martedì 25 marzo 2014

E poi un pugno al cielo...

Non ci sono favole senza sangue. O forse non le ricordiamo. Ci abituano ad una idea di sogno frammisto a carne, e quello poi lo rivoltiamo nella testa. Quello che scambiamo per pensieri è solo la vita che si frantuma e si ricompone. Nella sua sede più fervida, la mente. E sangue, goccia a goccia, ci ripassiamo a mente. Forse una dolce nenia. O una poesiola. Spasmi del cuore che lo contraggono me un piccolo ventaglio di carne. E i suoi battiti come fuochi di artificio. Piccoli tamburi irregolari, alla deriva. Eppure non lo sai quanto possa essere dolce il rumore dei miei battiti, vicino al tuo orecchio. Un suono che cola lento e se ti bagnasse non riusciresti a dimenticare, quasi come il respiro di una stella. Non sono romantica, ma so essere perdutamente oscena. A modo mio. Mi ha sempre terribilmente eccitato litigare con te; è una specie di orgasmo inverso, quasi a chiederti di scoparmi la testa.

Deve esserci da qualche parte un giorno perfetto per ognuno.
Se penso al mio passato le cose che raccoglierei si raccolgono in un pugno.
 
Il pregiudizio dell'incompiuto è una porta sbattuta sul naso. Io ci vedo un filo mai spezzato ed assaporo la modesta sensazione di piazzarci un dito sopra, in un punto qualsiasi, per renderlo senza presente e senza passato. Ed il suo futuro dal mio dito in poi, piccola artefice di piccoli domani, di prospettive ed aspettative. E gioco con le ombre, fino a dimenticarne la provenienza e mischiandomi alle loro sagome come vite ribaltate. Ci sono cose che mi piacerebbe raccontare, non perchè darebbero una idea meno vaga di me stessa, ma perchè le sento dentro.
E là le lascio.
Oltre ogni illusione, e nell'aurora che si perde nella luce
che a volte sa essere più crudele di una spada.
Mi sento attratta da una sempre più strana attitudine alla realtà.

ero io

Anche se...

Lenzuola di brividi e timore e carne rivestono il mio pudore.
Pulsava di battito antico.
Lo avvolgono e lo soffocano.
Cianotico e asfittico baule è il corpo.
Ho chiuso la serratura e ho perso la chiave.
La mia pelle sente ma dimentica.
E dimentica se stessa.
Si perde nei giochi della mente.
Stinta la mappa di impronte fameliche.
Sembrava neve.
La raccolse.
Era meravigliosa malinconia.
Sparsa e colpevole.
E consapevole nel suo gelido candore.
Non la trattenne.
Non per tanto.
E i polpastrelli furono gli unici testimoni.
Muti.
Bambina con il riflesso ricamato dal fango. Con il bordo di desiderio. Accarezza la sua sagoma e la lecca. E cancella la solitudine. Come perdono negato e amore mai chiesto. Ma nato. Fiore selvaggio. Figlio del sole e del vento. Nutrito dalla pioggia. E dal caso. Sazio di periodiche probabilità. Provvide diseguaglianze.
Le sue mani offrivano supplici schegge di delirio e di sogni.
Puri e onesti. Erano petali. Di strani fiori. Nudi ed indifesi. Come il cuore al primo amore. Corolla umida di desiderio. Pudicamente assorto. Tagliuzzato ed intagliato dalla lama della superficialità. Ha perso tutto. Anche l'odore della speranza. Inebriante venticello. Sette giri di nastro rosso come il sangue intorno ai tuoi polsi. Dono innocente al vento. E le sue mani sempre più nude. Fragili come foglie. E gli occhi nelle mani. Vedeva con le mani. Sfiorava il mondo. A raccogliere sensi. E strisciarli su muri ignoti. Scavava desiderio dalla sua carne. E lo intrecciava ai suoi pensieri. Come pelle di vite sconosciute.
Pudore amputato e poi diluito in germogli di sogni mozzicati.
Dal tempo. Quello chiamato presente e quello chiamato futuro. E poi anche dal passato. La più immonda delle scie. Soffiata alla luna. Respingevano le stelle gli assalti della coscienza.
Bambina.
Un tempo lo fu.
E i suoi occhi erano sempre occhi.
E le sue mani comunque mani.
Sentiva con il cuore.
Senza annusare e percepire.
Fidandosi del rigoglioso senso dell'amore.
Dei palpiti e dei brividi.
Senza raccoglierli e trattenerli.
Bagnata e scivolata.
Fu donna e ancora bambina.
E poi nulla più.
Ora ascolta la pelle.
Lei insegna.
Anche a sbagliare.
...
Dopo.
Io e la notte e la pioggia. Rileggo. L'innocenza c'è ancora. E anche il senso dell'amore. Resta. Comunque. Anche se il corpo rinnega. E io sorrido al giorno a venire. Il tempo modella il mondo. Il mondo contorce il tempo. Smetto di rileggere. E di contemplare. A volte la vita è un fiume che scorre e i suoi affluenti si incontrano. Comunque. E non lo puoi evitare.
Osservo e mi faccio da parte.
E poi il resto pensalo tu.
Il non detto ha
la portentosa veste
dell'immenso.
Basta non smettere
di pensare
che possa esistere.
E poi le ore inseguono i rintocchi. Ad un passo del baratro della puntuale sorte. Non so spiegare, e non lo faccio. Mi immergo nel silenzio, perchè ha una sottile dignità. Se volti il foglio il resto è ciò che capita, caso abbigliato da vita. E un soffio intenso e sottile dentro. Come una fiamma esile e tenace che non si spegne. E ho la sconveniente sensazione di sentire poco, quasi nulla. E all'improvviso si scansa. Ed il sangue non tace. 
Basta non smettere di pensare che non abbia mai smesso di esistere.
Ed adagiarlo oltre la linea di orizzonti incerti.
Gli pulsa dentro solo la verità.
E nelle parole inciampiamo, goffi e affamati di pretese, e a volte di speranze. E nel delirio non le ricordiamo, come se fossero ombre. Ma non è forse l'ombra la scia più indolente della luce? La più timorosa di sperdersi nell'oblio del buio. Eppure io ho sempre pensato che in una certa oscurità possa esserci una dedizione ed una intimo contatto con noi stessi. Esattamente là dove la luce riusciamo a pensarla meglio. 
Basta non smettere.
Il resto è un dettaglio.
 
