sabato 28 settembre 2013

Nel naso di Dio ho ritrovato quell'odore che poi sento, lieve, fino alla mente. Lo intreccio e poi spoglio le spighe, buttando il seme lontano. E ritrovare il frutto, oltre le dita, fino a sprofondare nell'ignoto. E inventarsi ancora la vita, come uno schizzo, carico di sogni, ma perfidamente lieve. Zampilla l'esistenza e io osservo. E non ritrovo più il candore perchè forse è là, in quel luccichio la voglia di raccontarsi ancora, o solo di osservarsi, come vino che gocciola oltre il bordo, dopo essere stata versato. E la cautela è nel sorso, nel suggere quella goccia, prima di renderla tante incontrollate altre goccioline, perse sul collo di quella bottiglia. Ammiro sempre chi dice poco e bene. Io dico molto, troppo, e male. Come una di quelle macchioline, che macchia poco e non disseta.
Mi limito alle cose semplici ed essanziali, anche se a volte sento colarmi addosso, come colla, o come miele, il mio arrovellarmi, il mio addensarmi in prossimità dell'estremità. Una superfetazione dell'ego, con le sue spire tentacolari, o solo nastri lisci e rossi, con il profilo infido. Troppo sangue alla testa, e chiudo gli occhi. Nessuna elegia nel tormento, solo un foglio bianco, nè troppo liscio nè troppo sgualcito. E perdo il bordo della pagina. E ricomincio, sentendo il sottile e caldo piacere della carta che respira tra le dita. E ancora non ansima, mentre si cuce l'attesa addosso. Nessun commento, nessuna reazione, nessuna spiegazione. Faccio quello che sento e me ne frego. Nessuna freccia, nessun sasso, neanche la mano. Sospesa sul mondo, una lastra trasparente, assaporando l'inquietudine, e tirandola come un elastico. Sotto solo uno strato per vedere e per non farsi toccare troppo. Come se la distanza fosse la pelle giusta, una pelle che sente tutto in ritardo e lo media con il mondo. E lo restituisce sempre, anche se non tutto in fondo. 
Perchè rubiamo la vita.
Se per una volta riuscissi ad infilarci il dito dentro.
Oltre ogni distanza. 
Solo per sfiorarlo, con tutta la lentezza necessaria.
Sembra un delirio ma mi rovisto il palmo della mano in cerca della tua idea.
Ma poi mi accorgo di essere solo una pessima abitudine, persino per me stessa.
Niente di niente, senza bene e senza male.
Distratta dalla vita, anche se inciampo, proseguo.

