Più di una tavola imbandita, posta di
traverso, quasi a sottrarmi al centro di quel mondo che sentivo sotto le
mie vertebre, liscio e severo, e che raccoglieva, inclemente, ed un po'
pavido la mia profferta. L'arco del mio piede disegnava cerchi contro
le stelle e la mia caviglia sembrava giocasse con il vento, mentre
invece giocava con il mio cuore, con quei pochi battiti beffardi che si
inseguivano e si sperdevano, come polline nell'aria. E io vivevo di
sensazioni, anche quella volta, e quella volta più delle altre. Sentivo
la carne segnarmi il bordo e non mi curavo che l'anima di lì a poco la
avrebbe denigrata, imbrattata, ne avrebbe smangiato i bordi. Non mi
curavo e basta, ed il mio poco amore per la donna che mi abitava e che
mi parlava da ogni oscuro meandro, poco dopo sarebbe diventata una
preghiera verso una divinità ignota. Io ero là e là restavo, ignara ed
indifferente. Perchè l'indifferenza è la veste che aiuta a sopportare la
nudità più pura ed io giocavo con la carne fino al limite in cui
l'anima riusciva a sopportare. Perchè la crudeltà era la forma che la
mia mente prendeva e sapeva prendere, poco prima del piacere. Mi piaceva
sentirmi donna sino al bordo estremo, quando si piegano le labbra a
ghigno e tutto questo rende la mente rossa. Prima di sentire le tue dita
smettere di essere occhi e penetrarmi e poi dipingermi contro il muro,
più pregna del mio sapore che tu appena assaporavi. Io voglio, volevo,
solo stordirti e ferirti, lasciarmi ricordare e appena smettere di
dimenticare. Ed ora voglio sentire che il tuo polso si avvolge contro il
mio, come una corda e che mi trattenga ogni volta che avrò paura di
cadere, ancora. Io voglio questo e molto ancora, perchè l'infinito non
mi basta. E non vorrei bastarti mai. Io, e le mie paure, ed i miei
limiti e tutto quello che posso diventare, anche la notte più buia in
cui precipito. Ecco io voglio essere la tavola che si stende ai tuoi
occhi, la corda che si avvinghia al tuo piacere, la prima stella che
raccoglie il buio e lo sperde. Ma voglio che tu sia la mano che mi
frughi nella mente, e nella carne, e dentro il cuore. Senza farmi male. E
che mi tiene quando sento di precipitare, come una radice di un cielo
inverso.
Senza direzione.
Non voglio più vergognarmi di quello che sono e che divento.
O che qualcuno di chieda di essere migliore.
Io sono una tavola povera e sincera,
di anima e corpo.
Forse di cuore.
Quello che resta, dopo il banchetto.
Io sono questo.
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