E poi dopo tanta resistenza, ti sciogli dentro. Un poco. Un pizzichino, e un tiepido calore. Forse qualche parola. Non sei lava, ma sangue di terra. E il mio, il mio sangue, ti accoglie. A volte il respiro inciampa ancora nella pretesa, nel timore, nel ricordo, in una impronta spersa, ma poi la mente accarezza, e come tu sai il suo tocco è una lusinga irresistibile. Non si può sedurre più ciò che non vuole. La conoscenza cancella i passi, nel percorso, e ci lascia esuli. Sulla mia pelle ci sono ombre sconosciute, e io ho paura a riconoscerne la forma e la provenienza. Ma non cancello e non le cancello. E non cancello neanche me stessa. Mi limito a raccogliermi, conchiglia, dopo conchiglia, sulla spiaggia dell'anima, quella che resta dopo un naufragio. Ancora e sempre nuova. Senza passi. Così ci si ritrova, alcune volte. Ma solo alcune. 
Lo ho sempre pensato che sia la vita, con il suo soffio provvido, a scegliere ed a sceglierci.
E non mi fa paura sentirti, perchè sei finalmente vita.
In momenti come questi brucia. E non puoi far altro che respirare. Senza aspettare, senza aspettarti. Il tempo è il filo sottile che ci slega e ci dipana su una matassa immensa, nella quale siamo destinati a sperderci, insieme, addosso, frammisti ad infiniti altri fili. E non voglio più riavvolgermi. Oggi ho bisogno di slentarmi, di sgualcirmi, di mescolarmi. Forse per dimenticarmi. Vorrei fare a meno, saper fare a meno, del dolore. Di quel pizzico che si insinua e che punge, si infila, scorre e si inabissa. Tu lo dimentichi, provi, e ci vivi addosso e ci vivi contro, dentro, di traverso, tra equilibri ed apnee. E non ti accorgi di quanto sappia isolarti. COprirti il mondo ed un poco anche il cuore. Ci pensavo, e mi dispiace, perchè tutto questo mi permea di una patina insopportabile, un velo impiastricciato di egoismo e tormento. La femmina imbavagliata in spire di tulle osceno, nel desiderio di mostrarsi e di nascondersi. E gli altri, tutti, sono sempre oltre. Non è un sipario questo sangue. Annusalo, ci sono dentro io e la mia vita. Ma dannazione, come si riesce a squarcialo quel velo? quella pelle che nessuno vorrebbe e che non vede? siamo farfalle implose che immaginiamo i colori, tutti quelli di cui siamo capaci. E non smettiamo di raccontarci l'amore. Si spegnerci orgasmi addosso, senza spezzare mai il limite. 
La mia voce non basta e neanche la mia carne.
E neppure le mie lacrime.
Le parole placano ma non svuotano.
E io vorrei essere devastata.
In una non esistenza pura ma concreta.
Spersa e diversa.
O forse basterebbe solo un vibrante vaffanculo.

*

Post n°24 pubblicato il 24 Febbraio 2014 da dialogoimperfetto
Mi piace lasciare andare le parole. Senza trattenerle più. Non più di tanto. E sentirne appena la esistenza, la dimensione rarefatta, accorgermene, assaporarne la appartenenza, fino a saperne gioire, per poco, un tantino, l'attimo di un sospiro, quel tanto da invertirlo, come se fosse un pizzico, lieve e desiderato. In fondo quando ti concentri troppo sulle parole è solo perchè non sono pensieri, ed il contenuto non ha una rilevanza ed un peso tale da poterli rendere fili sottili, quelli che uniscono e svaniscono, più leggeri di farfalle, della loro scia, del sogno che sanno disegnare. E senza bilanciare, senza valutare, senza limitare, esistere come scorrere e sentire che la volontà ed il desiderio, o meglio la capacità di desiderare, si sfiorano e pericolosamente si intrecciano. Parole come petali di aria, in una strana poesia che colpisce come un buffetto, forse vento, per lisciare, curvare, appena accennare un movimento. E ripartire immemore. Senza direzione e senza un verso preciso.
E poi ho paura che questo smetta.
O solo che abbia ad iniziare.
E non sopporto, non più, quella solennità di chi finge di nascondersi, perchè il pudore ed il rispetto scorrono come l'acqua.
Quella stessa che non sa ripercorrersi a ritroso.
E non torna mai indietro.
E adesso vorrei urlarti addosso le cose peggiori, le più moleste, le più crudeli.
E so che sarebbe inutile.
Eppure ho un bisogno disperato di inutilità.

