martedì 19 ottobre 2010

Parole. Foglie invisibili. Raccolgo parole dal ramo. Frutti di luce. E buio. E le infilo nelle tasche. Parole. Collane di parole. Sul mio collo. Non sono storie. Sono mani. E foglie legate. Tra una parola e l'altra ci sono io. Adagio la mia noia e la mia calda malinconia. Stamani avevo tre parole nel gomito. Ero una. E poi mi sono tesa e protesa. Incontro all'attimo. E ne ho perse due. Mentre una nuova foglia si poggiava la le dita. Due parole. Foglie e aria. Come voltarsi. E adesso sono altra. Sono cambiata una e più volte. E così si alternano i giorni. E non è bene e male. Ma prima e poi. E poi diversamente assorta mi ritrovo diversamente uguale. Ed ogni giorno è una goccia che si apre nella terra. Ed ogni pensiero è terra che si fende e lo accoglie. Occultarsi è la prima regola. Di una solitudine rumorosa. Uno scroscio di acqua. Un torrente ed una fiaba. Una notte in una foresta di selvaggio zucchero filato. La seconda è farsi raggiungere. Farsi ritrovare. Come fiore che buca la terra e dona la corolla all'aria. Raggiungimi. Io sono una nuvola. Mai trasparente. E senza peso. Un gioco del cielo. E sentirsi soli e nudi. In una solitudine che non ha regola alcuna. Nè la prima nè la seconda. E ne inventa nuove. Come bulbi. In attesa delle cure.
I tuoi occhi erano caramelle.
Le avrei scartate solo per annusarle.
E conservarne le cartine colorate.
Impregnate di un dolciastro che consola.
Ma mentivo.
Come sempre.
E non resistevo.
E ti leccai le ciglia.
Ne strappai una.
Come se fosse una promessa.
Prima della commozione ogni desiderio è vergine.
E non conosce la bellezza della imperfezione.
L'amore è un asterisco crudo.
Sul cuore.


Una stella livida.
Mondi inquieti. Sbadigliano come bocche all'alba. Un teatro di parole. Come se dire, e dire il più possibile, sia la misura dell'essere e sigli l'esistenza. Appartenenza. L'esserci stato. Un tempo. Nelle mia parole si incardina il non essere, sfuggito come un cavallo al galoppo. La velina dell'anima, frustata dall'irruenza. Svanire come un fantasma fatto di pelle. Con una O amaranto al centro. La casella della posta del cuore. La lama squarcia la buccia. La pelle della realtà. La vita si annida negli angoli reconditi. Il mondo è tutto pieno. E' la scatola dell'anima. Delle sue forme. Dei suoi gigli viventi. Dal candore strisciante. In attesa di sporco. Delle impronte. Delle tracce. Il mio rapporto con gli altri. Mi esercitavo in dialoghi muti. Tutto nella mente. Domande e risposte. Ma poi il mio mondo si tuffa nel contatto. E la mente, quella che sento mia, mi spinge il corpo contro il cuore. Senza aderire mai. Fontana di emozioni. Non smette di stupirmi. La reazione della mente al cuore stupisce sempre. Nell'antico gioco del dare e prendere e non saper mai trovare un equilibrio. Quando non subire è una misura tutta mia. Io so quale è la sua forma. Tutto ma non subire. Non alla maniera degli altri. Ma resistere alla mia. E, anche quando tutto dovrebbe lasciar intendere che la trave lascia scivolare il peso verso il basso, arriva il vento. La scala è rossa. Cosparsa di petali. Odorosa insidia di corolla negata. Non puoi non scivolare. Anche se stai salendo. Il silenzio fa così tanto rumore da impiccare ogni picco di coscienza. La consapevolezza è nello sterzo che ondeggia. Ed il dolore si infila nell'ombra delle ossa. Appare sempre altro. Il canto dell'agnello nel giaciglio di amianto. E il poco che resta. Il tanto è precipitato in caduta libera. E' altrove. L'agnello sta respirando. Non dovrebbe. Caduta ed errore. Come piuma. Solletica il mondo. Annodo le ferite. E mi volto. E riempio di scie il senso della vita. Perchè non mi allontano. Resto.
Foderata di sangue.
E guardarti negli occhi. E sei reale. E baciarci con il cuore. Vicine e sospese. Sei qua. Davanti a me. E parlarsi è un pò facile. E un pò no. E la vita che ci avvicina e ci unisce. Abbiamo spigoli ed apici che ci intrecciano. Ma poi l'aria e il tempo ci reclamano. E ci separano. Senza staccarci. Perchè non voglio. Mai più. Sarei rimasta ore. Come su un tappeto volante. A mescolare con te dolcezza e tristezza. E a lasciarci osservare laghi negli occhi. E navigare i pensieri e il senso della intimità. Quella vera.
Mi hai fatto sentire limpida.
Non succedeva da tanto.
