Osservo con pallido distacco ogni contorsione della mente. Mi rigiro intorno all'anulare il disequilibrio. Attenta a non lasciarmi graffiare le unghie. Mi sento femmina osservando le mie dita. Sprofondo dentro una apnea grigia. Oggi non voglio nessun raggio di sole. Mi impedirebbe di sentire. E io voglio un mondo asciutto. Senza sudori affamati di pelle. Né sbavature convulse. Voglio un grigio che consoli e rassicuri. E, consolata e rassicurata, vagare. Poco. Con il mare come amico. Oggi vorrei essere sua figlia.
Abbracciavo le mie ginocchia.
Cercavo il mio odore.
Il mio unico compagno.
E mi sentivo meno sola.
Non sapevo spiegare.
Anche allora non volevo.
E le formichine varcavano la soglia.
Sotto la finestra.
A caccia di molliche.
Le lasciavo come esca.
E poi le toglievo.
E negavo.
E mi negavo.
Non era crudeltà.
Ma scarsa convinzione.
Nel senso della vita.
E raccoglievo conchiglie.
Dove versare lacrime.
E poi adornare castelli di sabbia.
L'onda arrivava sempre.
E scioglieva le mie torri.
Sperdendo le conchiglie nella corrente.
Era come donare lacrime al mare.
La solitudine non mi scava più. Mi percorre. Senza scendermi dentro. Come se tra me e il mondo ci fosse una grata. E non è solo la mia pelle. Raccolgo ancora conchiglie. Ma non so più che farne. Forse collane.
L'onda arriva sempre.
Torna.
E poi ancora.
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