venerdì 13 luglio 2012

Ho sostituito la paura con la noia. E un pò con l'indifferenza. E un piccolo sasso spacca la superficie immensa e liscia dell'acqua. A ridosso del vento. Nessuna increspatura, prima di spalancarsi in una voragine liquida ed accogliere il sasso. Prima di ingoiarlo con la sua bocca circolare. Qualche schizzo e poi concentriche conversioni. Profondità, in cambio onde. Adesso ho un sacro rispetto per la realtà. Non mi limito al pane ed al suo odore. Ma riempio la mia realtà di quella meraviglia che riteniamo scontata. E scontata non è. E quelle rose urlano un'assenza. La mia dai miei sogni. Le loro corolle grondano una bellezza che vorrei accarezzare ma il tocco resterebbe irreale. Perchè in quei momenti la noia si dilegua, come nebbia. E la realtà si riduce a distacco. Al confine di me c'è solo aria. E io dove sono? La notte mi accarezza la schiena calda ed è meravigliosa la lentezza del perrdersi e del diluirsi nel sonno. E sognare di ritirare il sasso. E di lisciare quella superficie increspata e raccogliere i suoi cerchi, uno per uno. E ritornare intonsa e madida di ingenuità, sciocca ma bellissima.  Allora ero spaventosamente sincera, ma stupida. Ero bella e non lo sapevo. Ero sasso tra i sassi, a toccarsi la pelle rotonda, e con il cuore dentro. Al sicuro. Chiedevo solo di spaccarmelo. E ti imploravo. Adesso non sono sasso, sono carta. E tra la pelle e il cuore la distanza non esiste.  E tutta questa maledetta  malinconia che riservo alle parole, è una seconda pelle. Carta su carta. Come se l'anima fosse a strati. Uno più sottile dell'altro,
Adesso la realtà ho lo sguardo dolce e malandrino della mia gattina in attesa dei croccantini. E del suo mercanteggiare che si atteggia in miagolii e fusa. Del vento caldo e dell'odore di caffè. Della musica alla telvisione. E delle mie dita sui tasti, prima del click.
E' più facile di quello che può sembrare. Lasciarsi sfuggire una parola dietro l'altra.  Come ciliegie. Fino a riempirti la bocca di polpa. Solo per sputare noccioli. E fino a riempire il rigo. Uno e poi l'altro. Come note di un pentagramma. Le parole descrivono, le parole raccontano,  ma non dicono e le cose restano altro e altre, nonostante le parole. E gli altri riescono a giudicarti più facilmente per le tue parole, piuttosto che per quello che davvero sei. Perchè la comprensione è una forma suprema di superbia. Perchè non arriviamo mai davvero a sapere come sono gli altri. Di quale sostanza sono permeati i loro sogni. Le loro paure. I loro reali desideri. La loro scala di valori. Possiamo spingersi alla intuizione più sfrenata. Possiamo cimentarci nella fantasia più densa, per individuarne i gusti e le ossessioni. E dagli la forma di cui noi, solo noi, abbiamo bisogno. E magari non è la loro. Un modo di scavare per compensarci. Ma resta sempre quello che non comprenderemo e che irreversibilmente verrà marchiato dalla bolla del giudizio. La via più facile.  Perchè alla fine ognuno si proclama rispettoso, ognuno si riempie la bocca, fino a credere che la stia perfino masticando, della parola rispetto. Per poi risputarla, un istante dopo. Angolo, dopo angolo. Come una gomma. Dopo aver fatto palloncini nell'aria. Come se non fossimo tutti alla ricerca di un pò di fiducia. E' più semplice lasciare gli altri ardere come dei di cartone e soffiare sulle ceneri che astenersi e rispettare. Perchè il mondo è assolutamente bello, proprio perchè immensamente diverso. E i nostri parametri sono solo uno degli occhi del mondo. Solo del nostro.
La verità è nel guardare gli altri, dimenticandoci di noi.