E poi ho una gran voglia di spiegarlo. Dirlo una volta sola. Tutto d'un fiato. Uno sputo d'anima. E non ripeterlo più. Forse per assolvermi. Ho preghiere fatte di radici. Non voglio urlare animaebalocchi. Solo bolle di sapone. Le mia labbra sparano bolle. Barcollano sul mio letto. Come pensieri. Le sputo solo per vederle brillare. E sorrido. So vederle le cose. Ho imparato con il tempo. E' come poggiare mattonicini. Uno sull'altro. Piccole pile. Divoratempo. Voglio vedere. Per l'ultima volta. Dietro e dentro. Oltre. Oltre le cose. Là volevo arrivare. Là aspettavo. A questo punto. Che poi è quello. Oltre la dignità. E il grillo canta. E anche quella è una stronzata. E mi sono persa. E adesso io non so davvero più tremare. Anche se dovrei. Tutti i miei brividi si sono persi in un campo. E là sono rimasti. Con il grillo. Almeno uno è divenuto seme. Ed albero. Si chiama ricordo. Il brivido del silenzio. Ha rami fragili. Rubano carezze al cielo. Ma con attenzione. Sono figlia di un inverno lungo. E la sua coda è immersa nella neve. A fondo. Sotto.
Ma la mia memoria è sporca.
E non so ricordare.
Senza rami.
Sono foglia senza rami.
Ho uno e mille nomi.
Ma non servono.
Perchè sono tutti sbagliati.
Nessuna parola può spiegare.
Vorrei solo che tu mi ingoiassi.
Aprissi le tue braccia e mi stritolassi.
E poi mi nascondessi dentro.
A fondo.
Dove non servirebbero le parole.
Per dormirti nella pancia.
Fino alle tue viscere.
Ed annodarmi.
Come una donna pesce.
Senza cuore.
In momenti come questi avrei bisogno di parole nuove. Musa di latta. Strappo la pellicola del cielo. E inzuppo veline. Incanto e dolore. Stupore e candore. Neve. La coperta del mondo. La gioia di una vita che buca la coltre dell'impossibilità. Come una margherita in inverno. Nuda sul suo stelo. La meravigliosa magia di una stella nel gomito. Come se mi fossi spalmata cielo sulle bracca. Mentre è solo che ti penso. E ti penso. E mi sdradichi e mi abbracci. E la neve sorride muta. Tanto coprirà. E tutto passerà. Vorrei un pugnetto di parole diverse. E la magia. Forse un suono inaspettato. La gioia in fondo al cuore. Si adagia e scende e scivola. Una cordicella sottile e morbida. Parole leggere come palloncini. Senza direzione. Capaci di sembrare lontane. Come se fossero mai ascoltate. E di volare. Come se per la prima volta si schiudessero alla luce. Piccola bocche a caccia di aria. Dove i graffi sembrano righe. Pieghe in una seta scompigliata. E morbida. Capace di avvolgere. E lasciare scivolare tutto. Senza allontanarsi per sempre. Solo si spostarsi. La giusta misura. E' solo quella del cuore. Poi basta infilare le mani in tasca e accorgerti che non è cambiato nulla. Come dopo la pioggia. Hai solo un cielo più pulito. E neanche più righettine.
Neanche me lo ricordavo più l'azzurro.
Poi nel buio inciampo nelle tue labbra mute.
Al confine con la tua idea.
E mi muovo.
Ridicola come una filastrocca antica.
E come un sasso impregnato di tempo.
Immemore e asciutto.
Nella oscurità lascio oscillare la tua idea come una strofa.
E mi piego nella poesia del tuo battito misterioso.
Per sconfiggere il freddo di una margherita in inverno.
Aeroplani e molliche. E il mondo si copre di briciole. Forse ricordi. Piovono ricordi. O solo sensazioni che grondano di passato. Del segno che il mondo ha lasciato. Pezzi di un pane immenso. La verità è nella scorza. Non nella mollica. Di un cuore smangiato da un battito avido ed impertinente. Non tace. E contina a contare. E a spezzettare numeri. Sinusoidi che affondono. In picchiata libera. Come viti. Per unire. Ma prima sfondare. Mentre tutto si perde. E non ho pezzi da ricomporre. Solo frammenti. Schegge sperdute. Non è dolore.
Sento il cuore che si lecca le vene.
Sta per mordere.
Per recidere.
E navigo come un'alga. E segno su un polso gli appunti dell'anima. Le sue confidenze. Una croce e tre stelline. E una macchietta. Non è sangue. E' cioccolata. La mappa del mio delirio. Carne e cioccolata. Così colo.
Sento che il cuore lecca le vene.
Tutte quelle che può.
Nelle scie sente di esistere.
Esistere più che può.
Più che si può.