mercoledì 25 settembre 2013

Più di una tavola imbandita, posta di traverso, quasi a sottrarmi al centro di quel mondo che sentivo sotto le mie vertebre, liscio e severo, e che raccoglieva, inclemente, ed un po' pavido la mia profferta. L'arco del mio piede disegnava cerchi contro le stelle e la mia caviglia sembrava giocasse con il vento, mentre invece giocava con il mio cuore, con quei pochi battiti beffardi che si inseguivano e si sperdevano, come polline nell'aria. E io vivevo di sensazioni, anche quella volta, e quella volta più delle altre. Sentivo la carne segnarmi il bordo e non mi curavo che l'anima di lì a poco la avrebbe denigrata, imbrattata, ne avrebbe smangiato i bordi. Non mi curavo e basta, ed il mio poco amore per la donna che mi abitava e che mi parlava da ogni oscuro meandro, poco dopo sarebbe diventata una preghiera verso una divinità ignota. Io ero là e là restavo, ignara ed indifferente. Perchè l'indifferenza è la veste che aiuta a sopportare la nudità più pura ed io giocavo con la carne fino al limite in cui l'anima riusciva a sopportare. Perchè la crudeltà era la forma che la mia mente prendeva e sapeva prendere, poco prima del piacere. Mi piaceva sentirmi donna sino al bordo estremo, quando si piegano le labbra a ghigno e tutto questo rende la mente rossa. Prima di sentire le tue dita smettere di essere occhi e penetrarmi e poi dipingermi contro il muro, più pregna del mio sapore che tu appena assaporavi. Io voglio, volevo, solo stordirti e ferirti, lasciarmi ricordare e appena smettere di dimenticare. Ed ora voglio sentire che il tuo polso si avvolge contro il mio, come una corda e che mi trattenga ogni volta che avrò paura di cadere, ancora. Io voglio questo e molto ancora, perchè l'infinito non mi basta. E non vorrei bastarti mai. Io, e le mie paure, ed i miei limiti e tutto quello che posso diventare, anche la notte più buia in cui precipito. Ecco io voglio essere la tavola che si stende ai tuoi occhi, la corda che si avvinghia al tuo piacere, la  prima stella che raccoglie il buio e lo sperde. Ma voglio che tu sia la mano che mi frughi nella mente, e nella carne, e dentro il cuore. Senza farmi male. E che mi tiene quando sento di precipitare, come una radice di un cielo inverso.
Senza direzione.
Non voglio più vergognarmi di quello che sono e che divento.
O che qualcuno di chieda di essere migliore.
Io sono una tavola povera e sincera,
di anima e corpo.
Forse di cuore.
Quello che resta, dopo il banchetto.
Io sono questo.
Oggi, o forse ieri, o neanche pià ricordo quando, guardavo il cielo e mi soffermavo nel volo incrociato di due gabbiani. A volte la natura ci sorprende con una meravigliosa esattezza, imprevedibile perfezione dell'inconscio. E tutto quello che sfilava sotto la patina dell'indifferenza e del consueto, si palesa, e prende la forma, ai nostri occhi vergini, dello stupore e della meraviglia. Nello stupirsi c'è una scintilla che ci rende pericolosamente vicini alla verità, frammisti al respiro. Pensavo a quante volte blocchiamo con le parole le figure, fino a renderle idee, bava di pensieri, scie e frammenti di un'anima che intuiamo ed afferriamo a quante immagini abbiamo ignorato, nell'intento di vivere e che magari hanno lasciato in noi un segno, forse più profondo di quello che noi conosciamo e del quale ci rendiamo conto. Tutto avviene, come fossimo immersi nella inconsapevolezza più lieve e leggera, come se fosse aria. Ed aria la vita che ci scorre intorno, addosso, vicina vicina. Fino a sfiorarci, impattarci o solo correndo come una freccia verso un infinito che non ci appartiene fino in fondo o che ci plasma senza delinearne mai la forma.
Mi sento ruvida, con il cuore asciutto e nudo.
Come una vena dimenticata dal sangue.
E gli guardavo gli occhi, come due lame, sottili e lucenti, come due lune accasciate, senza una gran voglia di parlare; speravo mi capisse, cogliesse le mie intenzioni, come fiori ambiziosi, dalla corolle attente, pronte a sbocciare. E poi inclinai la testa, come facevo quando avevo bisogno di coccole, e sentii le lacrime che mi bagnavano il viso fino al mento e giù di lì. Non senza spingere le iridi contro il cuore, oscurando ogni segno di cedimento e di debolezza. Perchè la mia fragilità era tutta nei miei occhi. Il resto era un orpello inutile, destinato ad evaporare, come se fosse rugiada che andava incontro ad una nuova alba. E nel negarsi la comprensione, vi era tutto l'orgoglio ferito, maciullato, sbriciolato. Ed una nuova voglia di preservarsi, di trattenere il vento e lasciarsi sconquassare l'anima e la mente, senza soluzione di continuità. Tutto il resto non aveva bisogno di parole, perchè avvertivo una profonda noia per le parole. In fondo mi serviva solo la verità che dal fondo al bicchiere si diluiva nella mia gola, mentre sorseggiavo quel piccolo pozzo di desideri.
Non essere compresa era un lusso che mi rendeva fiera e triste.
Nello stesso momento.
E non sapevo smettere.
Eppure un sorriso, uno speciale, era proprio dietro le imposte.
Appena sulle mie ciglia.
 
