sabato 28 settembre 2013
Nel naso di Dio ho ritrovato quell'odore che poi sento, lieve, fino alla
mente. Lo intreccio e poi spoglio le spighe, buttando il seme lontano. E
ritrovare il frutto, oltre le dita, fino a sprofondare nell'ignoto. E
inventarsi ancora la vita, come uno schizzo, carico di sogni, ma
perfidamente lieve. Zampilla l'esistenza e io osservo. E non ritrovo più
il candore perchè forse è là, in quel luccichio la voglia di
raccontarsi ancora, o solo di osservarsi, come vino che gocciola oltre
il bordo, dopo essere stata versato. E la cautela è nel sorso, nel
suggere quella goccia, prima di renderla tante incontrollate altre
goccioline, perse sul collo di quella bottiglia. Ammiro sempre chi dice
poco e bene. Io dico molto, troppo, e male. Come una di quelle
macchioline, che macchia poco e non disseta.
Mi limito alle cose semplici ed
essanziali, anche se a volte sento colarmi addosso, come colla, o come
miele, il mio arrovellarmi, il mio addensarmi in prossimità
dell'estremità. Una superfetazione dell'ego, con le sue spire
tentacolari, o solo nastri lisci e rossi, con il profilo infido. Troppo
sangue alla testa, e chiudo gli occhi. Nessuna elegia nel tormento, solo
un foglio bianco, nè troppo liscio nè troppo sgualcito. E perdo il
bordo della pagina. E ricomincio, sentendo il sottile e caldo piacere
della carta che respira tra le dita. E ancora non ansima, mentre si cuce
l'attesa addosso. Nessun commento, nessuna reazione, nessuna
spiegazione. Faccio quello che sento e me ne frego. Nessuna freccia,
nessun sasso, neanche la mano. Sospesa sul mondo, una lastra
trasparente, assaporando l'inquietudine, e tirandola come un elastico.
Sotto solo uno strato per vedere e per non farsi toccare troppo. Come se
la distanza fosse la pelle giusta, una pelle che sente tutto in ritardo
e lo media con il mondo. E lo restituisce sempre, anche se non tutto in
fondo.
Perchè rubiamo la vita.
Se per una volta riuscissi ad infilarci il dito dentro.
Oltre ogni distanza.
Solo per sfiorarlo, con tutta la lentezza necessaria.
Sembra un delirio ma mi rovisto il palmo della mano in cerca della tua idea.
Ma poi mi accorgo di essere solo una pessima abitudine, persino per me stessa.
Niente di niente, senza bene e senza male.
Distratta dalla vita, anche se inciampo, proseguo.
mercoledì 25 settembre 2013
Più di una tavola imbandita, posta di
traverso, quasi a sottrarmi al centro di quel mondo che sentivo sotto le
mie vertebre, liscio e severo, e che raccoglieva, inclemente, ed un po'
pavido la mia profferta. L'arco del mio piede disegnava cerchi contro
le stelle e la mia caviglia sembrava giocasse con il vento, mentre
invece giocava con il mio cuore, con quei pochi battiti beffardi che si
inseguivano e si sperdevano, come polline nell'aria. E io vivevo di
sensazioni, anche quella volta, e quella volta più delle altre. Sentivo
la carne segnarmi il bordo e non mi curavo che l'anima di lì a poco la
avrebbe denigrata, imbrattata, ne avrebbe smangiato i bordi. Non mi
curavo e basta, ed il mio poco amore per la donna che mi abitava e che
mi parlava da ogni oscuro meandro, poco dopo sarebbe diventata una
preghiera verso una divinità ignota. Io ero là e là restavo, ignara ed
indifferente. Perchè l'indifferenza è la veste che aiuta a sopportare la
nudità più pura ed io giocavo con la carne fino al limite in cui
l'anima riusciva a sopportare. Perchè la crudeltà era la forma che la
mia mente prendeva e sapeva prendere, poco prima del piacere. Mi piaceva
sentirmi donna sino al bordo estremo, quando si piegano le labbra a
ghigno e tutto questo rende la mente rossa. Prima di sentire le tue dita
smettere di essere occhi e penetrarmi e poi dipingermi contro il muro,
più pregna del mio sapore che tu appena assaporavi. Io voglio, volevo,
solo stordirti e ferirti, lasciarmi ricordare e appena smettere di
dimenticare. Ed ora voglio sentire che il tuo polso si avvolge contro il
mio, come una corda e che mi trattenga ogni volta che avrò paura di
cadere, ancora. Io voglio questo e molto ancora, perchè l'infinito non
mi basta. E non vorrei bastarti mai. Io, e le mie paure, ed i miei
limiti e tutto quello che posso diventare, anche la notte più buia in
cui precipito. Ecco io voglio essere la tavola che si stende ai tuoi
occhi, la corda che si avvinghia al tuo piacere, la prima stella che
raccoglie il buio e lo sperde. Ma voglio che tu sia la mano che mi
frughi nella mente, e nella carne, e dentro il cuore. Senza farmi male. E
che mi tiene quando sento di precipitare, come una radice di un cielo
inverso.
Senza direzione.
Non voglio più vergognarmi di quello che sono e che divento.
O che qualcuno di chieda di essere migliore.
Io sono una tavola povera e sincera,
di anima e corpo.
Forse di cuore.
Quello che resta, dopo il banchetto.
Io sono questo.
