anche se so quando è finita non ne ricordo l'inizio. Quando la corolla si è dilatata. Pregna e affamata. Angolazioni anomale di un collage crudele di frammenti sparsi. La vita è una lezione lenta. Tolsi un velo alla sguardo e ti precipitai nelle pupille. Fatte di terra. E mi feci arco. Impudico arco. La ripetizione infinita di movimenti. Disuguali nella loro serie. Di un infinito. Imperfetto. La storia la osservo. Ma è sempre una sporca menzogna. E me la racconto. E la lascio precipitare dalla mia schiena come la innocenza. La oscena manipolazione della mente. La vittoria della carne sulla mente. E resto ripiegata in ventagli. A sfidare l'aria. In cerca di assiderazione. Per conservare cristalli di follia. La mia epidermide è ricca di infiltrazioni. E gli altri mi colano ovunque. Mentre i miei polsi penzolano sotto il soffitto. Come stelle. Sembrano i fiori di un campo sconsacrato. Tra castità e impudica vergogna.
Ho voglia di essere impronta concava in un mondo convesso. E mi apro e mi chiudo. E non è stupore. Ma solo la voglia di condividere il vaso dell'incanto. E colarvi a picco. Più giù che si può. Perchè il fondo non esiste. E' solo il tappo del resto.
Sento l'odore dell'estate.
Nella pioggia contro il parabrezza.
Un solo sole splende in questa notte.
E non ho voglia di scappare.
Vivrò domani.
Adesso ho solo voglia di guardare.
E la mia storia è assolutamente sotto il soffitto.
E mi guarda.

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Strana la nebbia nella mia terra di salsedine. Le pigne sulla strada e gli aghi sparsi. Come dopo una battaglia. Ha un odore che sa di lontananza. Di tanto tempo. Di tante vite fa. Le dune sfondate dal mare lasciano intravedere l'incontro tra il cielo e le onde. E quel rumore non lo scordi più. La voce del mare è un tatuaggio di suoni nella mente. Da piccola avevo sempre paure delle tempeste di pioggia in inverno. Temevi che si portasse via la nostra casa di cartone. Quasi mi piaceva. E poi pensavo al freddo. E ad altro in verità. Una mattina ci svegliammo e tutto era immobile. Dopo aver tremato tanto. Una domenica come tante. E il mare aveva rubato dei suoi uomini. Una storia incomprensibile per dei bimbi. Un pò meno per i figli di quella povera gente. Avevano incominciato a essere meno bambini. E a volte accade tutto ad un tratto. A noi metteva tristezza. Come se la cogliessimo negli occhi della gente del paese. Abituata alla crudeltà del suo signore. In un paese piccolo si condivide tutto. E tutto diventa di tutti. Anche il dolore. Forse solo quello. Per il resto ognuna ha la sua casa e le sue porte. E in quei momenti sa rinnegare il mare e le sue leggi. Nel tempo ho incontrato quei bambini. Erano uomini. "Sapete mio padre morì a mare d'inverno. Io ero piccolo. ". Ed ero piccola anche io. Tanto più di lui. Perchè ignoravo. E ricordavo. La tristezza è un ricordo grigio. Indelebile. E spontaneamente si accovaccia dentro la pancia. Senza fiatare.
Spesso ho quasi paura a manifestare questa parte di me.
Allora prese forma una delle tante me.
Aveva fame di strada e di sapere.
Parlava con le conchiglie.
Senza aspettarsi mai risposte.
Una parte legata da nodi duri alla mia carne.
La traccia della semplicità della mia terra.
Una impronta di sangue e amore.
L'amore per le parole asciutte e con poco sangue.
Hanno l'odore del sale.
E pochi sanno riconoscerlo.
E' come se ci si vergognasse a parlare d'amore.
E il diavolo che è in me ha una bocca immensa. Sorride alle mie viscere. E le annusa. E si diverte a leccarmi il cuore. Fino a farmi tremare l'anima. Non è un serpente. Nessuna forca. Ma ha la corolla di fiore. E gioca a rigirarmela nella testa. Come una sciarpa. Fino a farmi chiudere gli occhi. Per raccontarmi i colori. L'universo che un tempo persi. Un universo di colori dissolto. Per un errore. E' un diavolo buono. Spesso si pente del mal fatto. Raramente restituisce ciò che ha tolto. La chiama fame. Io la chiamerei malattia. Ha una paura fottuta del buio e si nasconde in un cantuccio ogni notte. Lo sento piangere e promettere che cambierà.Quanto vorrei credergli. Ma poi che diavolo sarebbe? Un buon diavolo. Spera di non farsi vedere. E alcune notti diventa davvero trasparente. Lo scambieresti per un angelo. Da lasciarsi le penne. E forse lo è. Ma non oso dirglielo. Credo di essere fumo. Ma abbracciarcialo è fumare nebbia.