Aeroplani e sogni tra le molliche. Basta un soffio di vento. E i ricordi odorano di pane sfornato. La verità è oltre. Oltre la corteccia e oltre la mollica. Come una pietra preziosa. Nascosta. E io sono la tana golosa. E il cuore è integro. Ha smesso di cercare parole e numeri. E sta cantando. Puoi sentirne la voce. Sembra paura. Ma è un frammento che ha smesso di sentirsi tale. E si è levigato. E ha tessuto le sue vene come un'arpa giuliva. Ascoltalo ma non credergli.
E il mio cuore naviga.
Ha onde fatte di ripensamenti.
E resiste.
Perchè sta battendo.
E battendo il tempo.
Nella sua rete di cioccolata.
E se ne frega del resto.
Oggi c'era il sole.
Non so dare agli altri nulla di concreto. Nè a chi mi ha fatto male. Nè a chi mi ha voluto un pò bene. E tutto nell'astrazione sembra sconfinato. Diverso. Anche le parole che non uso più. Come se qualcuno le avesse marchiate di passato. E mi spaventa la loro erronea ed errabonda appartenenza.
E adesso sono cenere.
Ci vorrebbe un altro soffio di vento.
Per voltare la pagina.
E averne una candida.
Nuova delizia da sporcare.
Ma prima dovresti cercare le tracce del peccato sulle mie labbra.
Blu.
Come una fiaba.



Trackback: 0 - Scrivi Commento - Commenti: 7
E poi il mare bacia ogni mia paura. E mi stringe le mani. Mi graffia con le conchiglie. E io le scanso. Nessun naufragio. Forse se poi la zattera è fatta dei sogni, resiste. Perchè è più leggera di ogni inquieto mareggiare. Ondeggia e trema. Ma riesce a sconfinare l'abbandono. Credo che sia il momento peggiore. L'istante in cui la nostra vita si biforca e viene investita dal gelo del vuoto. Troppa aria. Raffiche di solitudine. A volte mi soffermo a cercare di sentire le cose. A cogliere l'onda, oltre l'urto. In una riva disseminata di domani. E il mare è là in maestosità modesta. Semplice come la vita. Neanche spaventa. Non sempre. Basta smettere di pensare e lasciarsi andare. Lasciarsi scivolare nella scia del calore dell'aver vissuto. Di qualcuno prima. Come se ci fosse un solco. Del calore già provato. Il mare bacia la terra. A modo suo. A mondo suo. Forse neanche glielo hanno insegnato. La bacia senza permesso. Arriva e prende poco. O forse un poco che è già tanto. E questo non gli impedirà di devastarla. Fino alla bufera. E sarà comunque amore. Fino alla nuova pace. Nell'alternanza tra la quiete e il caos. Strati irregolari che si adagiano al mondo. E forse il segreto è saper trattenere il fiato fino allo strato successivo. All'onda che si infrangerà e dopo liscerà tutto. E il mare è qua. Nella mente. Con il suo odore di lontananza. Nelle orecchie la sua voce lenta. Di specchio tremulo delle stelle. Di cielo inverso. Di campo azzurro di acqua e luce. Bacia e morde. Quel tanto che sa far male. Per poter contemplare subito dopo lo stupefacente impatto con la tenerezza. Prima spiana e poi si adagia. Ma non cancella mai completamente i solchi.
Ho cercato di spiegarti.
Io non amo da farfalla.
Amo da lupo.
Amo scalza.
Con i miei morsi nudi e lenti.
Mastico conchiglie.
Non so volare.
E mi riempio il cuore di terra.
In attesa dell'onda.
Per ritornare fango.
Precipito in corridoi verticali. Avevo dimenticato le stelle. Le avevo spente. Schiacciate contro i vetri. E mi cospargevo le mani della loro cenere. Solo per lasciare la loro scia. Per disegnare nel vento. E scrivere una storia. Di polvere di stelle. Sarebbe bastato un soffio. Avevo sbriciolato il cielo. Ed i suoi ganci. Arpioni per la dignità. Il fodero della mia anima. Perderla era stato facile. Come sfilarsi la maglia. E morire di freddo. O solo indossare uno strato di gelo. Scivolo e mi ascolto. Tunnel di scontrosa assenza. Ci vediamo con gli occhi degli altri. La vocina ripete che è troppo. Tutto è davvero troppo. Nell'aria che fa da controlimite. Forse da vuoto comodo in cui adagiarsi. Ed aspettare. Se ci fosse il pieno farebbe male. E a volte cercare di non accettare è il dolore più grande. E si soffre nel tentativo di ripararsi dal dolore. Sotto l'ombrello del giudizio. Ma il mondo è pieno di frutti e di amore. Deve essere così. E' un campo che freme. Diffido di esaltazioni della gioia. Io quando la sento la raccolgo e la stringo forte. La tengo tra le mani. Come una rosa. La gioia è il fiore invisibile che dal cuore si apre nelle mani. Si schiude e il suo profumo ha mille dita. Carezze invisibili. Un ventaglio di petali e di anima. Sotto il velo del pudore. E il resto sono tentativi. Ventagli che ancheggiano. E si ritraggono. Diventeranno fiori. O solo la loro ombra.