Oggi, o forse ieri, o neanche pià
ricordo quando, guardavo il cielo e mi soffermavo nel volo incrociato di
due gabbiani. A volte la natura ci sorprende con una meravigliosa
esattezza, imprevedibile perfezione dell'inconscio. E tutto quello che
sfilava sotto la patina dell'indifferenza e del consueto, si palesa, e
prende la forma, ai nostri occhi vergini, dello stupore e della
meraviglia. Nello stupirsi c'è una scintilla che ci rende
pericolosamente vicini alla verità, frammisti al respiro. Pensavo a
quante volte blocchiamo con le parole le figure, fino a renderle idee,
bava di pensieri, scie e frammenti di un'anima che intuiamo ed
afferriamo a quante immagini abbiamo ignorato, nell'intento di vivere e
che magari hanno lasciato in noi un segno, forse più profondo di quello
che noi conosciamo e del quale ci rendiamo conto. Tutto avviene, come
fossimo immersi nella inconsapevolezza più lieve e leggera, come se
fosse aria. Ed aria la vita che ci scorre intorno, addosso, vicina
vicina. Fino a sfiorarci, impattarci o solo correndo come una freccia
verso un infinito che non ci appartiene fino in fondo o che ci plasma
senza delinearne mai la forma.
Mi sento ruvida, con il cuore asciutto e nudo.
Come una vena dimenticata dal sangue.
E gli guardavo gli occhi, come due lame,
sottili e lucenti, come due lune accasciate, senza una gran voglia di
parlare; speravo mi capisse, cogliesse le mie intenzioni, come fiori
ambiziosi, dalla corolle attente, pronte a sbocciare. E poi inclinai la
testa, come facevo quando avevo bisogno di coccole, e sentii le lacrime
che mi bagnavano il viso fino al mento e giù di lì. Non senza spingere
le iridi contro il cuore, oscurando ogni segno di cedimento e di
debolezza. Perchè la mia fragilità era tutta nei miei occhi. Il resto
era un orpello inutile, destinato ad evaporare, come se fosse rugiada
che andava incontro ad una nuova alba. E nel negarsi la comprensione, vi
era tutto l'orgoglio ferito, maciullato, sbriciolato. Ed una nuova
voglia di preservarsi, di trattenere il vento e lasciarsi sconquassare
l'anima e la mente, senza soluzione di continuità. Tutto il resto non
aveva bisogno di parole, perchè avvertivo una profonda noia per le
parole. In fondo mi serviva solo la verità che dal fondo al bicchiere si
diluiva nella mia gola, mentre sorseggiavo quel piccolo pozzo di
desideri.
Non essere compresa era un lusso che mi rendeva fiera e triste.
Nello stesso momento.
E non sapevo smettere.
Eppure un sorriso, uno speciale, era proprio dietro le imposte.
Appena sulle mie ciglia.
Dividi il sole con me, amica mia?
Dammi la mano. Ancora una volta. Spicchi di luce si incastrano con
ombre latenti. Inesatte ma seducenti. Nell'intrigo che ci sbatte l'anima
e la raggruma, fino a lasciarci credere che il dolore può devastarci e
prendere il posto della vita. Più denso del respiro. Fiori di carne e
macchie rosse e dense, come le mie parole addosso alle tue, a lisciarsi
l'anima. Dammela la mano. E' vero, tu non la hai mai lasciata. Come se
fossimo fiori dalle corolle invisibili, a caccia di notti ventose e
fameliche. E le tue dita si mescolano alle mie, senza ritegno; sono fili
d'erba odorosa, divisi dalle albe che si sono addossate, e ci hanno
viste unite, a dimenticare le lacrime ed a raccontarci storie. Tante. E a
riconoscerci dall'odore, quello del ventre che ha posseduto l'anima.
C'è una dignità diversa che mi colpisce. Una strana sostanza che è molto
vicina alla verità, e spesso la ricopre e spesso ne resta scoperta,
come uno strano ed irregolare lembo. Ed è come se il sole rendesse tutto
meno visibile e troppa luce diluisse i dettagli. Mi piace osservare la
vita come una luna di carne, immersa in un buio precario che non chiede.
Ed appena conta. Pulsa come il battito tra le linee del polso e si
dirama in linee del destino nel palmo di una mano. Giusto quello che
basta. Mordilo, una volta solo, con me, questo sole. Almeno un pezzetto.
Fino a sfondarla la volta celeste ed a piazzarci tutte le lune sorelle
che ci pare. Perchè si è donne e silenziosamente avvolte tutte da sogni
inconfessati. Ecco vorrei un cielo sgualcito dove le cose hanno il loro
nome. E non importa conoscerlo. No, non ci importa. Splendete con me,
lune di carni sconosciute? Più che si può. E del resto non ci importa.
Si chiama rispetto, e forse solidarietà. E solo chi vive certe
sensazioni può arrivarci a quello strappo. Dopo del quale si rinasce.
Sì. Brillate.
Come pietre lisce e levigate le parole
si atteggiano a pila precaria. La voce dell'acqua scandisce gli spazi.
Come se la precarietà fosse il perno della coerenza, di quella coerenza
che chiama gli errori a gran voce e scandisce i respiri. "Vieni nel bosco, seguimi".
Mi piace ordinartelo. E sentirmi il fruscio della tua volontà che mi
segue. E questa volta, una tra le tante, non chiedo, sussurro. Come
quando le farfalle muovo le ali, indecise se spiccare il volo o muoversi
i colori nell'aria, incontro alla luce. La voce dei sassi segna e
cancella, come se ci fosse rimorso nel tempo che sfoglia, leviga ma non
cancella. "A piedi nudi, sento l'erba tra le caviglie. E non è inutile". I graffi mi disegnano il passaggio e rincorrono i passi. "Ho il fiato corto, ma non mi fermo. Respirami vicino. Voglio guardarti mentre mi baci. E mentre ci imbrattiamo di rugiada". Non conto i giorni. Non più, mentre le albe si schiudono sui miei polsi, come tagliati, piccoli solchi che si rincorrono. "Nel bosco ti dirò il mio segreto". Ho cercato di plasmarmi e di piacere. Anche se mancava la scintilla. "E ho sognato un fuoco, più sincero delle sue fiamme".
Nelle foglie leggo le risposte e ne assaporo la superficie, in una
danza di dita e oblio. Non cerco, attendo. Ma nell'attesa vi è la
ricerca più dolorosa, più pregna, più fiuduciosa. E la fiducia è
l'illusione più crudele delle fate. E teneramente mi astengo. "Perfetto? No, sommamente sciocco".