Della goia, del dolore, del male di cui siamo capaci e di quello sofferto.
Sentirsi è vivere senza pelle.
Senza nomi.
Senza regole.
Apro gli occhi alla notte, per esistere a modo mio.
E io so che l'ordine esatto delle cose non esiste.
Mi fodero il cuore di rumorosa solitudine. Quante volte nella folla ci ha urlato, dalle viscere, la tristezza più molle? E ha sbottato come un piccolo fiume caldo e denso. Appiccicosa ed umida come gelato colato nella calura. Quando hai paura di toccare il mondo perchè ti senti sporca e non vuoi lasciare più tracce. L'eco degli grilli fa da gabbia alle mie tempie. E mi racchiudo in un sospiro, profondo e torbido, come un pozzo. Ho amato disperatamente, con tutti gli aloni della paura e dell'abbandono. Con tutti i riflessi di uno specchio malato. E stanotte avevo sopra di me, solo un pezzo di cielo. Sembrava che il cielo mi sovrastasse, con i suoi aghi pungenti. E la scia del mio amore, amaro e maldestrato, assonante ed allitterato, erano memoria e vento. Come quando inciampi in grumi di assenza e il passato ti bussa alla gola. Sotto forma di sorpresa e di errore e di timore. E la bimba interrotta si avvinghia alle tue vene, come corde, fino a scivolarti nella pancia, e come se ne fossi la sua artefice e madre e matrigna. E le rubassi il dolore e i ricordi. Nessuna maieutica fu mai più straziante. Dire addio ai miei polsi e alle mie labbra. E sapere che tu ci hai respirato sopra, ci hai sorriso contro, e che sopra ci è scivolato il mio amore, come un serpente. E un bivio è proprio questo, il divaricarsi dell'anima. Il sentirla dimenarsi, mentre si resta immobili.  Lo sbocconcellarla indomita per sottrarla ai morsi del destino e di una stella che sfugge e che corre a perdifiato. Fino ad offuscare con il suo fiato i miei occhi. E poi piangere ingrata di quel luccichio. E per incanto, per caso, e giammai per diletto, come donne, come sorelle, ci ritroviamo ad avvicinarci il cuore, per prestarci i battiti, gli occhi e i pensieri. Forse solo per accorgerci che la notte si è divisa in coriandoli, e che il sole torna sempre. Ne abbiamo davvero un disperato e spietato bisogno.
Noi siamo in nessun posto più che nella nostra verità.
Quella che non ha timore e se ne frega del resto.
E persino di noi.
Disegno con conchiglie sulla spiaggia, in attesa dell'onda.
La memoria delle pietre ti stupisce. Gravida e silente, nello stesso tempo. Madre e figlia, come capita. Pancia ed utero che si abbracciano. Perchè a volte il tempo è solo companatico. E quella memoria si precipita nei tuoi sensi come un morso. Affonda e fa male, o forse un sollievo sbagliato. Ti sorprende come le strade e gli angoli di un paese siano impregnati di quella sostanza indefinita e possano masticarla, insieme a tutta la vita che si è avvicendata ed accavallata su quelle pietre. Come se fossero i polpastrelli del mondo, la sua pancia. A ridosso della tua carne, fino a lasciarla strofinare contro l'anima. E per caso, ritrovi i tuoi passi durante un pomeriggio stinto e caldo. Le prima passeggiate sul lungomare. Il quinto bacio. Le fughe dal catechismo. La recita nel mese di maggio. La liquirizia e figurine di raccolte mai terminate, dopo la messa della domenica. Sembrava ieri, quasi adesso. E il mondo è altrove. Le case ad un piano, tufo a ridosso dei palazzi. Pietre che c'erano anche allora, loro ed il mare e la salsedine sulla pelle. E i nostri "...prima qua c'era..." intervallati dagli increduli "ricordi?", prima di diluirsi definitivamente nella nostalgia. E' strano come quella essenza, quasi magica, ti rovisti nella mente. Come un amo. E ti faccia ricordare sempre le cose meno rilevanti. Graffiandoti le sensazioni, come carta vetrata. Memoria e ricordi quasi si sovrappongono.Sento il mio battito, che mi invade, fino alle vene.