Bagnarsi di cose nuove, senza avere mai troppa voglia di trattenerle. Un lieve contatto che si sfalda nell'incalzare del divenire. E la paura di farle mie, quelle cose, di sentirle davvero, di raccoglierne una traccia. Vivere strisciando addosso al sangue. Contro l'aria, come se cielo e vene fossero i confini che mi sono stati concessi. Ho avuto notti zeppe di nostalgia, ma al risveglio il sole mi ha sempre legata alle ore che scorrono, nella verosimile ipotesi di smettere di esistere con la mente e nella mente, con una fame di realtà che a tratti diventa disperata, quasi sfuggendo alla poesia, perchè ci persuade, anche se non vogliamo, e scioglie l'amaro in struggente malinconia. Mentre io voglio attimi serrati e fecondi e cose, non necessariamente migliori, purchè abbiano i bordi comprensibili. Tutto cambia e nulla cambia, se non cambiamo noi. Ed è così che restiamo afferrati ad un pugno di terra, ad annusarne la forza e la libertà, intrinseche e sfacciatamente sincere. E come se fosse il mondo quello, mentre magari il mondo è altrove. Chi può saperlo? Distante, più o meno. Roba di battiti sparsi ed impuri, soldati alla deriva in una guerra mal combattuta. Ho visto un fiume abbracciato dalla vita, ed ho avuto la sensazione che le cose le disegnasse intorno il flusso della gente, e l'avvicendarsi di voci ed istanti, separati, destinati a mescolarsi, quasi a dimenticarsi.
Quasi...
Vorrei non dimenticare ma non so neanche più cosa io debba ricordare.
E annodo il senso della vita, per poterlo poi sciogliere all'occorrenza.
Qualcuno lo chiama bellezza, e oggi tutti la masticano, la descrivono, la spiegano, mentre a me è bastato intuirla, nel mistero di una divinità che si fa pietra e noia, e intuisce nel disappunto e nell'ingolfante monotonia di un salto qualunque.
E poi non smette.
Nè cambia.
Basterebbe averla percepita, per credere che ci appartenga, in fondo.
Pulsa il tempo, pulsa come nubi dentro il cielo, sopra le mie tempie e miete aria e dolore, forse presagio o facile distrazione. Quale stupore nello schiudersi della notte su di noi, erranbonda e con i palmi rivolti al cielo, a supplicare lacrime di stelle. Sangue di sorella, io ti ho sentito e ti ho interrogato, fino a sentire l'errore nelle mie vene, e la nenia ossessiva del mio essere sbagliata, del non sapere essere importante, del non contare. In quella solidarietà che spesso è solo parola, io ti afferro e non ti lascio, e ti conservo e ti trattengo e ti soffio, nell'eco di un'appartenenza che ci scavalca e ci sovrasta, come se avessi inciso il tuo nome vicino vicino al mio, in quale faglia, laggiù nel profondo, dove io non ricordo di essere mai scesa. Mi sfaldo, come margherita, tra petali di aria, perchè chi tace percepisce tutto il mio tormento, quello che all'improvviso mi divora e mi stordisce. Mi piace attraversare la scia della logica e ritrovarmi dal lato opposto, sempre quello sbagliato, o solo non quello giusto. Sono inesatta come una somma a cui mancano i pezzi precisi, avvolti dentro battiti che si sono rincorsi, quasi come parole su un foglio e che ti lasciano, esattamente là.
Nel suo centro.
Fragile e sola.
O no.
E la voce nella testa.
Quella voce.
Chiamala desiderio.
Diventa sempre più difficile esprimere, e neanche si trattiene, ci si lascia scorrere da impeti, flutti di emozioni, dopo che se ne è avvertita appena la profonda leggerezza che può infilarsi in noi e terribilmente espandersi. E nella logica ci diluiamo, convinti di avere in un pugno la nostra vita, qualche filo che gocciola e si dipana in estuari sperduti e quasi storditi. Resta la bellezza, nonostante noi, come quel guizzo che senza permearci si espande dalla mente alle vene verticosamente. Fino al cuore e ancora, avanti ed indietro, senza placarsi, solo rallentando fino ad averci colonizzato e resi terre di mezzo. Perchè ci sono voli ai quali non si può resistere, voli di anima e mente, dita dentro quadri, tra le tracce indefinite di pennelli, nel senso di opere che intuiamo senza capire mai fino in fondo, quasi che in ciò si celasse la meraviglia di alcuni misteri. La forza dell'arte non può che renderci migliori, perchè nell'arte c'è una istintiva condivisione, impulsi e sensazioni.
Mi piacerebbe un giorno risvegliarmi fiore. 
Eppure oltre il senso di impotenza ed inutilità in cui siamo soliti crogiolarci è impossibile che non ci sia altro; deve esserci, quasi che il senso della vita si infili come una lumachina dentro il suo guscio, con il timore di lasciare la sua casina, di perderla, di sentire tutto il vuoto sopra di sè. E quel senso è più fragile di un filo e si tende come un arco verso il cielo. Giusto il sorriso che non si liscia prima di spalancarci, e poi quello che ci riempie la mente di sole, anche quando piove, e poi sa infonderci una consolante tenerezza verso di noi ed i nostri frammenti, quasi a raccoglierci. Pezzi di noi vicini. Senza mescolarci. Identità nette e coraggiose. Fino alle viscere. Della terra. 
Disegnami gelsomini sulla schiena.
Saprò resistere. 
Perchè è quello che voglio.
E nella imperfezione si annida il segreto dell'amore. Sono imprecisa, assolutamente sporca, e sporche le mie iridi, l'ho visto appena oggi. Ma tu raccogli la purezza delle mie lacrime, come chicci di gelo, spicchi di grandine, caduti dall'inferno di cui a volte sono capace e di cui mi avvolgo, fino a puzzicarmi il respiro, sempre più a ritroso, fino a simulare l'anima e la sua eco. Aiutami, aiutami ad amare le mie dita, come se fossero radici immerse nell'infeconda stasi del divenire, mentre l'aria le ruba il sangue. E liberale, e me con loro, come se fossi una serie di suoni, esattamente quelli della notte, che intimoriscono ma spesso sono i più sinceri, perchè il buio lascia libere le coscienze. E verità si fa oscuro sentire. Ed è proprio là, nel grumo imperfetto che mi raccoglie che io voglio tu mi veda, e mi compreda, quasi a raccogliermi, foglia, dopo foglia, senza conoscerne il ramo. Io sono la foglia spersa senza fiore, nè frutto. Ecco io vorrei essere la polvere da soffiare lontano, perchè poi resterebbe solo il bene e quello è irresistibile. E forse già mi ami e non lo sai. L'ho letto nei tuoi occhi mentre mi risucchiavano ogni paura. E sono rimasta proprio in quel punto, a tremarti dentro. E ancora non smetto. 
Scorrono come vene di fiume, sensazioni, o solo la loro bava, scia del destino. Dammi le linee giuste, intrecciale con edera e vite. Ho bisogno dell'odore della terra e del mare. Hai mai sentito la sabbia calda tra le dita, tra i suono del mare e della tua mente che si svuota e si riempie come mille maree? Se ti è successo, raggiungimi e parlamene. Mi succedeva da bambina, o forse è solo un racconto, una fiaba, una nenia, nell'incanto della inconsapevolezza di una bellezza troppo grande per essere spiegata che sctriscia l'anima e affonda nella mente, ma non chiamarla ricordo, perderebbe il sangue che la sottende come un arco. Adesso su quella spiaggia quella bambina, proprio quella, continua ad afferrare sabbia e amore e a lisciarlo in torri destinate a crollare lente all'incedere del mare, aviddo e sognatore, anch'egli. E a sentirsi l'acqua sulla schiena e la luce del sole che si schiude in rifrazioni mentre riaffiora e ritorna a respirare. Lei nuota fino a sfiorare il braccio di suo padre, perchè così si sente protetta. Anche nei sogni, o solo in apnee. E ha una voglia dannata di immergersi ancora. Vorrei essere più semplice o solo più complicata. E vorrei sapermi amputare dell'io pensante che mi anima fino a tentare di sostituirsi al cuore. Io lo seguo solo per perdermi, per dimenticarmi. In una maglia di stelle, quelle che ogni notte mi riducono il cielo in rettangoli, mentre il mio respiro si frammenta in assenze e giochi di mancanze, somme senza risultato ma in fondo che conta? Perchè al di sotto di quella amarezza ingombrante, io resto come un filo, a scorrere furtivo come una retta, verso un infinito ignoto, e un poco mi piace e per il resto mi spaventa. E non mi guardo più nei pezzi che perdo, come corsi e ricorsi inversi. Io sono qua, con questo pulsare di vita, incasinata e confusa ma viva e vera, nonostante tutto. E non posso che bastarmi.

