Mi divertiva sempre osservare quanta componente di tempo ci fosse. E quanta altra fosse invece necessaria. Quanto ne fosse scorso e quanto ne arrivava in disavanzo. Del resto, l'armonia è fatta del tempo giusto. Nè troppo nè poco. Il contatto che non diveniva presa, la parola che non diveniva discorso, il pensiero che non diveniva incalzante. Una passione che manteneva il rosso esatto, mai liquido e livido e mai roseo. Mi piaceva staccarlo dal tutto, il tempo, o il suo frammento, e osservarne il corso e l'impatto, compiaciuta ed impacciata da quella capacità di astensione, da quella forza, da quella resistenza. Della mia assenza. Dal flusso e da ciò che era per davvero. Poterlo percepire dall'altro lato. Non capitava spesso. Quasi mai. Quell'essere in anticipo sulle cose. E goderne l'improvvido arrivo. Un salto, una premonizione. O forse solo la capacità di sentire ed avvertire un pò prima per ripararsi. Una Cassandra mai compresa. E poi decidere lo stesso di lasciarsi piovere o scostarsi solo un poco. Oppure di avvolgersi il destino addosso, tutto quello che capitava, ed attendere che divenisse e fosse meravigliosamente asciutto. E poi vedere le cose per quello che erano. Spoglie di ogni orpello. Senza smettere di farne strati e mai fermarsi al primo. Anche le cose devono avere le loro vene. Renderle scaglie di sostanza. Senza tempo nè sangue. Doveva essere tutto un gioco così. Poteva. Perchè essere cosa rende tutto più semplice. In fondo il corpo è la cosa più labile e fragile che ci sia. Ed è tutto nostro. Ci rende nostri prima di accorgercene. Un'aquilone sperso nel mondo. Capace di sentire prima della mente. Come su una montagna, al confine con le nuvole, con la magia della vita sotto, ad incastrarsi come onde che si infrangono su uno scoglio. E il tempo che non è più il granellino nella clessidra, ma la terra che germoglie, la luce che si fa abbraccio, il balzo del pesce, le ali di un uccello a fendere l'aria. Il tempo si slenta in un disperato bisogno di poesia.
Sempre troppo difficile da ammettere.
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