E mi liscio le caviglie e ci ritrovo parole ignorate. A cosa ti
avvicini di più? Cosa sei? La porta del bosco ha spiragli? Perchè la
rotta è persa, tranne che in un punto, dove scintilla ancora un
frammento di stella.
Ero là. Esattamente là, ad un passo dai
tuoi occhi. Ci sono sempre stata ed ti imploravo di guardarmi.
Invisibile e fastidiosa, come un vetro sporco. Ingombrante, come un
pacco non desiderato. Forse un piatto fumante, nei giorni sazi. E non
versavi i tuoi occhi su di me. Mai. Mai una parola, un saluto
affettuoso, una cosa qualsiasi. Mi usavi, come velina, per lucidare la
noia che incalzava, sempre di più, sfogiandomi come una margherita
cagionevole, con al centro un cuore giallo, che avrebbe voluto solo luce
sui suoi petali. Un poco di tenerezza sincera. Adesso se ci penso, non
fa male, credimi. E smettila di sentirti un eroe del male. Sembra sia
accaduto ad un'altra, e sicuramente è così. Da qualche parte
qualcun'altra sta sentendo questo stesso vuoto, o troppo pieno. Ed è
quello che ci dovrebbe rendere solidali. E non vestali di una dignità
sgualcita, pronte a sciorinare lenzuola candide e preziose, su cui
strusciare i nostri sessi, come se avessimo la luna tra le cosce. La
luna è nel cuore, mettiamocelo nella testa. Capita a tutte, perchè noi
donne siamo inguaribili cacciatrici di sogni dentati, destinati ad
agganciarsi, con le loro lamette, il cuore, prima o poi. Se solo ripenso
alla dovizia e cura con cui ho raccolto i rifiuti, ripetuti e tronfi,
intervallati da quelle incertezza che alle sciocche fa credere che tutto
sia possibile, e si srotola in trempide attese. E le menzogne poi.
Tenendo tutto questo stretto, con un nastro scarlatto, uno o più giri.
Potrei giurare che non sia accaduto. A me ed in questa vita. Sembra così
ridicolo tutto quel dolore, inutile come il giornale del giorno prima.
Ed è così semplice, visto senza pelle, come ora. Perchè l'indifferenza
tira come salsedine, e graffia, e prima o poi smetti di sentire, e te ne
accorgi solo dopo. Ecco adesso è quel "dopo". Siamo malati di bisogno e
quel bisogno di sentire, che si fa tremare mente e cuore e poi ci
lascia come fili d'erba in una notte qualsiasi. Ignari del nostro nome e
della nostra identità, quasi incapaci di sentirci alberi, dalle fronde
lussireggianti. Perchè io al bosco ci credo ancora, al bosco nella
notte, alla cappa di stelle sopra le foglie ed alla loro luce buona che
si bagna di rugiada. Quasi come una favola sincera, che non chiede. Non
più. Ora so. Ora lo so. E mi astengo. Perchè l'amarezza è solo nel non
aver compreso, mentre era troppo facile. E vorrei solo che la rabbia
verso me stessa, riesca a diradarsi e a ritrovare quella luce, come una
corda, una mano, e una carezza. Adesso lo so. Si può vivere al buio. E
chi lo fa ama la luce disperatamente, e la rispetta.
Come si dovrebbe.
Voglio
e vorrò essere la cosa più lontana e diversa rispetto a quello che sono
stata. Senza gelosia, senza mancanza di rispetto, senza senza sogni.
Senza nulla. O solo un poco meno sbagliata. Almeno per ricominciare.
Se amassi le faccine ci avrei piazzato un sorriso.
Oggi
avrei solo voglia di scrivere cose tristi. Perchè sono triste, e non
dovrei. Ma lo sono, quasi irrimediabilmente. Ed è una situazione ancora
una volta complessa ed inestricabile. Il contrasto tra quello che sei e
quello che gli altri si aspettano da te. E tutto mi pulsa nelle
tempie. E questa tristezza respinge. E sono sola, come mai prima. Il
mondo sembra troppo veloce o troppo lento e io sento la pelle che
striscia, che stride, che quasi diventa elettrica, contro tutto questo.
Non so spiegare, non so descrivere, non so fermare, eppure vorrei,
vorrei frapporre e spingere le dita dentro tutto questo. Come quando
infilai un piede sotto la sedia a dondolo, e mia nonna e mio fratello,
che lei cullava al petto, quasi cadevano. Eppure io lo studiai,
analizzai il movimento, prima di infilare il piede, sotto. Mi sento di
assorbire il dolore degli altri e non voglio più. Gli altri ti
riversano il loro dolore, i loro problemi, le loro inquietudini. E tu
le assorbi, le lisci, le levighi. Fino a non poterne tu. Perchè in
tutto questo, hai quasi perso il tuo sangue. E non ritrovi più te
stessa. Non so. Non mi sono mai sentita più inadeguata a vivere. Ogni
mio sogno, ogni mio desiderio, ogni mia aspettativa è stata
accartocciata, appallottolata, a volte sventrata. E così ogni mia
paura. L'ho confessata e subito è diventata realtà. Perchè io credo che
la magia si abbia solo quando qualcuno ti percepisce per come sei e
non ti vuole diversa. E non so fermare tutto questo ed uscire dalla mia
testa. Forse è questa la solitudine che ho sentito spesso descrivere.
La impossibilità che gli altri giungano davvero fino a te e che tu
giunga a loro. Sono portatrice insana di tristezza ed in un attimo
tutte le mie certezze sono voltate via, come farfalle. Ho decisamente
bisogno di dimenticarmi. Di un poco di sano oblio.
E poi nascondersi, solo per essere cercata.
Finalmente.
