E io che raccolgo l'estate dai tuoi morsi. Quelli che capitano. Amari, come spicchi di arance spaccate spezzate e fuori dal loro tempo. Disegno la mia bocca con il sangue e poi ho voglia di segnare il percorso. Strisce precise senza indecisione. Senza sfiorarsi. Ricordi? I segni su di me, con direzione indefinita. I miei sogni ed i miei incubi spesso coincidono. E io ascolto il mare, senza usarlo più. E senza farmi usare. Il mio piacere è il margine più prossimo al mio delirio. Ho occhi diversi, e tasche piene di rumore. Quello della mia mente. Spesso il senso di me si stempera nel mio non amore. E credo che solo la curiosità sia il sale che scopre e illumina ogni ferita. Ed è quello il vestito vero della mia anima, quello che nessuna parola può coprire per davvero. Per il resto, il mio cuore è vecchio mille e più anni e annuso il dolore, come mio nonno annusava il vento. Odio il bianco e le sue scie, e credo spesso che nasconda il più grande inganno, quella della innocenza, soprattutto di quella perduta. Non ricordi? Le frecce erano dirette al punto in cui tutto si può. Io mi nascondo dentro la notte, quando mi allontano. E cancello le mie tracce soffiando tutta la mia voglia che tutto possa essere diverso.
La corda ed i suoi giri.
L'odore ruvido della disperazione.
Stride.
Forse è il desiderio.
Uno qualunque.
Con gli occhi a forma di uncino, verso l'infinito.
Come una cosa con il cuore al centro.
Mi fa paura, una paura ferma e crudele, parlare di me.
L'istante dopo