Annegai il senso di colpa nel piacere.
Capitò.
E mi osservai.
E mi piacque perdermi.
E ancora di più sentirmi perduta.
Tu mi grattasti addosso il desiderio.
Come ghiaccio.
E il mio calore riusciva a rubare il distacco.
Ad accavallarsi all'anima.
Quasi come ci rubavamo le pupille.
Ciglia contro ciglia.
E nelle promesse umide dentro l'alito ingordo.
Adesso la notte ha quel suo odore asciutto che sa di sincerità.
E di intimità.
E ho smesso di avvicinarmi ad un punto, sempre lo stesso,
per girarci intorno.
Come filo intorno ad un rocchetto.
Adesso osservo ciò che mi piace da lontano.
Come una pietra tra le pietre.
E fossi muro, soffitto, finestra.
Parlarmi non è stato mai più semplice.
Difficile è ascoltarmi.
Ed ascoltare.
In realtà siamo solo occasioni.
Siamo caso impastato di vita.
E la mia metà, o solo la mia meta, come una foglia si stacca dall'albero e geme. E si rispecchia dentro la superficie di un lago che altro non chiede. Di poggiarci e di mostrare. La poesia della vita è fatta di sangue e di aliti. Di una chimica complessa che si mostra semplice, elementare. Di respiri, di esplosioni e di umidi tentativi. Siamo bagnati, oltre ogni più saggia previsione, oltre ogni volontà. Siamo animati da un cuore umido che gronda possibilità. Fino al punto. Dopo implodiamo. E ci asciughiamo. Biologicamente corretti più di tutto il resto. Sono questi mesti pensieri nel vento, nel vento caldo, che dilata e sposta. E chiedono di andare oltre. E ci ritroviamo altrove. Con la memoria del corpo, ed i suoi segni. Ecco, anche i tuoi su di me. Silenziosi e reticenti. Mentre io ti chiedevo di marchiarmi, di segnarmi, di tagliarmi, di prenderti un pezzo, un'unghia, una ciglia, un frammento di pelle, di me. Mi piegavo sul tuo silenzio, come un ventaglio, che si genuflette all'aria. E sapevo, dannatamente e disperatamente sapevo; già fottutamente sapevo, come direbbe la mia Lu, la mia adorata Lu, la mia mille volte Lu, a cui chiedevo di stringermi forte per impedire al sangue di scorrere così veloce. Volevo un lascio emostatico, per separarmi pezzi. Ma speravo che la verità della mente fosse inesatta, perchè mi sono sempre spinta alla più stolta approssimazione, quando si tratta del cuore. Quale grande errore lasciarsi toccare la pelle. Resta un alone, una traccia che noi ci ostiniamo a chiamare errore. Ed è strano come nel dolore la mente si divarichi, come una puttana, che sta per essere fottuta, e sfugga alla realtà. Si racconti delle storie. Riesca solo a pensare al pane ed al suo odore. Lontano in una vita lontana in un posto lontano. Perchè la lontananza è un artificio del corpo che la mente non intende. La mente ci rende infinitamente possibili e possibilità. E non comprende il corpo. Spavalda non se ne cura, non lo sente, non lo interroga. Ecco, io adesso, raccolgo i tuoi brividi e le tue lacrime ed i tuoi sospiri ed i tuoi fremiti, mio santissimo corpo. Io ti ascolto e ti afferro e ti osservo. Quanta donna c'è in me, e io non l'ho ascoltata. Non sono fiore, non sono cagna, non sono stella, non sono cosa. Sono donna. E mi basta, cazzo. Deve.
Per la mia piccola B.