Rendersi
puntino, piccola stella di polvere. In attesa del soffio al ridosso
del vento, di un vento che urla e racconta. E perdersi, accavallarsi,
allitterarsi, rotolare, nel senso strisciato di parole che si addossano a
parole, e pensieri a pensieri, e tormento e gioia si mescolano in una
coppa, e tu hai una voglia pazzesca di leccarne il bordo e specchiarti
in quella zuppa che ti darà un nuovo colore. Non riesco molto a
parlare. Io ascolto e mescolo una confusione calda, e crudele. Non lega
nè leviga, e io affondo e l'aria è il mio cappello. A volte mi vesto
di stelle, ma solo per spogliermene. E per strappare insieme a loro una
rabbia sottile, come un velo indaco; perchè il mio valore si deforma
nel tuo ghigno e nel tuo alito sul vetro e nei tuoi occhi che mi
guardano fino a sotto, come se fossi la grotta del peccato. Il sapore
dell'impotenza e del parlarmi addoso è quasi logoro, osceno ed ondeggia,
come fa una fanciulla sui suoi tacchi, e si conta la vita nei passi.
Ancora uno.
Ho dimenticato come si resiste.
Ancora un altro.
Io non so più resistere.
Ed urlo.
Ho chiesto aiuto.
Ho steso la mano.
Un nuovo passo.
In attesa della carezza.
Non è arrivata.
Come se io fossi petalo di carne.
Da straziare.
E gocce di sangue tra le spine.
Forse promesse.
Nel flusso di corrente, energia e mistero, e poi luce, mi sento pesare
addosso una inconsistenza quasi eterea, oserei dire cosmica, se fossi e
rispettassi di più la mia mente e quella, macchiata, fosse il mio solo
credo. E quella scia segna e sibila addosso, come se pensassi con il
corpo e nulla prendesse la sua forma, e poi avvolge ma inevitabilmente
scopre, e profondamente. Ed è come se tutto restasse sensazione,
intuizione, pugno di luce che non si addensa mai in materia. Non so
dialogare, mi risulta difficile. E mi macchio di una solitudine che è
quasi rabbia, e sfiducia e non dovrebbe. Una specie di grumo d'anima che
non si liscia e si accavala in virgole imprecise. Da tanto tempo,
ormai. E non so spiegare. Come se fossi un nodo d'anima e di carne. E le
mie vene le arpe di questo sentire sfuso e stonato, disordinato. Avete
mai sentito una campana nel vento? Io forse no. Ma la ricordo
nitidamente. Ed anche un mondo bianco e sospirante, come una spada e la
sua lama. E l'odore di legna, forte e maschio. Quasi brutale, ma
terribilmente rassicurante. Vivo di cose piccole, di recente. E un poco
mi piace, e per il resto, mi slento nell'attesa di quell'evento che di
vita ha poco, ma che io so che esiste. Lo sento. E di sensazioni mi
svesto, per sentirle più vicine. Perchè nel corpo si celebra il tripudio
dei sensi e della mente. Ed io odio le cose riscaldate che non sanno
ardere. Appassionatamente. Almeno così me la ricordo essere la vita.
*
Come se io fossi la donna formica.
Annusavo un mondo fatto di terra. E spesso ho sentito il sangue della
terra poggiamo le dita sulla corteccia degli alberi. Per sentirne il
battito. Ed il mio su quel tronco. Le risposte data dagli alberi hanno
una voce diversa, una musica profonda che le pervade, una specie di
senso diverso che puoi solo intuire e mai spiegarti, mai fino in fondo e
non devi descriverlo a nessuno. Ti basta sentirlo. Le cose cambiano e
gli altri cambiano con le cose, vite che si avvolgono e si srotolano,
altrove, in altri venti. E la mia che sfiora questo sangue di albero, e
le sue parole. E riavvolgo le mie cose per tenerle vicine vicine, prima
di lasciare andare tutto via. Una specie di calco sul cuore. Ed è che il
cuore spesso fatto di mani, di dita, di carezza, di presenze. Ha molta
più carne e fiato, di ogni possibile previsione.
E spesso tace non perchè non ha da dire, ma perchè vorrebbe dire troppo.
C'è una scia grigia nel cielo che lo rende irresistibile stasera.
Sembra che i gabbiani ci giochino intorno e ricamino il cielo.
Ed è preziosa questa malinconia come un salto che la mente fa a piedi uniti.
E mi ritrovo presa da lettere che sembrano nuove
e che stranamente sento familiari.
Come se la vita ci sputasse fuori dalla sua pancia con un solco.
Quasi invisibile.
E prima o poi arrivi il suo incastro.
Magari l'occasione.
Forse un respiro.
O un frammento di sensazione.
Una scintilla negli occhi degli altri che non so smettere di guardare.
Come se fosse un dono.
E forse lo è.
Un sogno, subito dopo il risveglio, frammisto agli sbadigli.
Teneramente confuso.
domenica 14 aprile 2013
In quel mescolarmi e ritrovarmi c'era un
desolato vuoto che mi delineava. Ero la carne puntellata da
quell'assenza di me. Ed io la lasciava pulsare beffarda, senza cercare
di mutare, ma lasciando al tempo, artefice e pantocratore, la sagoma del
mio pensare. Smunto, senza deliri, senza desideri, solo una serie di
slanci e neuroni e sensi sparsi in scampoli e frattaglie, tutto alla
rinfusa. E non ignoravo, nè riflettevo. Io avevo il compito sublime
dell'esistere i miei giorni. Aveva smesso di siglarli con l'amore ed il
tormento. E li lisciavo con una serenità protesa come una freccia, senza
bersaglio. Ogni fine ha in sè il piccolo grumo di sangue che il cuore
ha espulso, cercando di non renderlo odio, anche se restano sempre
frammenti di risentimento, e scarso pudore ed un poco di freddo. Quello
di cui coprirsi nelle notti silenziose in cui la luna tenta di morderti
il cuore e lo spezzetta e tu insegui i pezzetti di cuore o è solo una
maledetta voglia di carne del tuo sesso umido.