Ho insistito.
Ho urlato tante volte il mio nome.
Non ne avevo.
Urlavo il nulla.
Rimbalzava come una pallina disperata.
Adesso ridisegno le stelle una per una.
Capelli del cielo.
C'è il mio sangue nelle mie parole.
La scia liquida della mente.
Roba da macelleria.
E il sapore dolciastro della tristezza.
Non è giusto.
Ogni volta che ci neghiamo la gioia sgozziamo un fiore.
Era il trofeo. La mia follia. Per asciugare il mare. Il cappotto di parole mai dette. E assaporare gli schizzi del mio delirio. I liquami dei miei fiori di sangue. Dei soliloqui urlati alla luna. Volevi spingerti là. Proprio là. Sotto la coppa vuota della luna. E lasciarmi sfumare. Come buio alla luce. Quando ognuno sente tutta la potente voce del sole. E si sente redento. Baciato dalla bocca giusta. E là sul bordo del mondo andare via. Con le mie ciglie nella tasca. E il rimesso sul cuore. E io mentre la luna si spegnava avvertivo tutto il peso immane. Del mio essere strana. E mi intrecciavo al castagno. E mi facevo ramo di frutti piumati e cinguettanti. Era facile giudicare la follia. E scapparne. E sembrarne migliore. Troppo facile. Andare via e graffiare il muro per cancellare il passaggio. Me lo ha detto la luna. Mi ha chiesto di continuare ad essere. Quello che capita. E di non avere forma. E di non avere paura a lasciare follia sulle foglie. Sacchetti di follia pura. Come rugiada al mattino. O come coltello nell'aria. Per scavare forme. Anche se avrebbe allontanato gli altri. Gli avrebbe donato il dono sublime e grandioso della saggezza e la bellezza del loro pontificare. Parole su parole. E aloni di disprezzo. E' facile senza cuore sembrare migliori.
E io sono e resto quello che capito.
Rigurgito di luna pazza.
Bottone stridente.
Ma me stessa.
Senza forma.
Come la verità.
Condannata alla peggiore solitudine.
Quella di sfiorare gli altri.
C'era una luna amara in cielo ieri.
Esattamente quello che detesto, l'amarezza.
Il velo di un lutto inesistente.
Non è facile trasferire il proprio mondo fuori. Come se vivere sia donare. Gestanti di sensazioni erranti. Moods. Occasioni del cuore. Spigolo fragile. Scivola e si sdraia come un prato. In attesa. Tremolante come la fiamma di una candela. Incastri dell'anima. Si incuneano nel mondo. Nelle cose. Le dipingono. E ti ritrovi, quasi per caso, in un'aurora assordante. Bella da imbarazzare. Senza limiti. Perchè il limite è nei propri occhi. E tu non stai guardando. Solo sentendo. Senza conoscere il punto esatto in cui il sole inizia a baciarle il cielo. E ad allontanare la notte. Lo fa da sempre.
Ma oggi quell'istante è tuo.
Inconsapevole è il nostro continuo essere teatri di albe e tramonti.
Piccole case del sole.
Tele avide di nuovi colori.
Dentro di noi ci sono infiniti mondi.
Mille soli e mille lune.
Esplodono e splendono in una inconsapevolezza che si chiama respiro.
E' strano pur essendo normale.
Ed in realtà era normale anche ieri.
Ma non lo sapevi.
Ed è bellissimo.
Senza un motivo.
Non hai sentito nè l'ago nè il filo.
Nè il lembi della ferita che si avvicinavano.
Divenivano ancora carne.
Quasi la stessa.
Nella distesa della voglia di gioia.
E quel piccolo fiume scorre sotto.
Sotto due mani che si intrecciano.
E le mie braccia sono vicine vicine.
Per non perdere neanche un istante di questo lieve tepore.
E adesso chiudi gli occhi e ascolta il mare.
Piccolo dio invisibile.
