La foresta dei miei sensi si scuote muta. E muta ed incompleta giace e si spalanca. Mi piace pensarmi oscena. La sento più serena. Più aperta. Nell'invisibile confine tra magia ed illusione. Illudersi ed illudere non sono mai stati tanto diversi. Vorrei spogliarmi mentre mi parli. E non mi guardi. Non saprei quale arriva prima e quale lo segue. Quale è l'immagine ed il riflesso. Come se lo fossi anche prima. O in che punto giungano così vicini da sovrapporsi. Infilarti le dita in bocca e scrivermi addosso. Qualcuno deve aver pensato che la mente non fa che ricordare e riempire le forme e le sagome della fantasia. La tua saliva sarebbe il mio inchiostro. Un contenitore primordiale che si spinge dentro il vuoto. Ad occhi chiusi. Perchè così è più facile ricordare. Anche io credo di aver sentito cose indimenticabili ad occhi chiusi. Ed in quel momento era proprio io a camminare scalza su quel sentiero. E io il sentiero di mille glosse che si accavallano. Forse per spiegare. O solo per confondere. Ed ho tagliato, in maniera maldestra, le canne, i papaveri e le mie trecce invisibili. E adesso il mio collo è nudo. Nudo e spaventato. Lo stesso collo dove tu mordesti stelle fino ad intrecciare baci alle mie ossa. La mia foresta si scosta i lembi, perchè là giace il suo segreto muto ed affamato, e fagocita mille lune ed il loro canto. E li fa densi come una poltiglia o un risentimento. O solo voglia di bene. E che qualcuno cancelli tutto il non essenziale. Ho voglia di immergermi dentro quell'ignoto. E commuovermi. Per sentirmi tintinnare le vene. Come se fossero cristalli. Commuovermi, perchè anima e pelle, arrivano vicine vicine. Senza paura dei graffi del contatto. Ogni parola è un incantesimo. La mente si fa lettera e ruba un pensiero. A me è capitato. Di avere per tetto solo rotoli di cielo. E intorno acqua e acqua. A rilucere stelle. Senza capire quale fosse l'orizzonte e quale la riva. Come su una zattera senza deriva. Immemore e con l'istante a farmi compagnia. Quasi un haiku sbavante. E che qualcuno lo strappi. E ho avuto sonno e nessuno che mi chiedesse di sognare. Nessuno che mi raccontasse favole. E io che le conoscevo tutte. Per poi svegliarmi nel cuore della notte e cullare il pianto di una sconosciuta. Baciarle i singhiozzi. E accarezzarle il capo fino a farla riaddormentare. In qualche vita prima io le sono stata madre o forse lei la mia. E restare così senza chiedere più.
Mai più.
Perchè poi in un punto i lembi si ricongiungono sempre.
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