E tu ti volti e ti riscaldi.
Un'unghia spezzata nel tentativo di graffiare e il sapore del sangue sulle labbra.
O solo di succo di fragole.
L'innocenza non c'era ma la avevo disegnata io.
L'innocenza non esisteva ma la avevo raccontata io.
L'innocenza non pulsava più, era mozzata,
ma la professavo io.
Devota e zelante.
Perchè in noi cresce un frammento di ignoto,
in attesa di essere sfogliato, depredato, spaccato,
spezzato.
Come un fiore selvaggio.
E non esisto.
E me ne vanto.
Non tentare di ricordare il mio odore.
Non te lo consento.
Sospesa
Supplico l'aria di continuare.
A spingere i pensieri.
E disegnare la mia sagoma di sabbia.
Per poi cambiarla ancora.
Sospesa sulla luce.
Mi intreccio a sogni di juta.
Tra vene e pelle.
Come corde di uno strumento muto.
In una rete di fili di buio purissimo.
L'aria si sta impregnando della melodia del silenzio.
Rubo il fiato ad una farfalla stanca.Lei lo ha rubato ad un fiore.Aveva promesso di restituirglielo.Ma non l'ha fatto.
Larva. Farfalla. Ali. Volo. Cielo. Terra. Sangue. Linfa. Albero. Larva.
Sanno di aria.E di terra scura i miei sogni.Come occhi della notte.Scrutano le radici del mio cuore.Pensieri circolari.Rotolano in un cielo in affitto.Scorre l'inconsistenza.Buca il tronco e scorre.Schizza zampilli di verità.La verità imbratta.Le mie ali sono fatte di sangue.Fendono la realtà.Ritagli di vite.
Vuoto.Pieno. Pieno. Vuoto.
Mi volto.Mi protendo.Voglio fermare il vento.Per raccontargli una storia.Mi sfugge tra le dita.Le taglia.E strappa la mia verità.E' nascosta in quel tronco.
Adesso portami nella casa delle farfalle.
Ma prima distruggi le mie morbide ali.
Dopo avere riempite di colori nuovi.
Soffia lontano il dolore E la tua idea.
Sono tra le tue mani adesso.
Puoi percepire la mia fragilità.
E' una verità a metà.
Con metà cuore.
Di una farfalla
che ha donato
le ali al vento.
E ha rubato,
una volta,
il respiro
ad un
fiore.
Chiudi
la tua
mano.
Puoi.
Io non ho paura.
Non più.
Amore, perdonami
Se adesso aprissi le mie mani, sarebbero davvero vuote e stanche.Striate dall'aria. Scavate da parole. Come rigagnoli di linfa impudica.Evaporata al sole. Quando la luce del giorno filtratra le palpebre e mi solletica la coscienza. E la cavalca.Come piume variopinte. La accarezza fino a rubare ogni respiro.
Il segreto è una apnea dalla verità.
Segreto.
Sta vibrando.
Qui.
Nelle mie viscere.
Un nodo nero.
Slegato e riavvolto.
Accarezzato e stritolato.
Dalle stesse identiche mani.
Come radici di anima.
E sentivo la tua bramosia che si cospargeva sulle carni.Inseguivo le tue mani che vagavano nel contorno delle mie paure.Ricamavano ragnatele. Risucchiata la bimba. E risputata nell'aria.Non pianse. Spinta e respinta. Fino a farla vagare come un palloncino.Vagò. Vagava. E vaga. Graffiarono la donna.Dita di desiderio che all'improvviso divennero artigli.
Era amore.
Lo specchio d'acqua sull'abisso.
La cosa più naturale e pura.
L'acqua che tutti vogliamo bere.
Ma sui miei occhi c'era la benda del peccato annodata stretta.Abili mani cesellavano i pensieri. Li modellavano. Come creta del vasaio.E le forme erano altre. Perchè persi il controllo della mia creta.E non c'eri più. Non era importante quello.Eri andato e non eri mio. Mai stato.Esploravo il mondo senza usare le cinque dita.Con il palmo pronto a fare da coppa.Ma ancorato al filo di quel palloncino.Strattonato nel vento e ondeggiante.Cosa è cambiato? Non oso pensarci.Chi è prigioniero, l’anima o il corpo? Chi?
"...Amore perdonami: sono brutale
e vorrei ungerti d’olio,
ti perseguito e vorrei
che davanti a te io fossi un tappeto,
ti amo e mi recludo nel mio silenzio,
ma ho paura, paura di me stessa,
di questi gigli orrendi di fame e di fango
che crescono nella mia mente..."
A me succede che allontanandomi dalle cose io le veda.
Farfalle sulle labbra
E tra le mani. C'è stato un tempo in cuile mie labbra sputavano farfalle. Piovevo farfalle.Le osservavo mentre frustavano l'aria con le ali.Ne imitavo i colori. Li imprimevo nella mente.Descrivendomeli nella testa.Me li raccontavo e le mie parole mi facevano compagnia.Rigavo i pensieri di mille colori. E me ne riempivo le mani.Farfalle dalle labbra alle mani. Fino alla testa.
Un volo fino al cuore.
Sciami di farfalle lo avvolgevano.Le lasciavo sul mio palmo.E loro lo accarezzavano.Per alcuni istanti mi sonosentita una di loro.Una farfalla cieca.Poi ho riaperto gli occhi.
Ho dipinto le mie ali.
E le ho spedite al vento.
E ho volato.
Con le mie ali finte.
E strappate.
Per poi vivare nella mia ombra.
Le mie ali sono rimaste incastrate là.
Adesso nella mia mano è adagiata una sola farfalla.Mi inonda il palmo con il suo respiro.Lei mi presta la sua aria. E io il mio palmo.Io vivo nelle sue ali.A volte la nutro di parole.E le dono pezzettini della mia pelle.E della mia dignità. Sento il suo odore.
E' l'odore della luce.
