Solo l’acqua cancella.
Nel buio.
La lasci scorrere.
E sento, oltre la tenda, la mano ignota del destino che fende il buio.
Al margine pericoloso della mia pelle.
La lama scintilla.
Avverto.
Sospiro.
E lascio gocciolarmi addosso un terrore inverecondo.
Non ora.
Non adesso.
Non ho ancora imparato per davvero a tremare.
Prima o poi ci riuscirò.
L’odore del mare. La voce delle conchiglie. La loro storia. Nel gomito. Il profumo delle loro vite. Sotto i polpastrelli. Storie di donne, della scia dei loro scialli, fatti di sogni frantumati, dei graffi sulla sabbia, delle orme smangiate dal mare. Del pane impastato e morso. E della brezza che annega le loro paure. Le fa tremare e poi le disperse. Ma torneranno, come sussurri. Nei tramonti più segreti ed intimi in cui affondano. Una piccola delusione. Notti, come un sasso. Un pugno nella pancia. La verità sulla mia gola. In equilibrio precario. Fragili soffi che si confondono nell’aria. Respiro attese. Deve esserci un senso nella voglia di fare del male. Forse incauto. Forse ignaro. Forse solo troppo pregno dell’idea di se. Un egoismo cieco ed asfittico. Una stedera e le sue oscillazioni, segnano il tempo, prima di sentire le ginocchia sbucciate. Ed il sangue sulla sabbia. E la sabbia sulla ferita. Ed un nuovo giro di vento, come una collana al collo. Anelli di sogni. Forse baci. Su quella nudità che non sa che essere sincera. Non può anche se non vorrebbe. La spezza la disillusione. Forse ossessione. O solo abitudine al dolore. Ma non ne capisco il senso. Non sarebbe più semplice provare a volersi bene? A lasciarsi andare senza zavorre. Con nuove consapevolezze. Ed emozioni segrete. L’odore del mare liscia e leviga. Raramente mente. E io non lo faccio mai con chi conta per me. E con chi ha contato. Bisogna volersi bene anche da lontano. Lo pensavo. Ora no. Sono stanca. Voglio un rettangolo di serenità. Tutto turchino. Dove essere me stessa. E fuori il resto. Non rinnego ma voglio stringere le mie emozioni. Come da la terra con le radici. E poi calma. Perché la tranquillità è la lavagna dei sogni.
La gente, la mia gente, ha gli occhi rigati dalla salsedine. Piegati verso il cielo. E la pelle bruciata. Quando accarezza lo fa con i palmi aperti. Senza paura.Anche se poi morderà vento. Una specie di fame atavica. E sopporta le delusioni. Come pane e acqua. Al primo morso. Perché è destinata a questo. E brucia il sale su ogni ferita, come una medicina della terra. Brucia e consola poco e molto male. Perché la fame resta asciutta e profonda. Una corda verso l’inferno. Una fede che non smentisce il calore della terra. Solo chi ci ha camminato scalzo lo riconosce, perché ha affondato quel dolore nella memoria della carne.
E brucia una lacrima.
Riga la pelle, sino a piegarsi all’angolo della bocca.
Segna un sentiero segreto.
Come una freccia verso il cuore, fino alle viscere.
Ogni conchiglia ricorda da dove vengono le onde.
E dove fanno ritorno.
Ed al loro posto, a volte, un senso di estraneità.
Che fa tanta compagnia.
Come la assenza.
Chi morde il pane per primo?
E brucia una lacrima.
Riga la pelle, sino a piegarsi all’angolo della bocca.
Segna un sentiero segreto.
Come una freccia verso il cuore, fino alle viscere.
Ogni conchiglia ricorda da dove vengono le onde.
E dove fanno ritorno.
Ed al loro posto, a volte, un senso di estraneità.
Che fa tanta compagnia.
Come la assenza.
Chi morde il pane per primo?
Una frisella ammorbidita con acqua di mare?
RispondiEliminaSi può addentare insieme... ;-)
Già chi morde il pane per primo?. Un saluto. W. London
RispondiElimina