domenica 9 febbraio 2014

Un poco mi piace ed un poco mi inquieta accorgermi che gli altri mi osservano, che mi leggono, ed indugiano sulle mie parole. Lo trovo strano, forse perché io vivo di impulsi.

venerdì 24 gennaio 2014

A volte ritorno in quel non luogo che li raccoglie tutti, un posto che è la somma degli altri, e che si assottiglia, fino a non esistere. La dimensione che toglie la durezza dell'impatto, levigando gli spigoli, e ricoprendo tutto della patina della nostalgia, di una malinconia che a volte trasborda nella tenerezza, nella dolcezza più pura e non corrotta. E' la casa dei ricordi. Dove la memoria ci lascia sospesi tra emozioni e anima. Esattamente nel punto in cui le vene si stringono contro la pelle. E non sappiamo discernere tra tempo e respiro e battito. Viviamo stretti stretti a noi. Quando accade. E dura poco. Come se la corrente della vita ci strappasse a quella spiaggia. E ci spingesse verso la luce, di contro all'aria, oltre ogni apnea. Quasi affondando nella ragione.
Vivo con la mia pelle nel mondo, come tutti del resto.
Ma riesco a rendermene conto solo quando soffro.
Come se la gioia rendesse immemore.
E disegno il tormento. Unisco i palmi e gli lascio bere l'anima. Lentamente, come piace a me. E non sarò mai più la stessa. Questa volta devo sperdermi. Diluirmi e lasciarmi piovere lontano. E il mio tormento non ha voce ma il suono dell'acqua che scorre e si allontana e si dimentica. Una nenia di fiori che seguono le luce sui loro petali, quella stessa che ad ogni alba si ostina a dargli vita, vita benedetta e candida. Anche se solo per poco. Il mio tormento è il sangue delle stelle che si perde in un cielo troppo scuro e macchia le vene. E si nasconde e si frammenta in rami e parole. E non mi impedisce di sognare. Non più del necessario.
Io odio i sogni quando perdono il loro candore e la lieve forza che li rende capaci di restarci lontani.
Sporche proiezioni del desiderio.
Sogni senza mani.
Solo ali sconosciute.
Senza bisogno.
Prima di diventare corde da afferrare e a cui legarsi per nascondersi nell'impossibilità.
Ed è proprio nella notte che mi sento protetta e vera.
Nuda come una stella che non rinnega il suo sangue ed i suoi errori.
E sputa luce.
Ma solo quando vuole.
Una stella bastarda.
E per gioco iniziai a vivere e ad inanellare identità, come ciliege da sputare, l'una dopo l'altra, stella da amputare per rivestirmi con i loro brandelli. Uno o più pensieri e tra di loro desiderio. 
"Ti sto guardando" - mi sorprese la tua voce mentre mi disegnavi la perdizione sulla nuca e mi lasciavi scivolare i denti tra le vertebre.
Sentivo la cera calda e la mescolavo ai brividi ed al dolore, prima che diventasse godimento. E' così incredibilmente labile il confine. Ci penso spesso quando mi fai del male. 
"Non voglio che tu goda".
E mi riempii di gaudio, trattenendo il piacere tra le cosce e prima ancora nella mente.
Ero linea che si estendeva e non smetteva di correre.
Come se inseguirsi fosse la via di fuga più candida che potessi immaginare.
Ed era la più sporca.
Per quello mi piaceva.
"Adesso puoi, vieni".
E io ti sorrisi e mi sorrisi.
E ti guardai.
Mi piaceva l'idea di farti sentire che mi dominavi, mentre sapevo di avere la tua mente in pugno. Esattamente incastrata là. Tra le mie gambe.
E non smisi di guardarti, mentre mi rivestivo.
Senza voltarmi.
Non più. 
Questa è la parte di me che io mi nego, che meno espongo e non confido. Quando lo faccio sento gli schizzi del giudizio, della facciata bianca di case luride. E non te lo dico. Non mi mostro. Nascondo. Ma sai che c'è. E tu sei esattamente come me. Ma non vuoi sentirtelo dire. Posso sussurrartela se vuoi, mentre mi penetri e varchi la mia voglia.
Senza regole.
Solo quando voglio io.
E sento che quel momento arriva.
Pensava che nel parlare di lei, della sua intimità, delle sue stanze, ci fosse un prezzo troppo alto da pagare. Le era sempre importato più della sostanza che della forma e mentre sentiva di aver superato la linea del candore non contava molto, e non più, il divario tra la carne ed il cuore. Solo l'amore poteva ridare la dignità al suo peccato, asciugarne la scia umida e lasciala andare avanti. E incastrava chiavi in serrature sbagliate, perchè cercava la parola giusta. E sentiva tutto lo stridore e l'indolenza di quegli incastri sbagliati, mentre le bruciavano le vene. E tutto questo si traduceva in una svogliatezza. Aveva confuso apposta le chiavi. Per non aprire mai, per davvero, nessuna porta. E restare a spiarne ciascuna. Potevano possederla ma mai averla per davvero. Restava sempre un bordo impenetrabile. Ma a chi importa arrivare ai confini di noi? E noi lo vogliamo per davvero?