E' tornata. Ho cercato la luce.L'ho cercata come si cercala forza nella disperazione.E si impone al cuore di contrarsi.
E adesso io sono la sola galleria tra il mio corpo ed il mio cuore.
Non aspetto più parole.Le dono senza chiedere nulla in cambio.Ho lasciato che nella mie mentefossero deposte gocce di cera.Calda. Irriverente ed impudica.
Ne ero la indegna coppa.
Ma la luce le ha sciolte.
Sento solo la loro traccia.
E di tutta questa indegnità.
Da bimba spargevo le foto sul pavimento.
E le affiancavo e le allontanavo.
File di foto.
Spezzate e ricomposte.
Come con le parole.
Per dire tutto o nulla.
A volte le ritagliavo.
Non per distruggerle.
Ma per nascondere pezzi agli altri.
Mi piacevano le cose semplici e
definite. Con i contorni sottili e decisi. Un po' come le parole.
Preferivo quelle asciutte, senza affezione alcuna per quelle sdrucciole.
Le usavo quanto bastava, per esprimere, per significare, ma senza
descrivere le cose, che evidentemente erano già di loro, per quello che
era la loro dimensione, a prescindere della mia percezione e dalla
capacità di esprimerla. E mi sembrava, almeno quella volta, di essere
ramo, dentro una foresta, persa tra le sue voci ed i suoi rumori, le
urla dei tronchi, il loro fremito, e il sibilo delle radici ed il loro
mescolarsi alla terra, il loro rovistare sempre più a fondo, a caccia di
acqua. Io, finalmente incapace di sentire la mia, la mia voce, quella
stessa eco di me stessa e dei miei desideri e delle mie pulsione
selvagge o solo gli grido della serenità più bieca. Era così sottile il
confine tra le cose importanti e quelle essenziali. E nella mattanza del
bisogno e del desiderio non li distinguevo, e neanche il resto. Dove
andavo? Dove era la luce? Cosa mi avrebbe restituita a me stessa?
Soggetto attivo e passivo, come sempre, parti configgenti, ma per la
prima volta con la chiara percezione di avere l'anima tra le dita e
tutti gli errori che le colavano intorno ed addosso, fino al polso. Uno
strano braccialetto, e con il polso imbrattato dai mie battiti e da
tutte le scie di quello che era stato e che non avrei voluto. O che
avevo voluto troppo e maledettamente. Ed era sbagliato ed inutile.
"Ti
prego, taci. Non è successo nulla. Mi prenderò io cura di te. Ignora il
ghigno e stringiti a me. Coprirò il tuo freddo e le tue
stagioni.Suggerai la comprensione, e non lo saprai. Vorrei donarti
l'oblio. Non smettere di stringermi. Non ti farò male.".
"Signor albero, non saprei".
La
luce delle foglie e il loro palmo offerto al cielo ed i suoi rami
ruvidi e sinceri mi abbracciavano e non mi facevano male. Graffiavano
quel poco che consola. Come se mi fossi trasformata in foglia, in
radice, in fronda. Sentivo una luna diversa. Quasi liquida. Fino alle
viscere. E mi scorrevo, più lenta di linfa.
Ero solo una sillaba.
E mi piaceva.
Non
nutrivo più l'ego altrui nè assaporavo occasioni per nutrire il mio. E
io lo sapevo, sapevo, perchè lo sentivo, che il seme stava per bucare
la terra. Avvertivo tutta la forza silenziosa dell'urto, della nascita,
del dopo e del poi. Fino al risveglio.
Lontano.
Nè foglia, nè tronco, nè ramo, nè radice.
Solo donna.
E nessuna voglia più di spiegare.
R_una nuova
Luna di lana. Luna di gesso. Lama di luna.Seduce come primitiva malia. Penzola sotto il soffitto.Bava di infinito. Sta per cadere. Oscilla. Ingoia aria.E la mutua in sensi. E io osservo. Fuggo.Nuove pose. Di luce opaca. Di buio lucente.Dondolano i pensieri. Sfuggono. Sotto un cielo di carta.Lama che taglia spicchi di luna. Luna affettata.Affilati raggi. Lontani. Ignoti come spade di una battaglia mai vinta.E mi riempiono le iridi. Stanotte brillano di stelle di carta.E non riesco a spegnerle. Come puntini di buio.E bruciano parole. Nella testa. Ceneri di una luna al rogo.
E io mi fingo strega
e striscio mani su muri ignoti.
Parlo con nocchia e sangue.
E con il silenzio.
Ho disciolto nelle vene un fiume venefico.
La comprensione.
Scorta e percorsa.
E mi rivesto di puro freddo.
Faccio mazzolini di pensieri.
E li lego con i miei brividi.
Mi interrogo.
E la terra resta muta.
.
"...L'ho rifatto
Un anno ogni dieci
Ci riesco
Una specie di miracolo ambulante, la mia pelle
Splendente come un paralume nazi,
Il mio Piede destro,
Un fermacarte
La mia faccia un anonimo, pefetto
Lino ebraico.
Via il drappo,
O mio nemico!
Faccio forse paura?
Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti?
Il fiato puzzolente
In un giorno svanirà.
Presto, ben presto la carne
Che il sepolcro ha mangiato si sarà
Abituata a me
E io sarò una donna che sorride.
No ho che trent'anni.
E come il gatto ho nove vite da morire.
Questa è la Numero Tre.
Quale ciarpame
Da far fuori a ogni decennio.
Che miriade di filamenti.
La folla sgranocchiante nocioline
Si accalca per vedere
Che mi sbendano mano e piede
Il grande sporgliarello.
Signori e signore, ecco qui
Queste sono le mie mani,
I miei ginocchi.
Sarò anche pelle e ossa,
Ma pure sono la stessa, identica donna.
La prima volta sucesse che avevo dieci anni.
Fu un incidente.
Ma la seconda volta ero decisa
A insistere, a non recedere assolutamente.