Devo smettere. Ed essere spietata. Intervallo o intermezzo. Spezzo nuvole. Devo concedermi uno strato oscillante di semi incoscienza. Devo smettere di inseguire il senso. E perderlo perchè l'ho cercato troppo. E troppo ancora. E di contenere il tempo. Solo per perderlo. E nelle conchiglie deposte sul mio grembo ritrovo la tua voce. I suoi vortici di foglie in autunno. Zeppe dell'odore della terra. Quella che sfiorano. Dalla quale rubano veli di malinconica resistenza. Devo. Le tue risate. Timide gocce trabordanti di fiume. Le tue carezze. Piume segrete sul cuore. E frammenti lievi ed inesatti di ore. Devo. E parole. Come se le dita urtassero contro l'infinito. Là spingessero e poi fossero costrette a ritrarsi. Sul bordo di una ferita, senza sangue. Senza toccarla mai. E così dilatandola. Rendendola lunga come una scia. Devo. Smettere. E' così che si disegnano pensieri. Con le dita della mente. Tentacoli del cuore. La gabbia della gioia. La piovra che dentro di noi si adagia e si stiracchia. Le canterei una ninna nanna ora. Smettere. Una di quelle che mi ripetevo da piccina. Una catena di segreti e di invenzioni e di gelatine alla fragole. Nessuna bestia resiste alla dolcezza. Almeno per qualche istante. Poi deve fare male. E io mi sveglio. Devo. Perchè resistere è varcare una soglia invisibile. E le conchiglie sono sul pavimento. Come se il mio letto fosse una zattera. E non ho paura. Basta infilarci le dita dentro. Nei piccoli abissi che nascondono. Fluttano le tue parole. E nessuna piovra può resistere. Nè naufragare. Neanche il mio cuore. Perchè alla fine è il corpo che subisce languida e tenera commozione. Nella sua memoria interrotta. Senza fiducia. Si dimenica di sè. Per diventare. Forma. E senza credere. Al tempo. E alle sue volontà. Mille e una. Sì. Devo smettere. Lo spazio è inabitato. Senza confini. Smettere.
Piccola gioia.
Dea dell'istante.
Plana.
E di bellezza e incostanza imbrattata.
Non nasce dalla conchiglia.
Ma dalla pietra.
E dai graffi del rimpianto.
Specchi per caso.
Ladri di luce.
Dove peccato e promessa si confondono.
E si perdono.
Isolo il vecchio e il poi.
E mi trattengo nell'istante.
Che non si trattiene in me.
Qui e adesso.
Nell'attimo incauto in cui lo stupore un pò freme di sdegno e delusione.
Prima di adattarsi nella vita.
E un pò si trofina.
Al tronco di un albero astratto.
Per dimenticare.
O solo per ritrovare calore.
L'alone del tocco primitivo.
Prima di ritrarsi.
E slargarsi in un sorriso.
Perchè è così che deve andare.
Doveva e deve.
Da un sempre che si sperde tra bolle di sapone livide.
Bolle respirate in prestito.

Piene di silenzi asimmetrici.
Senza rimpastare sensazioni.
Solo estraendole dal vivere.
Dove sono.
Sono sempre state.
In quello stesso sempre.
Ricami di merletti e pizzi sotto la pelle.
Rendono ogni tocco insopportabile.
Fino al punto giusto.
E i sensi sono la mappa.
Per ritrovarle o solo per sperderle.
O solo per poterli vedere.
Dopo l'attimo.
Nella proporzione della coercizione.
Quella del giusto equilibrio.
Dove la disarmonia non ha regole.
Nell'unicità del tocco e della voglia di continuare.
Perdonare prima della vendetta è tagliare le ali ai calabroni.
Accettare il caso come sempre e solo caso.
Come l'orlo liscio di un bicchiere.
Ignorando se è pieno o vuoto.
Perchè non si ha sete.
Ridimensionare e voltarsi e ricominciare.
Non è una regola ma una scelta.
Senza crocevia.
Perchè l'anima non ha incrocio.
E' una linea.
E' una retta che si spinge.
Come una freccia.

La chiamano catarsi.
Io ti chiamo sogno morbido.
Come una sciarpa che copre.
Riscalda e tocca piano.
In punta di dita.
Morbido come il profumo della vita.
E dell'aria.
La chiamo adesso.
Il pallido tentativo di usurpare il sempre.
E lo sussurro.
Sul tuo collo c'è il mio respiro invisibile.
Di una nuvoletta perversa.
E ci muoviamo dentro immense bolle.
Dentro sfere in cui l'equilibrio è fragile e tremulo.
In contromovimenti che ci vengono spinti addosso.
Ed ogni nostro spostamento ha ripercussioni e somme e sottrazioni.
Nell'asimmetria del respiro.
E ci spingiamo i cuori contro.
Ad urtarci la pelle fino in fondo.
Lasciandoci lividi e carezze e tagli e baci di anima.
E l'attimo è così fragile.
Ma così denso.
Non possiamo permetterci di restare immobili.
Segreto arancio.
Succo di vita e di diversità sommessa.
Forse era sole.
E poi non solo luce.
Ma anche fuoco.
In corde.
Ed intrecci inspiegabili.
Delizie dietro spigoli.
Come caramelle dagli sconosciuti.
Il bello è scartarle.
E non lasciarle spaccare sotto i denti.
Torna il colore.
E il palpito del guizzo.
Il battito nascosto nei polsi.
Oltre il disprezzo.
Inspiegabile cumulo di errori.
E dolci stelle pazze. Immensamente pazze. Come se la pazzia fosse la misura del non averla. Sotto il soffitto ad inseguire graffi. Forse percorsi. O solo sporadici pensieri. E nei muri sentire la vita. Quella che ci ha preceduto e quella a venire. Mai l'adesso. Perchè i muri sono i testimoni pregni dell'oltre.
