Mi piaceva inzupparmi la bocca. Non bevevo mai fino in fondo. E lasciavo le labbra immerse, come foglie riverse, per impregnarle, e poi usarle come stampo. Labbra ebbre e grondanti. Sarebbe stato facile allora raccontare. Bocca contro muro, bocca addosso, bocca sulla pelle, bocca sulla carta, bocca agli angoli di una strada; e così lasciare andare ciò che avevo sentito, pensato, ciò che era capitato. E che per qualche ragione si era incastrato e non aveva avuto la sua giusta spinta. Ed era rimasto inespresso, o solo dimenticato. Eppure era esistito. O forse lo avevo sognato, perchè follemente e fermamente voluto? E adesso il caso si faceva segno, invece; un segno rosso, quasi più del sangue, e denso. Capace di imbrattare, in modo invadente, quasi sconveniente. Perchè nel decidere di scrivere c'è quello scarto infinitesimo tra ego e timidezza. E le parole, alcune parole, ci spogliano più di mille mani. Sono quasi nuda, quasi del tutto, e ho freddo. Ma mi riavvolgo in un lembo di indecenza. E sbircio il mondo. E nell'osservare c'è sempre una avida assenza, un distacco, come se fosse il margine di un foglio, ripiegato, forse per rileggerlo; e fa quasi rabbia cercare di rilisciare la pagina al posto suo. Non tornerà più nuova, ma sarà inciampata in troppi segni, troppe paure, troppi ripensamenti. E poi in tutta quella distanza, tra gli occhi e la mente, c'è tutta la solitudine di cui siamo fatti. In un percorso che si dilata e che come un dardo arriva sempre, ma inevitabilmente dopo.
E una promessa pulsa già sulle labbra umide e vermiglie.
Ecco, io per caso, avevo conosciuto il freddo. Non uno qualsiasi, ma uno strano freddo, in cui la dignità sembrava essere la seconda pelle. E mi sentivo in alcuni punti quasi squarciata. Perchè mi ero data, e mi vergognavo immensamente, di ciò che non era tornato indietro, delle mie mani spoglie, delle mie dita tremule ed avide, della innocenza del desiderio, e della sua forza ostinata. E se avessi potuto lo avrei riavvolto intorno ad un rocchetto per farci mille nodi e cucirci la mia forza. O la mia dignità. E mi sono ritrovata più femmina nel rifiuto, che nell'accondiscendenza. Il mio ventre ha pulsato di sdegno e di piacere. Mi sono piegata e contorta come un tronco sul fiume. Solo per sfiorare l'acqua. Fino a raccogliere i suoi riflessi, prima di voltarsi. E negarsi alla corrente.
E oggi sono questa, mio malgrado.
Dopo aver morso tutta la inconsistenza che è capitata, che ho sognato, che ho cercato.
Ed anche quella che ho respinto.
Perchè quando ho freddo, come adesso, ne trattengo più possibile.
Così sarà semplice dimenticarlo, al primo alito caldo.
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