Nella rarità di una porta che si spalanca deve dosarsi il buio e la luce. 
E non dare per scontata mai nessuna ombra.
Sento un errore non mio che mi riempie.
La corda mi graffia i polsi e mi solca la carne, sempre più a fondo.
Non sono in questa pelle, ma dentro la mia anima.
E mi scompongo nei dettagli.
Uno di questi è il mio respiro.
Forse il primo.
E non si avvicendano con ordine.
Ho sempre bisogno di una dimensione mistica per ogni indecenza.
E me ne accorgo mentro mi rivesto.
Perchè non raccolgo più, non più, le parole tra le lenzuola.
Sono il passato.
Così uno sull'altro in una pila traballante i pensieri oscillano. Quasi a grattare il cielo. Non conto più le stelle. Perchè la conta mi rattrista e mi stempera la solitudine. Piccoli tentativi di allontanare quella idea. E io e te contro il muro dentro i rumori della strada. E il caldo che si mescolava al tuo respiro ed alla mia saliva. Sembra che tutto questo non l'abbia vissuto mai. O riemerga da una delle immense e malinconiche fotografie che la mente sa secernere. Tutto bellissimo perchè impreciso ed indefinito. E poi i passi nelle scale a soffocare il mio orgasmo nella tua bocca, masticato dai tuoi denti. "Non chiamarmi". Non mi sorprese sentirmi femmina rossa. Una volta mi hai detto che nulla mi stupiva per davvero.  E mentre io ancora ci pensavo, aggiungesti che ero dannatamente perversa. E io mi mescolavo quella parola nella mente, scandendola e cercando una scintilla di verità nei tuoi occhi. Tra le preghiere e i salmi che ormai avevo dimenticato. E non ritrovavo quei battiti di cui ero capace. E non smettevo. Quasi me ne convinsi, di quella perversione indotta, che non sentivo mia. Perchè mancava la innocenza che non ritrovavo, come un imprinting, e che mi impediva di tremarti tra le braccia, persa nel desiderio, unico, di affondarti le unghie nella carne.
E allora capii, come per incanto, che io cercavo il dolore, come se fosse il solo modo per non essere dimenticata.
E mi voltai, esattamente là.
Ad un passo dall'oblio.

Succedeva così. Mi piaceva guardare il mare, penso siano pochi quelli a cui non piaccia, e che non riescano a sentirne il richiamo. A me accadeva, nelle notti d'inverno, con la testa sul cuscino o d'estate con la testa tra buio e stelle. E mi riempivo di un misto di paura e di fascino, come è sempre accaduto per i grandi drammi della mia vita. Quando la notte diventa solo un foglio su cui inventarsi una dimensione speciale. Forse neanche sognare, ma solo sentirsi proiettati, spinti. Spesso di notte studiavo, mi riusciva meglio che durante il resto della giornata, e non smettevo di guardare il mare, mentre ripetevo e mi spiegavo le cose. Come se nel buio la mente si levigasse e fosse più capace di raccogliere quello che ci infilavo dentro; non che fosse così semplice. Ma la parte che amavo era quel silenzio così familiare, intervallato dai suoni della intimità della mia casa, della mia famiglia, un colpo di tosse, un lenzuolo che si spostava, i passi dei miei vicini che rincasavano, il cancello di fronte che veniva aperto e richiuso, sempre alla stessa ora e le lancette che si inseguivano imperturbabili. Durante l'estate leggevo e leggevo, e non riuscivo a smettere. Seguire vite sconosciute, come ad affferrarne i polsi e lasciarmi trascinare dal loro corso. Poi la vita in alcuni momenti ci rende stanchi e pigri e forse un poco tristi o solo immensamente carichi di malinconia e ci sembra di di vivere per differenza, perchè ogni somma è una aspirazione troppo grande; come se la gioia fosse un debito, un pegno per il futuro. E quella stanchezza si sposta dal corpo all'anima e poi viceversa. Fino a nasconderci nel sonno. 
Vorrei tornare capace di sognare
e di sentirmi così libera e forte, 
come nelle notti d'estate.
Con le stelle negli occhi.