Non riusciva a non guardarli, proprio perchè sapeva. Sapeva in maniera imprecisa e diffusa, per quello che le era stato detto e quello che non le era stato detto. Per quello che aveva raccolto tra le ciglia e nel respiro e negli sguardi liquidi. Sapeva e sapeva più degli altri, e nei dettagli più intimi. Perchè lei era fatta di tempo e di una pelle che si era fatta più spessa. Non molto, solo un pò di più. E non bastava neanche per sopportare tutto. Sapeva forse ancora di più della fanciulla cerbiatto, della piccola donna farfalla, ancora di più della creatura che le si era stretta addosso, a caccia di comprensione, la temibile pelle della impotenza. Non le aveva mai chiesto di aiutarla, ma le sue braccia avevano implorato forza al mondo. La giovinezza ha in sè la forza sconvolgente della purezza, dell'imprinting, del devastante, dell'insostenibile. Un'onda ed il suo impatto. Aveva raccolto le lacrime di quella fanciulla, lacrime sincere del suo giovane e delicato ed inesperto cuore. Aveva stretto a sè quel piccolo cuoricino. Era capitato in un'epoca sbagliato. Un grande amore sbagliato e senza futuro. Con una spinta immensa, costretta ad arrestarsi e ad annodarsi su se stessa. Praticamente a ridursi, a contrarsi, a spezzarsi, ad accavallarsi in un nodo di cuore. E le consigliava e spiegava, ma le era capitato di vederli. Di sentire la tensione e l'elettricità del desiderio e della passione e la furia del non potersi avere. E si era sentita impotente. A volte, sentiva la menzogna di quelle confidenze che rinnegavano l'amore. E i racconti di nuovi amori promessi che colavano a picco, come se fossero espedienti, per continuare a vivere. Perchè la piccola donna aveva urlato il suo amore, lo aveva difeso, lo aveva scaraventato al cielo. E mentre continuava a sfidare il sole, lo aveva visto sciogliersi e frantumarsi in codiandoli.Ed era rimasta sola a mordere il manto stellato di quel mostro crudele. Sola con il suo sogno che le tornava addosso.  Come un mare al contrario.
Piccola B. non permettere che il cinismo e la delusione macchino i tuoi petali.
E brucino le foglie del piccolo albero che hai sentito crescerti dentro e spingere
e tentare di toccare il cielo.
Gli stomi sembreranno ingombri, capaci di esplodere.
Ma il tempo pulisce.
L'amore è quello.
Farsi albero.
E tenere quel respiro che ti ha percorsa e che ti ha tirato come una corda.
E' bellissimo pensare che ciò che è stato
sarà per sempre.
E rendere immemore ed infinito un attimo.
Capita a tutti.
Anche a chi lo nega.
E se alitassi su quel vetro per sembrare meno noiosa?
La mia solitudine mi rende un pochino saggia,
e mi aiuta a voltarmi.
Posso perdonare tutto.
Ho perdonato molto.
Ma non la cattiveria.
E se alitassi niente cambierebbe.
Cerco sempre di scacchiare l'amarezza, rende orrendi.
Quasi peggio dell'eccessiva dolcezza.
Oggi ho compreso.
Non ho nulla da dare, da dire, da raccontare.
Potrei pensare ad un artificio, ad oscillare sulle caviglie.
Potrei colorarmi le labbra di vermiglia seducenza.
Ma ho imparato che se non piaci alla gente, così d'impatto,
non accadrà mai.
E adesso ho proprio tutto, la notte, un pò di lucido silenzio.
E un pò di sadica onestà.
Il resto non esiste.
Non sforzatevi a mostrarmelo.
Io vivo di sensi.