Timidi esplodono.
E in ombre si genuflettono.
Prima del giorno.
Trepidamente atteso.
Come se fosse essenziale separare la nostra memoria.
Da quella degli altri.
E spogliarsi dai sogni indotti.
Nudi sotto la luna.
Ed essere dove vogliamo.
Nella culla della memoria.
E' quella la verità.
Incontrarsi è solo riconoscersi.
Annusandoci l'ombra.
***

Trackback: 0 - Scrivi Commento - Commenti: 21
Non c'è nulla di più sporco della ingiustizia. E non ha neanche senso di fronte all'orrore, quello che mette in forse la nostra precaria umanità. Animali con un'anima spersa. E a volte sbuca come un gioco di prestigio. E c'è sempre il trucco. Ecco quello che sembriamo. Animali senza l'inconsapevolezza. Questi sono giorni in cui morte e dolore nella bella Italia si sono accavallati. Sommati e sminuzzati. Dove tutto deve essere di tutti. Senza rispetto. E tutti chiamano per nome una povera bimba che è morta e questo fa schifo. Uno schifo immenso a cui non sappiamo dare un nome. E un nome non c'è. E noi continuiamo a chiamarla per nome. Perchè la sentiamo una di noi. Una figlia o una sorellina o una amica. O solo una nipotina ideale. Ma poi tutto non deve essere di tutti. Ma forse ieri, doveva. Ma oggi un limite ci deve essere. E dove cazzo è il limite che ormai lo abbiamo perso. E lo stivale ed i suoi pezzetti non sanno neanche stare insieme. E' che ci manca lo sdegno ormai. E se ci fosse, quello dovrebbero essere di tutti. Come un seme da mettere in cuore ai nostri figli. E ci commuoviamo a tratti. Per rigirarci e continuare. Nell'Italia dove tutto sembra normale e se anche non ci sembra lo diventa. Viene lisciato dalla parvenza del "è successo". E ci raccontano le favole. Favole senza lieto fine. Anzi, senza nessuna fine e nessun fine.
[Oggi è il giorno in cui persino l'anima della regina delle lagne ha sussultato.
Capita.]
Ed è per questo che spesso devo prendere le distanze. Dai miei pensieri. Corde invisibili. In una giungla fragile. Dove la realtà non c'è. Perchè nel frattempo io sto vivendo. E riempio le giornate. Le riempio di azioni. Serie di atti in cui non manca la consapevolezza. Perchè sono anche là. E là respiro. E a volte là desidero e sogno. E sogno concreto. Non come nella giungla. Dove sogno sensazioni. E di continuare a provarle. Ma hanno un pensare diverso a riempirle. E sa assediare. E circumnaviga come un galeone invisibile. L'isola fantasma. Di un tesoro sperso. O solo da comprendere. E quando i pensieri avanzano l'unica sensazione è l'estraneità. Fuori dall'autunno che stria l'erba. Perchè fuori l'autunno avanza e si espande. Mentre dentro ho estati che fanno l'amore con inverni gelidi. E diventano caldo o gelo. E di continuo si inseguono. E' così che è ripreso a tremare. E il prato spento nasconde il mio gatto ed il suo manto. E la sua selvatica indipendenza. Miagola a scandire il tempo. Piccolo metronomo di pelo e fiato. Con le sue fusa selvagge ma dolci. Se trovi un pezzo lo stesso deve fare parte di un tutto. Di una interezza che da qualche parte esiste. Di un gancio che unirà. Ma bucherà e farà male. Perchè deve unire. La incoscienza alla coscienza e al suo rotolarsi. E muoversi di istinto. E di istinto fermarsi. Quando è il momento giusto. Non abbiamo nulla da insegnare. Solo da imparare a vivere. Senza finire mai. E ritornare sempre.
Perchè non si scappa da se stessi.
Soli di cuore costretti a sorgere ogni giorno.
Io posso perdonare tutto.
Ma non tutti.
Ogni volta che ti penso mi sporco di terra.
Come una donna radice.
Un tempo, fiore.
Con la sua scia di petali.
Nel vento.
Il tempio della idea. L'urna rorida. Quasi una culla. O il grembo dell'amore dannato. La pioggia e l'albero. E l'albero nella pioggia non resiste. Si apre all'acqua. Come un ombrello al contrario. Come una mano di foglie. E intanto il mondo sotto è asciutto. E il non senso nel suo campo. Sterminato. Senza ombra nè pioggia. Non essere compresa. Macchiata dal silenzio. La voglia di scivolarsi in fondo. Fino in fondo. Detesto la artificiosa semplicità. La peggiore finzione. La pioggia finta che non tocca. Non bagna nè disseta la terra. La idea è nel tempio. Perchè sentirsi è attraversarsi senza dita. Come fili di luce. Senza mentire alla pelle. E alla sua voce. Il campo del non senso si agita. Ha sete. Vorrebbe che l'albero si spostasse. Per poter bere. La mia voglia di silenzio ha il tuo nome. E chiede al vento di sorpassarla. Per fargli da scia. Ma quello che sentiamo chiede al mondo un piccolo palcoscenico per lasciarsi capire. Perchè se fosse tutto incastrato nelle ossa che senso avrebbe? Solo perchè ha il destino d'ali. E il cuore tra le ginocchia?

