Non è uno di quei giorni in cui mi va di raccontare. E' raro che io lo faccia perchè adoro ascoltare, anche quando non riesco a smettere di parlare. Mi piace perdermi in quei corridoi che si spalancano nel contatto tra menti. Anche se non vedi fino in fondo e ti piace intuire. Qualcosa che si avvicina all'onestà mentale ma che spesso si ripiega, all'improvviso, come una spada sul fuoco e cerca solo carne da ferire. Io, in genere, scivolo su pareti. Come un ragno pigro e lento. E mi sporco di astratto pensare. Oggi mi va, invece, di pensare a voce alta, o meglio a dita strette. E forse anche ieri. In una lettera che vorrei far volare come un piccolo aeroplano di carta. O vorrei far navigare come una barchetta in un lago. Mi piace pensare, e questo vorrei, che fosse capace di scivolare e arrivare in un posto pieno di luminosa e leggera comprensione. Senza bisogno di nome. Chiamiamola condivisione, quasi per convenzione. Io la chiamo dono. Perchè tutti coloro che ho incrociato mi hanno donato qualcosa, in questo mare di pensiero e di pensare e di pensato nonchè di pensabile e forse di impensabile. Anche quando non ne avevano intenzione. C'è sempre uno scambio silenzioso, anche quando ci hanno portato via qualcosa. E paradossalmente ci hanno portato via qualcosa anche se non hanno portato via nulla. Nell'inconsapevolezza di cui siamo affetti noi uomini, nella circonferenza di cerchio morbido che si chiama vita, gli altri sono portatori, sani o insani, di doni. Un blog? Ne ho avuti tantissimi, e ci ho messo dentro pezzetti di anima sfusa, quasi rigurgiti di un'anima a tempo. Piccole e leziose cronache di morti annunciate. Malate di precarietà. Poi le trovavo diverse da me, da me mentre rileggevo, e stavo vivendo, dalla mia mente e dal mio respiro, in quel momento, e spesso, quasi sempre, ho cancellato. Era una specie di tentativo di ripulire le tracce di un percorso invisibile. Come la sosta breve di una gatta che si lecca il pelo per ripulirsi. Ma un blog? E' libera e sacrosanta manifestazione del pensiero e del sentire. E' l'incrocio tra lealtà e pensiero. Dentro una circonferenza che si chiama rispetto. Gli altri si affacciano a quel balcone. Qualcuno viene invitato ad entrare. E penso a tutti coloro che, a differenza di me, in una pagina ci hanno infilato pezzi della loro vita e pudore ed emozioni e tanto sentire, puro, come gli veniva dall'anima, ecco penso che posti come questo, grazie a loro, siano fogli istintivamente ed ugualmente preziosi. Un sentire precipitato dal proprio respiro. E hanno pensato e creduto, in maniera incauta, quasi da sprovveduti, di affidarlo a questo vento, che non sempre è portatore di giustizia e che spesso diventa capace di spezzare i lembi di quella circonferenza e di sporcare l'intimità di un pensiero.
Niente è più intimo di un pensiero.
Nel condividerlo c'è quasi religiosa bellezza.
Radici più profonde dell'amore.
Grondano di rispetto.
Devono.
E hanno una voglia pazzesca di lasciare esplodere i loro frutti.
Come al solito la mia matassa è andata alla deriva e la mia precaria linearità mi ha impedito di dire, o meglio di dire in maniera chiara e non equivoca, che mi dispiace ogni volta che la libertà del pensiero viene mordicchiata. Offesa, annegata, strappata. Sembra quasi di ritrovarsi in un giardino senza petali, senza fiori, pieno di steli orfani.