Gioco con il vento. E il vento gioca con me. Il vento è vita, preziosa, immensamente preziosa, silenziosa come l'acqua, un liquido comune, il filo dell'umanità. Servono indizi per comprenderlo. Oltre ogni intuizione, fino a lasciarsi scorrere nell'essenziale. Come gocce in un fiume, che non chiede altro che scorrere e di essere bagnato. E quelle tracce hanno bisogno di essere stanate. Per farne impronte, srotolarle in sensazioni e trattenerle, come si fa con le emozioni, le farfalle dell'anima. Io voglio essere attraversata da infinite farfalle. Io ti pensavo e la mente era piena di farfalle colorate e rumorose. Deve essere successo, non posso essermelo inventato. O forse la follia è proprio questo. Perchè la mente è un campo, un terreno immenso, che chiede solo di essere seminato, percorso ed irrigato. "Dimmi una cosa bella". E il tuo silenzio. Io non chiedevo favole, ma pelle, il tappeto del coraggio. "Dimmelo". E mi ridevi addosso. E io mi arrotolavo nella ridicola leggerezza del miei sogni. E sapevo che sarei precipitata. Ma mi ostinavo. Impetuosa come una marea. Ed era così bello riempirsi la mente di nuvole. Io adoro giocare con la mente. Rimpinguarla fino allo sfinimento. Una perversione sottile, dove il dolore ed il piacere sono pericolosamente vicini. Capita a molti, ma confessarlo è davvero difficile. La mia notte ha un tetto fatto di stelle ed il sapore di parole nuove. E di pensieri che mi piace sfogliare, come margherite, nella penombra. Senza più l'odore della estraneità. E scivola ai piedi del letto leggera come un lenzuolo. E degli indumenti. Quando hai solo voglia di nudità, la solitudine del corpo. L'odore del bucato si mescola a quello che calore che arde e che immancabilmente penetra. Arriva e si mescola. Proprio quell'odore inconfondibile dell'erba in estate. Il mondo è fuori ed è così rassicurarlo pensarlo. Ricamo la mia solitudine asciutta ed un pò ruvida e la intreccio lievemente al canto dei grilli che non si spegne e che gratta, gratta, instancabilmente gratta fino al cielo. Ma è solo un grido.
Lasciarsi conoscere, osservare, lasciarsi scoprire.
Quello che ognuno sogna.
La magia della comprensione.
Il pane dell'umanità.
Infinite lettere non scritte, infinite lettere non lette.
Tutte nella scatola rossa.
Pulsa come il cuore.
Ha fame di vita.
Di gioia.
Vuole esplodere.
E non smette.
quella parte di me che come burro si struscia sul pane. E caccia dolcezza, quella dolcezza inesatta e asciutta. Quella che non basta. Non chiede, accade. E non segna la misura dell'esistenza, ma la traduce. Come grani di rosari da scorrere. Quasi ruvida, come carta da pacchi e come il nastro spezzato sulla tavola. Ricordo i nostri Natali, regali, pile di pacchi, sotto l'albero che rischiava di cadere, ad ogni strattone, con il mio gatto che litigava con le palle, le sue zampe contro quel lucchicio, specchi del passato che si riflettono dentro gli occhi,  e l'odore, indimenticabile, ed indimenticato, della famiglia nell'aria, nella mente, dentro. E se adesso rifacessi la conta mancherebbero tanti pezzi, troppi pezzi, o forse tutti. Come se la catena avesse smesso di combaciare ed i suoi anelli si sentissero spersi, fino a tintinnare nel vuoto. E quella dolcezza si trasforma in  tremula malinconia ed in un senso d'amore incontenibile. E mi piace tenerlo dentro. A picco, dentro di me, terra e viscere, come una canzone e le sue note. Vorrei sapervela descrivere. E' quello il senso delle parti di noi, che sono oltre la carne. E' il senso del sangue. In fondo l'amore è fatto di sangue, è sangue per caso. E
poi l'altra di me. Quella fatta di furia e di tempesta, contaminata da ipotesi di vita. Di veleno strisciato sopra i muri. Le mie labbra sul vetro, per morderlo. Baciare umido e distaccato. E le mie iridi come un campo mai arato. Ed i colori annegati in quella stessa carne. A ridosso del sangue, controcorrente, senza riuscire a fermarsi. I miei polsi nel vento, a lacrimare delusione. Dopo aver osato. E quella, piccola e fragile, e un pò bastarda, matrigna e figlia, non sa guardare il mondo. Mai fino in fondo. Urta l'aria con le sue ciglia, con la sua voglia di imbrattarle di peccato. Il peccato è l'illusione di una fede mai sentita, mai provata fino in fondo. La preghiera dell'abbandono. Come se il dolore potesse giustificare tutto. Ma poi 
dove sono?