Mi piace giocare e prima mi piaceva di più, molto di più. Le dita nella luce nell'assurdo tentativo di scomparla, forse di afferrarla, o solo scoprirne il mistero. E i baci che non finivano mai. Non smettevo di chiedertene e tu ridevi. Correvo per le scale incontro a te e ti spingevo con le mani sugli occhi verso sorprese più o meno plausibili, che si rivelavano sempre autentiche cavolate. Poi il viaggio a Phuket ed il mondo incominciava a stridere, e ancora viaggi, come se nei suoi ingranaggi ci fosse troppa polvere e poco vento. Spiarti, mentre non sai che ti guardo. Ancora lo faccio e ti dono quel vento. Prendilo, e se puoi perdonami. Osservarti mentre vivi una vita inconsapevole, isolata da un vetro offuscato per il mio respiro, e sei opaco oltre i miei occhi. Non riesco a non essere sbagliata. Ti squilla il telefono e sento, sento che parli con lei, una delle tante, delle altre. Ripeti cose che io conosco e che pensavo avessi fatto per me.  Fossero mie. E poi mi ricordo che nulla è per sempre ed anche quando credi che lo sia irreversibilmente non lo è.
Niente più vetro, adesso mi mostro io.
E i tuoi occhi nella mia scollatura potrebbero essere quelli di chiunque.
Ma tu non lo sai.
Nè io te lo sussurro mentre mi spogli.
Ho scritto un messaggio e l'ho affidato alla terra, alle sue radici munifiche, provvide e prodighe. Io stessa non capisco i miei messaggi e le mie parole. E le affido ad un senso differente, nella speranza dell'incanto della comprensione. Quando le parole non contano molto, ma esiste la capacità di afferrare il filo sottile che le ha pervase. E scanso il disprezzo, l'indifferenza, l'alterigia di chi gioca con il mio cuore e con la mia mente. Come se fosse una toppa in cui infilare una chiave che non può girare. Ho sofferto, e a volte soffro, per cose inutili. Ma sono solo io la vittima e l'artefice. E vorrei sapere dire cose diverse e descrivere e saper intrigare e poi sedurre e giocare.
Ma io mi limito ad essere la versione più approssimata di me stessa.
Nella periferia di questa pelle.
Dove mi capita di provare troppo e troppo male.
E sento delle cose che non vorrei neanche descrivere.
Perchè sono solo mie.
E lei mi ha detto che vorrebbe raccontarsi. E io sogno di essere il suo braccio. Le dita. La prolunga del suo sangue. Di setacciare le parole dalla sua anima. E riversarle in fatti. In una storia che è quella della nostra famiglia. Mentre le vene, le sue, si riempiono di voglia di farcela. Di voltare un foglio, o forse un poco in più. Dovrebbe capitare, o essere accaduto, ad ognuno. Prima o poi.  
E a volte penso che l'attesa sia solo un pretesto per negarsi la vita.
L'attesa ci mangia il tempo.
Ed in un modo o nell'altro siamo fatti di tempo.
Sconosciuti nelle vostre vite lontane, non possiamo che donarci la speranza che la bellezza dell'amore e l'amore per la bellezza, nonostante tutto, non ci lasci.
E continui a farsi scegliere ed animarci.
Forse non è un augurio, ma vorrei lo fosse.
Perchè dei sogni non si può fare pacchetti.
Io vorrei sperare che i sogni si avverino, o forse anche solo
che non smettano di esistere.
Nella loro dimensione rarefatta e di difficile presa.
Raccogli quella foglia, l'ho lasciata là alcune vite fa.
Per ricordarti che io ci sono stata.
E che sono passata dalla tua vita.
Più veloce del sangue.
Per una volta ho osato con le parole. Ho provato a dire più che potevo. E mi è sembrato strano. Mi sentivo ridicola nel rilasciare l'affetto, il bene, su un biglietto. Come quando ero adolescente e macchiavo fogli sparsi, perchè non mi piaceva tenere un diario, con i miei pensieri e le mie confidenze. A me. A me stessa. Ero l'unico diario su cui appuntavo le mie emozioni, e tutto quello che sembrava tale.
Era Natale e mi trovavo con gli amici ad una festa. Qualcuno ballava, qualcuno beveva, mentre c'era chi socializzava, in ogni modo possibile e plausibile. Altri osservavano silenziosi, assorti in una distrazione quasi affascinante. Si trovava sempre un posto dove fare festa, o una cosa simile. Una grande stanza, dei genitori tolleranti, qualcosa da bere e la musica, perchè la musica avvolgeva ogni cosa e le dava un vestito speciale. Mi sentivo strana nella gonna nera nuova, regalo di mia zia, e mi ero rifugiata in una poltrona di velluto. La mia amica Mara ballava, Angela giocava a carte mentre io e Daniela ci raccontavamo quello che era accaduto in quei giorni. Non credevo dovesse esserci anche lui alla festa, come mi avevano detto gli amici. Lui restava in famiglia, in quei giorni. Lo avevo conosciuto per caso, forse ad un'altra festa e mi aveva accompagnata a casa. Avevamo parlato un poco, ma era alto e la cosa mi piaceva. E poi gentile. COn le mani belle. E anche quella cosa non mi dispiaceva. Prima delle vacanze di natale mi era venuto a prendere a scuola qualche volta. Lui lavorava e mi sembrava un adulto. E io mi lasciavo circondare dal suo odore buono. Ci hanno abituati ad immaginare l'amore come qualcosa di angelicato, mentre le cose che ci restano impresse, sono gli odori, i respiri, la saliva, gli umori; tutta roba dotata di una corposità media. La mia amica scivolò sul bracciolo prendendomi in giro. E io ne ammirai i capelli lunghi e ramati e la linea perfetta. Io ero diversa e non mi sono mai piaciuta. Ma questa è un'altra storia. La lasciai alle spalle mentre si aggiungeva ai danzatori solitari e mi diressi verso la finestra, mentre la musica copriva le nostre parole e le nostre risate distratte. Echi di una spensieratezza così lontana da sembrare non essere mai stata nostra. E mentre guardavo la strada lo percepii dietro di me, non vicino, ma solo presente. E mi voltai con una faccia tra l'ebete ed il sorpreso, mentre mi spettinava, come sempre, prima di sporgersi cortese per farmi gli auguri. Gli auguri di cosa, chi lo sa. A quel tempo tutto era occasione per toccarsi, per scoprirsi, perchè si ignorava la preziosità della intimità, quella che solo la maturità ti fa apprezzare. Nell'altro angolo della stanza c'era lui, il ragazzo che avevo voluto da sempre e che avrei amato, o giù di lì, ancora per molto. Mi sembrò che ci guardasse mentre ballava con una ragazza mora che mi sembrava altissima, o solo una stronza che si stringeva a lui mentre si parlavano nell'orecchio. Ed era così difficile restare indifferente. Da poco avevamo smesso di fingere di volerci bene. Uno dei suoi tradimenti. Una strana vertigine mi turbò, prima di guardare il mio nuovo amico, e mi sentii tagliare da una gelosia affilata, mentre la sua mano si infilava tra i jeans ed il maglione verde