Ogni volta che si rinnega quella libertà si uccide un fiore.
lunedì 31 ottobre 2011
mercoledì 26 ottobre 2011
Quel bisogno disperato, inutile e grondante di disillusa e asfittica gravità - come solo la disperazione sa e sa essere - all'improvviso, quasi ti schiaccia e ti spinge e ti costringe. A tornare indietro. Un passo ed un altro. Le ginocchia che si sfiorano. Le caviglie che si incrociano. Non è un ritorno nè una resa. Quasi si sovrappone senza diventare endiadi. L'orrore che si specchia con l'inutile. Senza guardarlo mai negli occhi. Ti riduce a farti nastro. A riavvolgerti. Insieme ai tuoi passi. I sogni sotto il braccio. Un vortice di donna e seta e dolore. Astratta. Come squarciare un velo, un lenzuolo o un nuvola. A disegnarti contro il muro. Sempre più astratta. Polvere, sangue, vertebre e respiro. Ed ogni respiro sentire graffi e carezze sulla schiena. In una alternanza iniqua. Ed una voce. Mai la stessa. E' disperato, ed urlato, morso e sputato, quel bisogno di dire tutto e di non lasciare nulla di non detto, di non provato, di non pensato. Di ripulire ogni traccia di pensiero con le parole. Di asciugarlo nel sole. Come se i pensieri fossero panni umidi desiderosi del calore e della luce. Di liberarsi da quell'olezzo maldestro e precario, quasi pungente. E tutto potesse prendere il suo senso ed il suo significato, solo se illuminato, nella luce giusta, inesatta, ma confortevole e buona, e solo se perfettamente asciutto, oltre ogni margine di umida titubanza. Al di là di ogni plausibile incertezza. Per quel bisogno, quella voglia, per quel delirio, mi sono persa. Sole dopo sole. Come una palla da calciare lontano. A sfondare il cielo, come una finestra. Mi sono stordita ed ebbra ho vagato nell'alternanza del buio denso e della luce invadente. E adesso continuo a dire, e ridirmi addosso, fino a vestirmi fitto di parole e solitudine lurida. Non sono mai stata più sola di questo adesso. Svuotata e vuota fino al fondo, come una bottiglia frantumata. Perchè ho provato l'euforia del gioco imperfetto. Quello che non finisce mai e nel quale tutti vincono e tutti perdono. E nel cercare qualcosa, qualsiasi cosa sia. Datemi quello che volete, anche la cattiveria, purchè sia vera.
E pettino la mia malinconia.
Infiniti colpi di spazzola.
Fino a rigarmi cranio e pensieri.
Ed è come rovistare i ricordi.
E spogliare le bambole.
Erano le prove tecniche del mio essere donna.
Le dita intrecciate, le labbra sopra il vetro.
Prima di posarle sopra un foglio e premerci una speranza, a stampo.
Destinazione paradiso.
Uno qualunque.
Magari piccolo e modesto.
Nulla di pretenzioso.
Non sono un angelo.
E pettino la mia malinconia.
Infiniti colpi di spazzola.
Fino a rigarmi cranio e pensieri.
Ed è come rovistare i ricordi.
E spogliare le bambole.
Erano le prove tecniche del mio essere donna.
Le dita intrecciate, le labbra sopra il vetro.
Prima di posarle sopra un foglio e premerci una speranza, a stampo.
Destinazione paradiso.
Uno qualunque.
Magari piccolo e modesto.
Nulla di pretenzioso.
Non sono un angelo.
mercoledì 19 ottobre 2011
*
Vorrei descrivervi l'attimo dopo. Un rigurgito di quel mentre che ci inchioda a muri invisibili. Quell'istante che arriva immediatamente dopo il graffio. E ancora lo è. Trattiene la sua scia. Quando non riesci ancora a separare la ferita dalla carne, dalla pelle, dal sangue. E dalle ciglia piene di fango. E non sono neanche le due facce della stessa medaglia. Dell'errore e della verità. Non sono antitesi, anche se pensarlo fa bene. Come un sorso di acqua nell'arsura. Ne vorresti ancora. Come se il primo sorso non ci fosse mai stato. Righi dopo righi. E parole infilate là per caso. Perle di una collana spezzata. Come quando senti che devi proprio dire qualcosa, perchè tutto non vada perso. E ti lasci annegare in un precipizio pieno, troppo pieno, di parole. Le senti nella gola e poi scivolarti nelle viscere, senza divenire mai radici. Quando non senti per non sentire troppo. Ti spingi più lontano che puoi ad urlare contro le stelle. A scuoterle e a strappargli il posto.