L'angelo che è in me è sempre trafelato. Arriva sempre al momento sbagliato. E si crede cattivissimo. Ma ha solo confuso le mani con i piedi. E a volte passeggia sulle sue mani. Quasi ci balla. Basta guardargli gli occhi per capire che non sa mentire. Si rotola in menzogne a fin di bene. Perchè preservare gli altri dal dolore è il suo vestito migliore. E' permaloso. Un pessimo angelo. Ma si nasconde gli errori. Ma poi si pente e li ricerca. Anche se ha smarrito la mappa. Ha solo un vizio. Ulula alla luna. E la accarezza con le sue ali silenziose.
E io non ci sono.
Non più.
Mi sono rintanata in un angolo della mente.
Nel cantuccio che mi lasciano.
Quando ne hanno voglia.
Quando non stanno scommettendo il loro turno.
Mi limito ad osservare.
E mi basta poco per capire.
Non ho più nulla da dire.
E francamente fa un pò male.
Ma solo poco poco.
E' solo colpa delle mie mani ebbre.
Accecate dagli sputi di un arcobaleno.
Immensamente bello.
Anche se è banale.
Guardo. E a volte scivola caldo un fiume dalla testa. E detesto. Detesto le contorsioni. E gli eccessi. Detesto i salti nella mente. Perchè io so solo restare immobile. So solo distendere le ciglia nell'aria. E attraversarla. In un lentissimo saliscendi. Tagliente come un cristallo che si finge neve. Guardo e non so più vedere i disegni del polline di una primavera e del suo mantello. Il cavaliere galoppa nel mio cielo di latta. Ma posso solo sentirne il rumore. E gli zoccoli martellano sulle mie scapole. E si fanno chiamare brividi. E' tutto esagerato. Ha superato gli argini. E la piena travolge ogni margine di una pagina fitta. Fino a baciare voracemente tutto l'inchiostro possibile. Un inchiostro impudente che si finge sangue. E per dispetto confonde le parole. Guardo e non saprò mai come si conclude la storia. Ma forse non saprò l'inizio. Quando le nuvole presero ad amarsi e a rotolarsi e a scopare senza ritegno il cielo. Un inizio blasfemo. Ma è solo un gioco. E l'inchiostro si è impossessato della mia pelle. E mi cosparge addosso una storia assolutamente riprovevole. La fine è nella mia iride. Ed è per questo che ho serrato gli occhi. Per farla scivolare meglio dentro.
In alcuni istanti penso a quello che penseresti tu e mi sento assolutamente oscena.
E mi piace.
La notte è la coperta della mia fragilità. E là sotto ricompaiono tutti i pezzi di me che ho perso. Quelli che sento lontani. E hanno una voce sottile. Come se fosse una catena. E che mi sono stati rubati. Sono scivolati nel fiume dell'oblio. Galleggiando come foglie sparse e dimenticate. E il mio seno è sulla foglia della disperazione. Come un naufrago che vuole ribaltare la sua zattera. Nessuno li ricorda quei pezzi. E le foglie cercano i raggi del sole. A caccia dell'ultimo calore. Per affondare felici. Lo intrecciano alle loro dita. E sotto la coperta qualcosa si muove. Mi bacia la fronte. Mi rassicura. Sono farfalle invisibili. Ma a me basta sentirne l'odore quando mi si posano addosso. Nei miei vuoti. E mi sorrido. Non mi serve aprire gli occhi. In quell'istante so che è notte. Una notte sincera. Senza cancelli. E sbarre sulle mie labbra. E mi accarezzi. Perchè non hai paura dei miei pezzi arroganti ed indisciplinati. E la mia rabbia è là dove l'ho lasciata. A tremare di freddo nel sole. Tra le macerie. Quelle che modello con i denti. E la mia voglia di perdermi. Tutta. Solo per farmi ritrovare. Ho cucinato il perdono per noi. E ti ho donato una ustione. Bellissima a forma di cuore sul polso. Una succulenta appartenenza. Io l'ho vista la mia paura. La paura di essere abbandonata. Perchè qualcuno l'ha fatto tante vite fa. Mi ha lasciata quando era scientificamente esatta che mi stesse vicino. E allora gioco a riempire la distanza tra me e gli altri di splendide e ghiotte occasioni di abbandono. E chiudo porte di cartapesta. Per lasciarle sfondare. E mi godo il trionfo. Una solitudine perfetta. Tanto da farmi respirare dentro.
Bastava un parola.
L'altra l'avrei detta io.
Non mi fa paura.