Mi dondolavo chiusa
Come una conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
E staccarmi via i vermi come perle appiccicose.
Morire
É un'arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale.
Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho la vocazione.
È faccile abbastanza da farlo in una cella.
È faccile abbsatanza da farlo e starsene lì.
È il teatrale
Ritorno in pieno giorno
A un posto uguale, uguale viso, uguale animale
Urlo divertito:
"Miracolo!"
È questo che mi ammazza.
C'è un prezzo da pagare
Per spiare le mie cicatrici,c'e' un prezzo da pagare
per auscultare il mio cuore
Eh sì, batte.
E c'è un prezzo, un prezzo molto caro,
Per una toccatina, una parola,
O un po' del mio sangue
O di capelli o un filo dei miei vestiti.
Eh sì, Herr Doktor.
Eh sì, Herr nemico.
Sono il vostro opus magnum.
Sono il vostro gioiello,
Creature d'oro puro
Che a uno strillo si liquefà.
Io mi rigiro e brucio.
Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà.
Cenere, cenere
Voi atizzate e frugate.
Carne, ossa, non ne trovate
Un pezzo di sapone,
Una fede nuziale,
Una protesi dentale.
Herr Dio, Herr Lucifero,
Attento,
Attento.
Dalla cenere io rinvengo
Con le mie rosse chiome
E mangio uomini come aria di vento..."
Un anno ogni dieci
Ci riesco
Una specie di miracolo ambulante, la mia pelle
Splendente come un paralume nazi,
Il mio Piede destro,
Un fermacarte
La mia faccia un anonimo, pefetto
Lino ebraico.
Via il drappo,
O mio nemico!
Faccio forse paura?
Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti?
Il fiato puzzolente
In un giorno svanirà.
Presto, ben presto la carne
Che il sepolcro ha mangiato si sarà
Abituata a me
E io sarò una donna che sorride.
No ho che trent'anni.
E come il gatto ho nove vite da morire.
Questa è la Numero Tre.
Quale ciarpame
Da far fuori a ogni decennio.
Che miriade di filamenti.
La folla sgranocchiante nocioline
Si accalca per vedere
Che mi sbendano mano e piede
Il grande sporgliarello.
Signori e signore, ecco qui
Queste sono le mie mani,
I miei ginocchi.
Sarò anche pelle e ossa,
Ma pure sono la stessa, identica donna.
La prima volta sucesse che avevo dieci anni.
Fu un incidente.
Ma la seconda volta ero decisa
A insistere, a non recedere assolutamente.
Mi dondolavo chiusa
Come una conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
E staccarmi via i vermi come perle appiccicose.
Morire
É un'arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale.
Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho la vocazione.
È faccile abbastanza da farlo in una cella.
È faccile abbsatanza da farlo e starsene lì.
È il teatrale
Ritorno in pieno giorno
A un posto uguale, uguale viso, uguale animale
Urlo divertito:
"Miracolo!"
È questo che mi ammazza.
C'è un prezzo da pagare
Per spiare le mie cicatrici,c'e' un prezzo da pagare
per auscultare il mio cuore
Eh sì, batte.
E c'è un prezzo, un prezzo molto caro,
Per una toccatina, una parola,
O un po' del mio sangue
O di capelli o un filo dei miei vestiti.
Eh sì, Herr Doktor.
Eh sì, Herr nemico.
Sono il vostro opus magnum.
Sono il vostro gioiello,
Creature d'oro puro
Che a uno strillo si liquefà.
Io mi rigiro e brucio.
Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà.
Cenere, cenere
Voi atizzate e frugate.
Carne, ossa, non ne trovate
Un pezzo di sapone,
Una fede nuziale,
Una protesi dentale.
Herr Dio, Herr Lucifero,
Attento,
Attento.
Dalla cenere io rinvengo
Con le mie rosse chiome
E mangio uomini come aria di vento..."
Ti confesserei uno e più segreti.
Ma la fiducia come una velina fragile nel vento
trema e precipita.
Attraversa strati di mente,
carne,
sangue,
o solo fremiti alla deriva.
Sapevo tremare, ma adesso non lo ricordo.
Perchè la mia pelle ha smarrito le sue linee.
Come una corda le sento
premere sulle mie vene.
E alterno battiti e sospiri.
Tutti parlano di anima,
ma l'anima dovrebbe renderci
tutto più semplice.
In fondo è solo la mente
che come una virgola fuori posto
confonde tutto.
Ma la fiducia come una velina fragile nel vento
trema e precipita.
Attraversa strati di mente,
carne,
sangue,
o solo fremiti alla deriva.
Sapevo tremare, ma adesso non lo ricordo.
Perchè la mia pelle ha smarrito le sue linee.
Come una corda le sento
premere sulle mie vene.
E alterno battiti e sospiri.
Tutti parlano di anima,
ma l'anima dovrebbe renderci
tutto più semplice.
In fondo è solo la mente
che come una virgola fuori posto
confonde tutto.
Gelosa del mio tormento, taccio. E lo
ascolto, come corda di vento, legare e slegare boschi. E la loro voce. I
brividi tra le foglie. Mi volto e ti sorrido. Nulla appare così
inutile, quanto la realtà. Perchè esattamente là la misura della
possibilità si sfalda e si assottiglia, insieme all'indefinito, ed alle
sue bolle di luce. La mia bocca ci schiude in una parola. Insegui le mie
labbra. E si accomuna e si riflette e si somma, mescolandosi
all'impossibilità. Io tenera erba mi piego, fino a sfiorare il suolo ed a
sentire il polso leggero ma profondo. Si cala nel mio ventre. E così
geloso della vita, in un'altrove privo di senso, e pregno di fantasie,
quasi indecenti. Spogliami. E mi ricopro e mi mostro, nuda come la luna
in questa notte senza nuvole, con poche stelle, e tanto cielo da
sfogliare. E da accarezzare.
Pochi pensieri e un vuoto che urla.
Il mio odore è il mio segreto più sincero.