Per questo ti sfioro le dita.
E me le spingo addosso.
E contro.
Perchè la mia pelle possa sussurrarti quello che la mia voce non sa.
Nè sa più dire.
E il vento è ancora indietro.
E non mi ha ancora sorpassata.
Ho una scia di vento.
Come la coda di una sirena invisibile.
E il limite non è il muro.
Nè l'errore.
Solo l'impudico urto del limite.
Ed il reiterarsi dei giorni.
Come se fossero parole.
Avvicinati e mischia la tua pelle con la mia.
Come se fosse ombra.
Ho tutto questo cielo da dividere.
C'è ancora il graffio del volo di un uccello.
E l'odore del suo canto.

Trackback: 0 - Scrivi Commento - Commenti: 51
E poi ho paura a farlo vedere il cuore. Quello vero. Quello che non trema più sotto questa sporca solitudine. E a volte emerge. Dalla sinapsi spenta delle mie parole monche. Monosillabi. Spesso negazioni. E il cuore, come l'amore, richiede pudore. E ti giuro sto tremando ancora mentre scrivo. Quello che sai. Ma che non ti dico. E mi lascio andare e nei tuoi occhi trovo tutti i segni del tempo e te in loro. E io dentro di te e nelle tue braccia e nell'incavo della tua spalla. A scavalcare le paure. Dune di realtà e di pane. E mi ritrovo immensamente piccola e di contro con troppo tempo e peso addosso. E forse si chiama vita o paura. E i baci impiccati e gli abbracci che non ho più saputo chiedere. Come se il rancore avesse avvolto il cuore. Quello che adesso trema e ha paura. Come se fosse troppo tardi. E vorrebbe, e, maledettamente, vuole, trattenerlo questo istante. L'attimo onnipotente. Come l'amore. E poi nessuno capirebbe. Nè sa. E la paura e i rimproveri urlati. E il maledetto orgoglio e le chiavi di casa. La toppa troppo piena. Per spiare e per aprirsi. E le lacrime sul legno. Righe di una solitudine che ha modellato una donna. "Il mio pulcino" dicevi. E io ti odiavo. Di un odio labile come velina. Perchè ero donna. E della tua carne sopportavo l'impronta. Troppo profonda. E non sapevo che conservarla era amore. Non lo sapevo ancora. Ha resistito. E oggi nei tuoi occhi annego e cerco le pupille per intrecciarle. Ancora. Nodo di amore. E sono un pezzo tuo. Più che di ogni altro uomo.
Forse accadrebbe. Potrebbe. E la condizione è l'aria spostata dal vento. In attesa della fine che le dia una forma. Perchè nel vento siamo creta. E riusciamo persino a dimenticarci il sangue. Ed è così che ci sembra di essere unicità. Perchè l'appartenenza è la fame che ci sbrana. E il pendolo baratta fatti con i pensieri. Ecco perchè ci riempie di ipnotica assenza. Come se fosse un vento sintentico. Ma tutto torna e niente si disperde. Il mondo è avido e reclama sempre. E poi presenta il conto. E nell'avvicendarsi perdiamo sempre un pezzo. E forse è questo che ci rende più leggeri. O solo diversi. In quella perversione della realtà che si chiama cambiamento. E ci fa sentire migliori solo perchè abbiamo regalato pezzi. Gli stessi che poi continueremo a cercare.
Ci sono ascensori che si spalancano sull'ignoto.
E tasti che ti lasciano scivolare su mondi sconosciuti.
Sliding doors.
Il tempo è una alchimia che ti modella la vita. E il nostro respiro si traduce in numeri. Se cambio le vocali non c'è solo un gioco di lettere. Nella convenzione che chiamiamo parole. Le parole sono un artificio. La mediazione tra la mente e la carne. Conta quello che c'è dentro. Nel punto in cui il pensiero deve impattarsi. In cui sgorga. E in cui confluisce. Perchè io penso liquido. Come se avessi rugiada in prestito. Ecco vorrei dirtelo. Da tanto tempo.
Se mi bendi quello che vedo non cambia.

Io ti racconterei il mio mondo e tu vedresti con gli occhi che ti ho rubato.
Finalmente.
Forse potresti, ed io sono la condizione, afferrare il mondo con i sensi.
Sono una gatta con le unghie spente ma sincere.
Bagnate da una memoria inversa.
Ma di fronte alla mia ciotola non mento.