Dopo quell'attimo non sei più la stessa.
Smetti di essere intera.
Di essere completamente felice o triste.
Resti ibrida.
Macchiata da ombre.
Ed ogni carezza fa male. Un male assurdo, e neanche sai che nome abbia quel dolore e fino a che punto ti sia braccio, mano o ginocchio. O solo gomito. O frammento di melodia. Un salmo antico. E' come se la pelle debba riabituarsi ad ogni alito che le si avvicini, al suo fruscio, al suo posto nell'aria, al suo rumore incauto, al suo calore ed alla forma che ti lascia e che prendi.
Ed ogni sussuro ti cade inerme in grembo. Come un insetto che ha urtato contro il vetro.E si ribalta con le sue piccole zampe all'aria. Una piccola morte che si accascia sulle gambe, prima di finire di morire altrove. Una biglia senza traettoria, e si scheggia senza rompersi mai. Avevo coccinelle nella mia scatola. E non capivo perchè volessero scappare. Credevo che una scatola fosse un piccolo mondo. E mi rifugiai nella mia. Per gioco. Perchè mi piaceva guardare il mondo dei suoi angoli. Mi aiutavano i giorni ed il tempo. E coloravano la vista del mondo, l'impatto e l'urto. Il mio mondo era la mia mano e io la sua coccinella, dentro la sua scatola.
Là non avrei sentito.
Nessuna prigione è peggiore di quella che siamo riusciti a costruirci.
Da soli.
Dopo quell'attimo non sei più la stessa.
Smetti di essere intera.
Di essere completamente felice o triste.
Resti ibrida.
Macchiata da ombre.
Ed ogni carezza fa male. Un male assurdo, e neanche sai che nome abbia quel dolore e fino a che punto ti sia braccio, mano o ginocchio. O solo gomito. O frammento di melodia. Un salmo antico. E' come se la pelle debba riabituarsi ad ogni alito che le si avvicini, al suo fruscio, al suo posto nell'aria, al suo rumore incauto, al suo calore ed alla forma che ti lascia e che prendi.
Ed ogni sussuro ti cade inerme in grembo. Come un insetto che ha urtato contro il vetro.E si ribalta con le sue piccole zampe all'aria. Una piccola morte che si accascia sulle gambe, prima di finire di morire altrove. Una biglia senza traettoria, e si scheggia senza rompersi mai. Avevo coccinelle nella mia scatola. E non capivo perchè volessero scappare. Credevo che una scatola fosse un piccolo mondo. E mi rifugiai nella mia. Per gioco. Perchè mi piaceva guardare il mondo dei suoi angoli. Mi aiutavano i giorni ed il tempo. E coloravano la vista del mondo, l'impatto e l'urto. Il mio mondo era la mia mano e io la sua coccinella, dentro la sua scatola.
Là non avrei sentito.
Nessuna prigione è peggiore di quella che siamo riusciti a costruirci.
Da soli.
lunedì 17 ottobre 2011
*
Nella assordante precarietà di cui mi bagno mi sforzo di cercare un senso. Precipito, solo per strofinarmi il cuore, tra strati di aria; forse per stupirmi. E spesso la vita fa da sè. Supera ogni previsione. E si strappa l'orlo nella più irragionevole delle previsioni.
E mi guardo vivere.
E vivermi.
Supplice carnefice.
Nel gioco soporifero ed indolente dell'impossibilità.
Chi vince perde. E sa che aveva già perso prima di tirare i dadi.