Non è mancanza, ma il fruscio dell'abbandono.
Foglie che ridono.
Come una serpentina dell'ultima sabbia.
Prima di sporcare la via
con la macchia del mio sangue.
La vita che si fa asfalto.
E passi.
E mi seguo e mi ritrovo.
E ci provo.
E adesso vattene.
Lo strano bisogno di ricoprire il mondo
di una patina. Per non toccarlo, per non mescolarsi, per non sporcarsi.
In fondo la vita è esattamente questo, la nostra esigenza, l'attitudine e
lo slancio, a sporcarci, ad impastarci, di mondo. C'è chi seleziona, e
sposta la copertina, scruta e valuta, e solo quando lo ritiene allunga
la mano con timore e chi invece si scopre senza problemi e tocca e si
lascia toccare, con il palmo aperto ed avido.
E poi c'è anche chi spaccia impronte,
come se fossero parole,
anzi più velocemente.
Vortici di parole ed impronte.
Come se quello fosse la misura e la dimensione dell'esistenza.
Abbracciami.
Forte, ti prego.
Abbraccia il mio respiro.
Ho solo bisogno delle tue mani,
come collane di fiori,
a cingermi,
oltre la carne,
dentro le ossa,
a confine con il mio sangue.
E forse con la mia anima.
Lei scorre, rossa e densa.
E io non voglio.
Perchè io a volte penso proprio questo,
di avere l'anima rorida di sangue.
Piena di macchie.
Dopo che ha perso le sue ali,
piccolo angelo monco
e tremulo
e senza piume.
Abbracciami.
Io so ancora tremare.
E ingoio coraggio per andare avanti.
E non chiudere il palmo.
Sento con la pelle
e la pelle mi restituisce pensieri,
come se fossi un fiore.
Ma non lo sono.
E poi che importa?
vevo lasciavo un sassolino grigio al mio
posto. E al posto del mio cuore. Perchè fino a quel momento ero
convinta di essere proprio dove era il mio cuore. E dove era stato poco
prima. Una scia frammista a rosse oscillazioni, più della gelosia, e
della mia atavica insicurezza e del mio bisogno di conferme. Come se le
ciglia degli altri fossero mannaie che mi forgiavano. E mi divertiva
pensare che gli altri, o forse solo qualcuno, credeva di sapere cosa ci
fosse là dentro e dove fossi io. E quel sassolino segnava il posto e non
contava. Era un artificio irregolare, e sincero, come irregolare e
sincero era il mio sentire. Nel breve periodo. Poi dilatando tutto
prendeva altra forma e direzione. E quello era il mio punto debole e
quello era anche il mio dannato punto di forza. Manifestare tutta la
debolezza di cui ero capace e poi sorprendermi con una forza che fino ad
un istante prima io ignoravo. Ero, e sono, la donna dalle certezze di
carta velina, capace di inzupparle di sogni o di strapparle e poi
inseguirle. E quella precaria instabilità era divenuta un mal vezzo,
diluita in una sincerità che spesso diveniva voglia di dire tutto,
proprio tutto, oltre ogni decenza, e poi di restare drammaticamente
vuota, e sola, più di una canna sul bordo della strada, costretta ad
ondeggiare ad ogni passaggio, ed a tutta la sua estranietà. Ai suoi urti
e ad alla assenza di un vero senso. A volte capita di rendersi conto
che sono i posti che ti plasmano, e sono sia quelli visibili che quelli
invisibili. Perchè ci sono posti invisibili che noi frequentiamo, ai
quali siamo abituati, nei quali ritorniamo, quasi senza accorgercene. E
spesso non sono solo nella mente. Sono sempre stata fortemente colpita
dalle parole, come se siano un prestito grossolano ed invadente della
mente. E subisco il fascino immondo della profondità, di quella che non
ha bisogno di ostentazione, e che ha una sua leggezza quasi
impercettibile.
Una specie di zefiro frammisto alla voce di ninfe.
Ed al sangue delle rose.
Raccolgo il sassolino e lo lancio lontano.
Oggi mi sento un angelo di carne.
Ho aperto la finestra ed era
inaspettatamente primavera. E così ho raccolto i pochi brividi che mi
restavano e mi sono affrettata, per sentire tutto l'odore possibile
dell'erba appena tagliata, frammista all'umido salso della spiaggia. Ho
sfilato tutti gli anelli dalle mie dita, solo per sentirle, dopo tutti i
graffi, libere nel vento. Perchè ho scavato nella terra, e non ho
smesso, e sono rimasta prigioniera della sua forza silenziosa. Siamo
tutti figli dello stesso ventre, ma non sappiamo dircelo. E così ho
sentito la vera appartenenza che mi accarezzava i graffi, e li legava e
poi li slegava, come piace a me. Nello stesso modo di quel vento che non
toglie e che non ferisce e che ricompone la corolla del fiore in cui si
impiglia, lasciandolo oscillare nell'aria. Come se il tempo fosse la
sua culla, il suo salmo, il suo profumo. E non coprisse ma lievemente
accarezzasse, fino a sublimarla,la fame della carne. Il resto è più
astratto di ogni lacrime. Ed io ho bisogno di piangere dannatamente
concreto. Ed ho bisogno di baci casti sulle vene. Non ho bisogno del
poco. Non lo voglio. Io pretendo. Il mio cuore pretende. Il mio corpo,
improvvido ed avido, molto di più. E non mi doso, mentre faccio scempio
della mia anima, e la percuoto, come un cuscino di piume. O come una
frusta o il suo sibilo silenzioso. Il male degli altri ci rende
migliori.
Io ti assolvo.
E mi condanno infinite volte.
Ed il mio alone è il mio mistero.
Quasi quanto la mia voglia.
Perchè questa parte di me ha una sua voce
e racconta le sue fiabe, proibite e candide e poi sordide.
Ed implora dannazione.
Ecco, io ti assolvo.
Perchè sono troppo buona.