della stronza che ridacchiava. "Portami via" dissi, sorridendo  disperata, o solo felice di vederlo, in uno stato di grazia indotto. La mia amica decise di non seguirci e io mi stringevo nel cappotto mentre una sconosciuto mi teneva per mano, giù per gli scalini, come se fosse un gancio, e la musica si allontanava e mi sentivo meno contratta e più audace, quel tanto che basta per fare una cazzata, perchè solo quella mia avrebbe salvata e ne avevo bisogno. Quale è il confine tra l'essere triste o incasinata? A quei tempi avevo già perso il bandolo della matassa. "Dove andiamo?" mi sussurrò facendosi vicino e passandomi il braccio intorno alla vita. E tutto questo mi inebriava, mi dava una deliziosa sensazione, quasi vicina alla vendetta. "Metti in moto, giriamo un po', così parliamo". E mi sentivo assolutamente capace di sbagliare e lo volevo. Avevo bisogno di stordirmi e mi resi conto che esiste una energia che va oltre il sesso, e che forse sta anche prima, e che quasi si avvicina alla perversione, senza esserlo, uno strano magma che copre e trascina i sensi e io volevo essere sommersa, non respirare, stare sotto, senza soccombere. Rifugiarmi nel mio corpo, come se fosse la tana del piacere. Ed esercitare, dosare, per poi precipitare, nella perdita del controllo, mia e, ancora di più, sua.  Sogniamo le grandi passioni e le immaginiamo come falchi in volo, dalle ali immense. E se fossero invece tutto si riducesse a vene che si intrecciano, si scontrano, si adagiano contro e si mescolano alla carne, avvicinandola, senza condividere mai, ma preservando il nostro egoismo nel modo più elementare che conosciamo. Non pensai sicuramente tutto questo, pensi molto meno, mentre lui tentava di prendermi la mano e io lo sorpresi. Come la peggiore delle ragazze. Cruda come la terra che si spacca nel gelo. 
Ammalata. E mi è tornata la tosse. Brutto segno. 
Non scrivo mai delle mie cose reali sul blog. 
Ma questa volta non ho resistito.
Ho la testa in un'ampolla.
E i pesci rossi mi fanno ciao ciao.
E la cosa bella è prendersi del tempo perchè se ne ha bisogno.
Strano, viviamo carichi di fardelli e di sensi di colpa.
E solo ammalandoci ci sentiamo in diritto di prendere del tempo per noi.
Ma quando passa?
Il rumore della pioggia, prima ancora di divenirne il suono, come una catena verso il quotidiano incedere, si intreccia all'aurora. Fine tra le ciglia, si insedia, con l'odore della speranza. Troppi sogni, come se i numeri ci cambiassero il nome della vita ed il suo corso. L'odore della terra e del rosmarino selvaggio, sotto la muta luna, e il resto non ruba nè toglie. Non so se la bellezza salverà il mondo, ma a volte gli presta i suoi occhi, quasi a renderlo cieco. La magnificenza dei sensi colora il sangue. Forse. Già perchè la bellezza non aggiunge, non scarta, nè scarinfica. Ma rende l'essenziale. Quasi trasluce.
E io ritorno, da dove non ero mai andata.
Non saprei.
E le consapevolezze sono piume.
Anche il disprezzo e la leggerezza.
Senza passato e senza futuro.
Solo una freccia feroce all'arco.
Contratta nella resilienza della passione.
La farfalla indaco non ha ancora rilasciato le sue ali al vento.
Lo strano silenzio di dentro rende irrilevante anche quello di fuori. L'esterno aderisce all'anima come una strana pelle che si cumula e leviga e si sfoglia in giorni. A volte la stranezza è una patina, una coperta, una forma per non spiegare. Non chiarire, nascondere le impronte, verso la casetta nel bosco. Io la sento. Ognuno di noi ha la sua casetta nel bosco più segreto, con il tetto rosso ed il comignolo che sfumacchia. Forse un richiamo, o solo uno sfogo, o uno schizzo d'ego. Non ho perso l'abitudine di sentire, di percepire ogni variazione negativa, ogni imprevedibile flusso inverso, come se smangiasse la serenità, pregno di quel silenzio. Un silenzio innaturale, quasi un buio indotto, dal quale non è possibile scacciare la luce per davvero. E il cielo era pieno di stelle. E quando accade mi piace guardarle a più non posso. Farne incetta, fino a non poterne più. Non cerco assiomi nè ne detto. Li scaccio sempre e mi sforzo di capire. Ho questo maledetto vizio. Ma detesto la debolezza che si proclama fragilità, nell'errore persistente e sfilacciato. Sarebbe facile, ed altrettanto deprecabile, almeno dal mio punto di vista, dire per dire e dire per fare male, o comunque meno bene possibile. Solo che a volte il dolore che si prova non giustifica tutto. E neanche la noia. Perchè ho la spiacevole sensazione che sia proprio la noia, l'assenza di futuro nella mente, la mancanza di sogni, che partorisce la crudeltà più sottile. Un filo di ferro che rende ridicoli. E muove le viscere, come un serpente. Senza sangue. Perchè taglia da dentro e lo nasconde. Quasi fosse un fiume segreto. Spesso accade che si riesca a lasciare traccia di questi pensieri negativi e questo significa in un certo senso separarsene.
Come se il foglio fosse un cielo senza direzione.
Una mare magnum del destino.
E dell'ignoto.
C'è poco da imparare dal male.
Molto dalla luce delle stelle.
E dalla sua inclinazione.
Mi piacerebbe saperla sempre scorgere.
E scinderla dall'indefinito, impedendogli di  racchiudere tutto.
Un pugno che si apre, fino a rendersi carezza.
Coppa e contenuto.
E bocca che sugge.
Ci sono cose che non sembrano nostre, come se non lo fossero mai state, nel momento in cui le immergi nella lucidità, asciutta e ruvida, nell'istante dopo il distacco. Quando le cose hanno preso il loro posto, o comunque sembrano aver perso quello che avevano in te, o nelle tue vicinanze. Nella tua periferia più approssimata. E i lividi restano aloni, o solo simboli che prestano la loro traccia alla carne. Un percorso. Una caccia al tesoro per una dimensione imperfetta ma purissima. Non c'è neanche il dolore a fargli da culla. Per caso lei aveva compreso che le piaceva cucinare. Quasi una sfida in famiglia. Tagliare, trasformare, mescolare, in una chimica che sembrava elementare, e non lo era forse. Sentire l'odore della vita sulle sue mani. E negli occhi dei suoi amici. Era una specie di proiezione sacra della specie, quella. Così dovevano averle insegnato. O le piaceva pensare così. Nutrire chi si ama. Era il modo più immediato per prendersi cura dei propri cari. Anche se a volte riempiva le distanze come le pance. In fondo, la bellezza si può slanciare in lunghezza per diventare lontananza o forse futuro, o solo spingersi verso il cielo e compensare così la gioia in profondità.
E a volte mi fa paura.
Credo che la cura sia attenzione.
Per i dettagli, anche i più minuscoli.