Dividi il sole con me, amica mia? Dammi la mano. Ancora una volta. Spicchi di luce si incastrano con ombre latenti. Inesatte ma seducenti. Nell'intrigo che ci sbatte l'anima e la raggruma, fino a lasciarci credere che il dolore può devastarci e prendere il posto della vita. Più denso del respiro. Fiori di carne e macchie rosse e dense, come le mie parole addosso alle tue, a lisciarsi l'anima. Dammela la mano. E' vero,  tu non la hai mai lasciata. Come se fossimo fiori dalle corolle invisibili, a caccia di notti ventose e fameliche. E le tue dita si mescolano alle mie, senza ritegno; sono fili d'erba odorosa, divisi dalle albe che si sono addossate, e ci hanno viste unite, a dimenticare le lacrime ed a raccontarci storie. Tante. E a riconoscerci dall'odore, quello del ventre che ha posseduto l'anima. C'è una dignità diversa che mi colpisce. Una strana sostanza che è molto vicina alla verità, e spesso la ricopre e spesso ne resta scoperta, come uno strano ed irregolare lembo. Ed è come se il sole rendesse tutto meno visibile e troppa luce diluisse i dettagli. Mi piace osservare la vita come una luna di carne, immersa in un buio precario che non chiede. Ed appena conta. Pulsa come il battito tra le linee del polso e si dirama in linee del destino nel palmo di una mano. Giusto quello che basta. Mordilo, una volta solo, con me, questo sole. Almeno un pezzetto. Fino a sfondarla la volta celeste ed a piazzarci tutte le lune sorelle che ci pare. Perchè si è donne e silenziosamente avvolte tutte da sogni inconfessati. Ecco vorrei un cielo sgualcito dove le cose hanno il loro nome. E non importa conoscerlo. No, non ci importa.  Splendete con me, lune di carni sconosciute? Più che si può. E del resto non ci importa. Si chiama rispetto, e forse solidarietà. E solo chi vive certe sensazioni può arrivarci a quello strappo. Dopo del quale si rinasce. Sì. Brillate. 
 
Come pietre lisce e levigate le parole si atteggiano a pila precaria. La voce dell'acqua scandisce gli spazi. Come se la precarietà fosse il perno della coerenza, di quella coerenza che chiama gli errori a gran voce e scandisce i respiri. "Vieni nel bosco, seguimi". Mi piace ordinartelo. E sentirmi il fruscio della tua volontà che mi segue. E questa volta, una tra le tante, non chiedo, sussurro. Come quando le farfalle muovo le ali, indecise se spiccare il volo o muoversi i colori nell'aria, incontro alla luce. La voce dei sassi segna e cancella, come se ci fosse rimorso nel tempo che sfoglia, leviga ma non cancella. "A piedi nudi, sento l'erba tra le caviglie. E non è inutile". I graffi mi disegnano il passaggio e rincorrono i passi. "Ho il fiato corto, ma non mi fermo. Respirami vicino. Voglio guardarti mentre mi baci. E mentre ci imbrattiamo di rugiada". Non conto i giorni. Non più, mentre le albe si schiudono sui miei polsi, come tagliati, piccoli solchi che si rincorrono. "Nel bosco ti dirò il mio segreto". Ho cercato di plasmarmi e di piacere. Anche se mancava la scintilla. "E ho sognato un fuoco, più sincero delle sue fiamme". Nelle foglie leggo le risposte e ne assaporo la superficie, in una danza di dita e oblio. Non cerco, attendo. Ma nell'attesa vi è la ricerca più dolorosa, più pregna, più fiuduciosa. E la fiducia è l'illusione più crudele delle fate. E teneramente mi astengo. "Perfetto? No, sommamente sciocco". E mi liscio le caviglie e ci ritrovo parole ignorate. A cosa ti avvicini di più? Cosa sei? La porta del bosco ha spiragli? Perchè la rotta è persa, tranne che in un punto, dove scintilla ancora un frammento di stella.   