Inesatta come una somma, in cui mancano addendi.
I miei pezzi come molliche sul pavimento.
Io dove sono?
Quale di me davvero lo sa?
E quale vi scrive?
Forse nessuna.
Perchè questa vocina è tenera e contenuta testimone.
E non eccede.
Si spinge a raccontare.
Mai fino in fondo.
Dicotomica follia.
O morbida inesistenza, nel negare.
O nell'approssimato affermare.
Io esisto.
Chiaro?
 
Avevo preso appunti, li avevo seminati nella terra, in una buca coperta. E avevo livellato il bordo, con le mani umide di erba. E poi avevo corso, e ancora, nella pioggia. Al limite del fiato e della dignità. Mi piaceva pensare che così sarei diventata goccia, goccia con il cuore in petto. Incapace di smettere di battere, e di sottrarsi a quel circolo vizioso e cruento. Quello dell'inevitabile, del cambiamento, della tormenta. Della tempesta. A volte, nel cuore della notte, mi svegliavo. E risentivo la voce della terra. Di quel seme. E ne percepivo il gemito. Lo schiudersi avido alla vita. E il segreto nella mente. La mia vera casa. Nel suo pensiero mi sentivo nel posto giusto. Un pò meno sbagliata. E le mie unghie sul muro, a segnare la traccia. Senza graffiare. Io sapevo solo accarezzare, allora. Ed ero capace di ignorare, ogni crudeltà, ogni debolezza. Esattamente in quel posto, avevo la sensazione di essere viva. Intimamente esatta, giusta. Meno donna e più uva matura. E la mente precipitava sulla carne, dandole il sollievo dell'oblio. Non le restava altro. Come se lo scorrere di quella goccia, o di una qualsiasi, fosse un segnale.
La parte peggiore di me segna il percorso.
Pochi ostacoli alla meta.
Forse una conchiglia.
Perchè tutto è meravigliosamente relativo.
Prova a chiudere un occhio,
e il mondo cambia.
Quanti castelli di sabbia, senza re e regine.
In attesa della marea.
E forse di una parola.
Di una sola.
Non di più.
Mi sento presuntuosa e diversa.
E l'umanità ha un'eco deliziosa.
Anche oggi ho provato il brivido disperato del tuo rifiuto.
"Non ti amo. Ti voglio bene. Ma non ti amo".
E io conto le mie dita e ci sono tutte.
Pensavo di poter morire per il non amore,
e invece sono viva.
Porca miseria.

Un albero visto dal cielo.
In una notte insonne diventa un aquilone.
Una pupilla.
Il mio neo.
Un modo per cospargere il cielo di carezze.
Perchè tutto si capovolge.
Siamo clessidre di carne.
E tutto diviene la coperta del mondo.
Il suo velo sottile.
Tutto dipende dalla prospettiva.
Banale,
come tutte le verità.
Perchè la verità non deve restare immobile.
Può contorcersi.
Mutare.
Farsi foglia.
E lasciarsi navigare dalla corrente.
Per non annegare.
E' stata una giornata umida e strana.
Ho atteso la pioggia.
Ho ripulito i rivoli dei ricordi.
Lungo le ciglia.
Una rete strisciata fino agli angoli della bocca.
Della pretesa.
Del pentimento.
Ha inzuppato le pagine e mescolato la storia.
Adesso va meglio.
La notte sul collo.
Fino alla schiena.
A piedi nudi, sulla musica.
Mordo una albicocca.
E sputo il suo crudo nocciolo.
Nel vuoto.