E l'immedesimazione a volte si sovrappone alla dose di sensibilità che riusciamo a calare nelle situazioni. E forse è insensibilità quel velo che ci impedisce di calarci fino in fondo. O solo nel mezzo. E sentire. La dimensione che consente all'uomo di sfiorare la divinità. Io ti sento piccola bambina dal cuore di allodola e dalla pelle di porcellana. E sento tutti i miei limiti, la mia incapacità di proteggerti, mia stella dalle unghie rosse e dalle mani candide. Quandi sogni hai accarezzato e quanti continuerai a sfiorare? Perchè io lo intuisco il tuo sogno e non riesco a spiegarti, nè voglio. Voglio solo restarti vicina e vegliare il tuo sonno e la tua gioia e la tua forza di piccola sarta dell'amore. E ti sento, perchè mi ritrovo e avrei pianto per te e ti avrei abbracciata e l'ho fatto. Tanti piccoli bacini sulle tue fronte bianca. E ho provato l'orrore delle mie parole crude che mandavano in frantumi il tuo talismano d'amore. Ma dovevo. Perchè con me non l'ha fatto nessuno. E tu lo meriti. Il meglio, anche quando sembra far male. Sei migliore oggi, ma non lo sai. E poi passa. Credimi, passa.
Nel vuoto più grigio che si può, quasi a strofinarci l'anima. Ho graffiato l'aria, sospesa. E ho sentito la pelle lievemente cosparsa dai brividi, quelli dell'incerto. Come puntini di un discorso solo rimandato. Forse dentro la pancia di un indefinito e denso ignoto. Linee tra le ciglia come fili di luce. E l'ho trovata, sentendo l'astratto che diveniva carne e risposta e poi risveglio. Non so in quale successione. Mentre la coscienza si versava da una tazza. Ma non ne contavo le gocce. E precipitava da un nessun posto, esattamente dove mi ero astenuta. E trattenuta. Nello stesso tempo.
O in più tempi spersi.
E adesso il mio cuore batte
ed ogni suo battito mi spalma gioia lieve.
Come saliva che striscio sulle labbra
mentre le schiudo.
Esattamente là dove l'indefinito si è leggermente divaricato.
Come se volesse essere spiato.
Ed è promessa di ignoto la voglia di ripetersi ancora.
Vita su vita.
Come se fossimo zolle.
O pietre sparse.
Mano su mano.
Perchè il contatto è l'incanto di ogni pelle
che non sa smettere di essere sua.
E si reclama.
Nessun sentiero, solo una strada.
Ed è per quello che non resisto e mi perdo.
Ripetutamente.