E non è cambiato nulla. Ma è come se fosse cambiato tutto. Perchè all'improvviso tutto è diverso. E non te ne accorgi, lo sai. Senti il cambiamento. Perchè è così per tutti. Afferrare il nastro e lasciarsi scivolare la mano. Senza sentire il taglio. Fieri della impronta che lasciamo. Della piccola linea di sangue che macchia. Perchè una macchia è meglio del candido nulla. Una piccola scia che attesta l'esserci stati. Un segno della esistenza. E dell'esistersi. Mentre stiamo facendoci battere il cuore in un mondo pieno di infiniti battiti. Forse echi. E solo diversità apparenti. Ho pensieri a spicchi. Come una arancia timida. Dai mille suoni segreti e liquidi. Forse succhi. E nel mio occhio destro ho il grido di mille ulivi nella notte e il loro ondeggiare. Foglie di argento che si protendono verso l'alba. Intanto ti raccolgo in un cesto. Insieme all'odore dell'autunno e delle castagne. E' impregnato di mosto questo cesto. Anche se è nascosto dalle bucce. Sincere come le arance che custodivano. Perchè è il pensiero che ci rende meno soli. E troppo poco vicini. Distribuisce assenza e la colma di speranza. E attese. Nelle tasche della mia giacca. E nel mio spacco. Dove ti infilo. E faccio incetta di attesa. E ogni tanto ti ritrovo. Non c'è centimentro che fenda questa assenza. Di una dolcezza che non è di miele. Ma esattamente dolce. Tanto da non sembrarlo. E limitandosi ad essere vera. Come la fiera come la voce degli ulivi che mi lacrima. Dall'occhio sinistro. Esattamente in direzione del cuore. Piango asimmetrico ed obliquo. Così tutto scivola via. E oltre la realtà mi srotolo in parole. E a volte alzo la mano. Come per salutarti. Così per caso. Sì ogni volta che una donna ti saluterà, come per caso, pensami. Pensami, perchè lei mi sta portando da te. Il mio piccolo soffio di vento. Tra donne succede. Di rado. E con la parsimonia del passato e della lealtà. Dell'odore della terra. Di essere solidali e sorelle invisibili. Di sapersi comprendere. E di sapersi prestare il cuore. Nel silenzio. Ci si vuole bene in modo invisibile. Come è invisibile l'amore. Ma pochi lo sanno. E sanno resistere al buio.
Non basta aria fresca per sentirsi liberi.
Nè il volerlo dire al mondo.
Perchè liberi non si è mai.
E questa notte sta scivolando via.
E tra sbagli e sbadigli mi conto le impronte.
Io sono una cartolina naif.
Della città e le sue strade che ti accolgono e ti sperdono.
E ti ricoprono di polvere.
E della campagna che tu spogli tra alberi e vento.
Solo perchè non resisti alla terra.E quando questa notte sta per finire chiamo a raccolta le stelle.Tra le mie lenzuola calde.
Perchè io non conto pecore, ma stelle.
Con l'unica paura che gli occhi si richiudano al giorno.
Senza esserci guardati davvero.
No. Non leggermi. Non devi più. Non leggermi perchè è così che potrai comprendere. Forse comprendermi. Nella distanza. Quella con cui riempio lo spazio tra me e gli altri. Dove il silenzio è fatto di parole morbide. Parole e virgole di burro. Per scivolare tra le pieghe del silenzio. Tu non leggere le mie parole. Sembrano bolle di sapone. Ma sono piccoli squarci dentro il tulle della mia gonna. Buchi neri dentro la mia anima. Se ci infili il dito toccherai il prato in cui sogno di dormire. E poi dormire. Ed al risveglio non ricordare di aver dormito.
E afferro i lembi della notte e li scuoto.
Lo faccio spesso.
Anche di giorno.
Come se la tempesta dei miei sogni divenisse onda.
Fino a te.
Tanto non sentire nulla.
E poi di torbida dolcezza mi volto.
E sento un arcobaleno increscioso.
E colori che reclamano lo spazio.
Come se mi giacesse un frammento sperso di stella.
Dentro.
Una stella di carne e sangue.
E dentro, proprio dentro, pretendesse il cielo.
Mentre è tutto buio.
E con le sue pretese mi spingesse oltre.
Solo per spingersi fuori.
E oltre di me.
E la luce squarciasse il buio.
Sono il suo fodero.
Di una stella e dei suoi sogni.
Perchè una stella sogna di splendere nel cielo.
E se non lo trova lo inventa.
Laddove c'è una pianura inversa.
E le radici assediano la luna.
E sento il liquido morso della solitudine.
La voglia di essere compresa.
Per questo non devi leggermi.
Ed è così che ci si dimentica.
Tra strati e solchi.
Solo per sperdersi le tracce.
In deserti artificiali.
C'è una oscenità che è tutta coperta.
Ma senti freddo lo stesso.