Ero là. Esattamente là, ad un passo dai tuoi occhi. Ci sono sempre stata ed ti imploravo di guardarmi. Invisibile e fastidiosa, come un vetro sporco. Ingombrante, come un pacco non desiderato. Forse un piatto fumante, nei giorni sazi. E non versavi i tuoi occhi su di me. Mai. Mai una parola, un saluto affettuoso, una cosa qualsiasi. Mi usavi, come velina, per lucidare la noia che incalzava, sempre di più, sfogiandomi come una margherita cagionevole, con al centro un cuore giallo, che avrebbe voluto solo luce sui suoi petali. Un poco di tenerezza sincera. Adesso se ci penso, non fa male, credimi. E smettila di sentirti un eroe del male. Sembra sia accaduto ad un'altra, e sicuramente è così. Da qualche parte qualcun'altra sta sentendo questo stesso vuoto, o troppo pieno. Ed è quello che ci dovrebbe rendere solidali. E non vestali di una dignità sgualcita, pronte a sciorinare lenzuola candide e preziose, su cui strusciare i nostri sessi, come se avessimo la luna tra le cosce. La luna è nel cuore, mettiamocelo nella testa. Capita a tutte, perchè noi donne siamo inguaribili cacciatrici di sogni dentati, destinati ad agganciarsi, con le loro lamette, il cuore, prima o poi. Se solo ripenso alla dovizia e cura con cui ho raccolto i rifiuti, ripetuti e tronfi, intervallati da quelle incertezza che alle sciocche fa credere che tutto sia possibile, e si srotola in trempide attese. E le menzogne poi. Tenendo tutto questo stretto, con un nastro scarlatto, uno o più giri. Potrei giurare che non sia accaduto. A me ed in questa vita. Sembra così ridicolo tutto quel dolore, inutile come il giornale del giorno prima. Ed è così semplice, visto senza pelle, come ora. Perchè l'indifferenza tira come salsedine, e graffia, e prima o poi smetti di sentire, e te ne accorgi solo dopo. Ecco adesso è quel "dopo". Siamo malati di bisogno e quel bisogno di sentire, che si fa tremare mente e cuore e poi ci lascia come fili d'erba in una notte qualsiasi. Ignari del nostro nome e della nostra identità, quasi incapaci di sentirci alberi, dalle fronde lussireggianti. Perchè io al bosco ci credo ancora, al bosco nella notte, alla cappa di stelle sopra le foglie ed alla loro luce buona che si bagna di rugiada. Quasi come una favola sincera, che non chiede. Non più. Ora so. Ora lo so. E mi astengo. Perchè l'amarezza è solo nel non aver compreso, mentre era troppo facile. E vorrei solo che la rabbia verso me stessa, riesca a diradarsi e a ritrovare quella luce, come una corda, una mano, e una carezza. Adesso lo so. Si può vivere al buio. E chi lo fa ama la luce disperatamente, e la rispetta.
Come si dovrebbe.
Voglio e vorrò essere la cosa più lontana e diversa rispetto a quello che sono stata. Senza gelosia, senza mancanza di rispetto, senza senza sogni. Senza nulla. O solo un poco meno sbagliata. Almeno per ricominciare.
Se amassi le faccine ci avrei piazzato un sorriso.
Oggi avrei solo voglia di scrivere cose tristi. Perchè sono triste, e non dovrei. Ma lo sono, quasi irrimediabilmente. Ed è una situazione ancora una volta complessa ed inestricabile. Il contrasto tra quello che sei e quello che gli altri si aspettano da te. E tutto mi pulsa nelle tempie. E questa tristezza respinge. E sono sola, come mai prima. Il mondo sembra troppo veloce o troppo lento e io sento la pelle che striscia, che stride, che quasi diventa elettrica, contro tutto questo. Non so spiegare, non so descrivere, non so fermare, eppure vorrei, vorrei frapporre e spingere le dita dentro tutto questo. Come quando infilai un piede sotto la sedia a dondolo, e mia nonna e mio fratello, che lei cullava al petto, quasi cadevano. Eppure io lo studiai, analizzai il movimento, prima di infilare il piede, sotto. Mi sento di assorbire il dolore degli altri e non voglio più. Gli altri ti riversano il loro dolore, i loro problemi, le loro inquietudini. E tu le assorbi, le lisci, le levighi. Fino a non poterne tu. Perchè in tutto questo, hai quasi perso il tuo sangue. E non ritrovi più te stessa. Non so. Non mi sono mai sentita più inadeguata a vivere. Ogni mio sogno, ogni mio desiderio, ogni mia aspettativa è stata accartocciata, appallottolata, a volte sventrata. E così ogni mia paura. L'ho confessata e subito è diventata realtà. Perchè io credo che la magia si abbia solo quando qualcuno ti percepisce per come sei e non ti vuole diversa. E non so fermare tutto questo ed uscire dalla mia testa. Forse è questa la solitudine che ho sentito spesso descrivere. La impossibilità che gli altri giungano davvero fino a te e che tu giunga a loro. Sono portatrice insana di tristezza ed in un attimo tutte le mie certezze sono voltate via, come farfalle. Ho decisamente bisogno di dimenticarmi. Di un poco di sano oblio.
E poi nascondersi, solo per essere cercata.
Finalmente.
Rendersi puntino, piccola stella di polvere. In attesa del soffio al ridosso del vento, di un vento che urla e racconta. E perdersi, accavallarsi, allitterarsi, rotolare, nel senso strisciato di parole che si addossano a parole, e pensieri a pensieri, e tormento e gioia si mescolano in una coppa, e tu hai una voglia pazzesca di leccarne il bordo e specchiarti in quella zuppa che ti darà un nuovo colore. Non riesco molto a parlare. Io ascolto e mescolo una confusione calda, e crudele. Non lega nè leviga, e io affondo e l'aria è il mio cappello. A volte mi vesto di stelle, ma solo per spogliermene. E per strappare insieme a loro una rabbia sottile, come un velo indaco; perchè il mio valore si deforma nel tuo ghigno e nel tuo alito sul vetro e nei tuoi occhi che mi guardano fino a sotto, come se fossi la grotta del peccato. Il sapore dell'impotenza e del parlarmi addoso è quasi logoro, osceno ed ondeggia, come fa una fanciulla sui suoi tacchi, e si conta la vita nei passi.
Ancora uno.
Ho dimenticato come si resiste.
Ancora un altro.
Io non so più resistere.
Ed urlo.
Ho chiesto aiuto.
Ho steso la mano.
Un nuovo passo.
In attesa della carezza.
Non è arrivata.
Come se io fossi petalo di carne.
Da straziare.
E gocce di sangue tra le spine.
Forse promesse.
 
