Non mi volto mai. Non più. Perché i giorni sono solo assemblati di ore, figli di una regola provvida e finta, di una rete che incatena il tempo e con lui i nostri battiti, piccoli eroi incuranti che incedono nel sorso dell'esistenza, spersi nell'esercito del sangue e delle mille albe spezzate. Là la mia mente si adagia ed oscilla, come una luna su un fianco. Ogni carezza potrebbe lasciarle perdere il suo equilibrio, più di ogni schiaffo. In momenti come questi mi piace sentire lo sguardo sulla mia nuca e farlo scivolare, lento sulla schiena, come una lama, raccogliendo brividi come perle di una collana da spezzare all'improvviso, più di mille sguardi annegati nelle iridi. E non chiudo più gli occhi perchè io sono padrona delle mie ciglia. E guardo il mondo ad occhi aperti. In momenti come questi ho bisogno di stordirmi con la più indegna oscenità, nella contorsione tra la donna e la sua anima, e frapporre tra me e gli altri distanza, una distanza immensa, fatta di rose nere e frammenti di parole; parole capaci di sembrare storie ma abili solo a puntellare la solitudine di un muro nudo. E di disegnare radici sui miei palmi, come se fossero alberi inversi. Con l'insopprimibile voglia di una comprensione diversa e profonda, senza eco. E con sillabe distinte. "E adesso entrami dentro e fammi molto male. Quello che cerco è la devastazione mia e di ogni limite, perchè così smetterò di aver paura". Nessuna favola liscerà l'alone di quel terrore. E poi non so più ascoltarle, nè voglio sentirle.
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