La sfida tra anima e cuore. E forse non vi è differenza. A volte mi consolo nel dirmelo. Nel modellarle. Nel farle l'una specchio dell'altra. O solo ombre reciproche, con il vezzo della forma. O di una prospettiva diversa. Di uno sguardo nuovo, o solo dimenticato. Come se avessimo tante voci con il medesimo timbro, ognuna fiera delle sue parole e prodiga di storie. Io adoro quella che mi racconta le favole. Quando fiorisce e si adagia mentre io ho persino dimenticato quel disperato bisogno, nascosto ed affondato in un dimenticato mio dove. Inespettata delizia si scioglie nei pressi del cuore e mi bacia, dolce e perversa, la schiena e poi le dita e senza fermarsi mi insegna a non avere freddo. Gioca con i miei brividi e li intreccia con fili d'erba. O forse con un abbraccio. In momenti come questi, sono oltre la pioggia. Oltre tutta la pioggia che mi è capitata, che mi ha scontrata, che mi è venuta addosso. Oltre le nuvole. Oltre ogni goccia disperata che si finge cielo e suo pianto. Sono qua, esattamente qua, nella mia pelle. E nel suo calore, precario e tenero, come una foglia nel vento. Quasi rifugiata in questa dimensione dove la mente si crede cuore e il cuore si lucida le scarpe per cancellare ogni alone. Ed ogni passo. Non c'è nessuna pioggia. Non più. Ma tornerà ed, anche se io non sarò ad attenderla, saprò accoglierla. Se potessi sostituirmi la mente con un pezzo di cielo sarebbe più semplice. E questo tormento, così irregolare, una spirale, o una linea pazza, o un puntino, una lama sottile, oppure un fiore pulsante, sarebbe forte, al punto da farla tremare, da farla piovere, da farla aurora o notte, da rivestirla di stelle, o di lasciarla nel buio.
Come se nulla fosse mai stato.
Un pieno, un troppo pieno.
Ingordo di vuoto.
E mi volto.
Solo per continuare a guardare.
O solo per aprire ancora gli occhi.
E mi guardo vivere.
E vivermi.
Supplice carnefice.
Nel gioco soporifero ed indolente dell'impossibilità.
Chi vince perde. E sa che aveva già perso prima di tirare i dadi.
La sfida tra anima e cuore. E forse non vi è differenza. A volte mi consolo nel dirmelo. Nel modellarle. Nel farle l'una specchio dell'altra. O solo ombre reciproche, con il vezzo della forma. O di una prospettiva diversa. Di uno sguardo nuovo, o solo dimenticato. Come se avessimo tante voci con il medesimo timbro, ognuna fiera delle sue parole e prodiga di storie. Io adoro quella che mi racconta le favole. Quando fiorisce e si adagia mentre io ho persino dimenticato quel disperato bisogno, nascosto ed affondato in un dimenticato mio dove. Inespettata delizia si scioglie nei pressi del cuore e mi bacia, dolce e perversa, la schiena e poi le dita e senza fermarsi mi insegna a non avere freddo. Gioca con i miei brividi e li intreccia con fili d'erba. O forse con un abbraccio. In momenti come questi, sono oltre la pioggia. Oltre tutta la pioggia che mi è capitata, che mi ha scontrata, che mi è venuta addosso. Oltre le nuvole. Oltre ogni goccia disperata che si finge cielo e suo pianto. Sono qua, esattamente qua, nella mia pelle. E nel suo calore, precario e tenero, come una foglia nel vento. Quasi rifugiata in questa dimensione dove la mente si crede cuore e il cuore si lucida le scarpe per cancellare ogni alone. Ed ogni passo. Non c'è nessuna pioggia. Non più. Ma tornerà ed, anche se io non sarò ad attenderla, saprò accoglierla. Se potessi sostituirmi la mente con un pezzo di cielo sarebbe più semplice. E questo tormento, così irregolare, una spirale, o una linea pazza, o un puntino, una lama sottile, oppure un fiore pulsante, sarebbe forte, al punto da farla tremare, da farla piovere, da farla aurora o notte, da rivestirla di stelle, o di lasciarla nel buio.
Come se nulla fosse mai stato.
Un pieno, un troppo pieno.
Ingordo di vuoto.
E mi volto.
Solo per continuare a guardare.
O solo per aprire ancora gli occhi.