Nel flusso di corrente, energia e mistero, e poi luce, mi sento pesare addosso una inconsistenza quasi eterea, oserei dire cosmica, se fossi e rispettassi di più la mia mente e quella, macchiata, fosse il mio solo credo. E quella scia segna e sibila addosso, come se pensassi con il corpo e nulla prendesse la sua forma, e poi avvolge ma inevitabilmente scopre, e profondamente. Ed è come se tutto restasse sensazione, intuizione, pugno di luce che non si addensa mai in materia. Non so dialogare, mi risulta difficile. E mi macchio di una solitudine che è quasi rabbia, e sfiducia e non dovrebbe. Una specie di grumo d'anima che non si liscia e si accavala in virgole imprecise. Da tanto tempo, ormai. E non so spiegare. Come se fossi un nodo d'anima e di carne. E le mie vene le arpe di questo sentire sfuso e stonato, disordinato. Avete mai sentito una campana nel vento? Io forse no. Ma la ricordo nitidamente. Ed anche un mondo bianco e sospirante, come una spada e la sua lama. E l'odore di legna, forte e maschio. Quasi brutale, ma terribilmente rassicurante. Vivo di cose piccole, di recente. E un poco mi piace, e per il resto, mi slento nell'attesa di quell'evento che di vita ha poco, ma che io so che esiste. Lo sento. E di sensazioni mi svesto, per sentirle più vicine. Perchè nel corpo si celebra il tripudio dei sensi e della mente. Ed io odio le cose riscaldate che non sanno ardere. Appassionatamente. Almeno così me la ricordo essere la vita.

*

Come se io fossi la donna formica. Annusavo un mondo fatto di terra. E spesso ho sentito il sangue della terra poggiamo le dita sulla corteccia degli alberi. Per sentirne il battito. Ed il mio su quel tronco. Le risposte data dagli alberi hanno una voce diversa, una musica profonda che le pervade, una specie di senso diverso che puoi solo intuire e mai spiegarti, mai fino in fondo e non devi descriverlo a nessuno. Ti basta sentirlo. Le cose cambiano e gli altri cambiano con le cose, vite che si avvolgono e si srotolano, altrove, in altri venti. E la mia che sfiora questo sangue di albero, e le sue parole. E riavvolgo le mie cose per tenerle vicine vicine, prima di lasciare andare tutto via. Una specie di calco sul cuore. Ed è che il cuore spesso fatto di mani, di dita, di carezza, di presenze. Ha molta più carne e fiato, di ogni possibile previsione. 
E spesso tace non perchè non ha da dire, ma perchè vorrebbe dire troppo.
C'è una scia grigia nel cielo che lo rende irresistibile stasera. 
Sembra che i gabbiani ci giochino intorno e ricamino il cielo.
Ed è preziosa questa malinconia come un salto che la mente fa a piedi uniti.
E mi ritrovo presa da lettere che sembrano nuove
e che stranamente sento familiari.
Come se la vita ci sputasse fuori dalla sua pancia con un solco.
Quasi invisibile.
E prima o poi arrivi il suo incastro.
Magari l'occasione.
Forse un respiro.
O un frammento di sensazione.
Una scintilla negli occhi degli altri che non so smettere di guardare.
Come se fosse un dono.
E forse lo è.
Un sogno, subito dopo il risveglio, frammisto agli sbadigli.
Teneramente confuso.