martedì 12 febbraio 2019


Giorni confusi, di vento e di pioggia, da non sapere più quale possa essere il difficile confine tra un compromesso e l’equilibrio. L’aria pulita, quasi crudele, screziata da una coltre di nuvole, si staglia sul mare, come se fosse il coperchio di mille segreti e di una vita inversa. Un mondo al contrario, dove non sai distinguere l’entrata e l’uscita. E le due estremità senza mai ricongiungersi si toccano. Ed è difficile tra tutto questo grigio riuscire a tenere un morso di luce. Accade. E stupisce. Tra un cambiamento e quello successivo. Un passo da elefante. Cinque da leoni. E una marea di passi da formichina. Notti insonni che si infilano tra brividi e le parole di un libro nuovo. L’odore della carta rassicura sempre, mentre la pioggia non smette di urtare contro i vetri. E guardo il mare che non si spegne mai. Ed è bellissimo sapere che qualcuno spingerà ancora le onde, contro la sabbia. Una volta di un tempo lontano, è davvero successo, la spiaggia si illuminava ad ogni passo, ed il buio sorrideva. Tra assenze e respiri, qualche sorriso sincero ho una voglia pazzesca di infilare le mani nel mare.


O su tacchi oscillanti, la vita procede e non le importa del flusso indaco dei tuoi pensieri, piccola Sara. Non parlo quasi mai di te. Perché ho voglia di proteggerti, da tutto quello che le altre parti di me potrebbero farti. E forse ti hanno fatto, nella incoscienza più o meno effimera. Ti accarezzo e ti cullo, ogni notte e ti abbraccio ogni mattina, per riuscire a lasciarti nel tuo angolo, mentre vado via. Quasi nessuno ti conosce, forse neanche gli importa. E io ti nascondo dietro al cuore, anzi no, tu sei il pezzo più segreto del mio cuore. E non serve descriverti, o farne la peggiore profferta, perché non esisti, se non nei miei meandri più oscuri. Sono quelli in cui i colori prendono forma e smettono di essere segreti e sono sogni. Quelli più intimi e dolci, fatti dei sorrisi dell’infanzia e del profumo di mia nonna, mentre le spazzolavo i capelli, e lei mi raccontava di un mondo solo nostro. Mi parlava di una bambina che viveva dall’altro capo di un telefono immaginario e io aspettavo che arrivasse, che venisse da me. E non smettevo di accarezzare i suoi capelli, nei pomeriggi in cui gli adulti si ostinano ad ordinare ai bambini di dormire, mentre non ne hanno affatto voglia. Nella mia terra, d’estate il mondo si fermava -ancora adesso succede- e diventava immobile, e l’odore del mare ti circondava ovunque, mentre la voglia di libertà si incollava alla pelle intrisa ancora di salsedine e sabbia. Prendere una bicicletta e fuggire, nel silenzio della casa, per lasciarsi frustare dal vento, ed assaporare il piccolo piacere della disobbedienza. Forse un ghiacciolo e poi tornare alla normalità, nel sole più feroce e sfacciato che io possa ricordare. La memoria stempera e livella e restituisce odori, sapori, come pugni sul cuore. E noi quattro, nelle mura di casa, a volte piccola, altre immensa, ed intorno al tavole, con le pesche al vino nel bicchiere e l’odore della notte in agguato. Gerani e zanzare, ed io e mio padre nell’imbuto della notte, a chiacchierare; come se fosse adesso. Ma non è adesso. Neanche ieri. Non è tanto tempo fa, ma è per sempre, la dimensione in cui ti lascio piccolina mia, oltre il male che ti ho tentato di fare, e che ti farò, anche se non voglio. Oltre l’afa di quella estate e dei dischi sul pavimento. Le dita si raccolgono come petali di un fiore, che ha solo paura di soffrire, e si richiude. E che sente che il suo tempo è finito. Perché piccola Sara, nessuno può farti del male se non te stessa. E se gli altri mai ridessero del tuo dolore, in fondo riderebbero solo del loro. Nessuno può sporcare i tuoi sogni se non lo permetti. Nessuno, se non proprio te stessa e la parte peggiore di te. Gli altri non possono. E tu non smettere di sognare, di tremare, di affidare i tuoi pensieri più segreti al vento. Così nessuno potrà più rubarteli. E resteranno tuoi per per sempre, come i sogni più belli, fatti di istanti e di autenticità. Senza che una inevitabile fine li scalfisca.  Solo tuoi. Nella tasca del tuo cuore. Oltre il tempo. Oltre questo misero tempo.


E ritrovarsi così diverse e così uguali.
“Domani io vado a….”.
“Davvero? Anche io!”.
Il primo incontro e una emozione profonda e confusa, tra parole e fogli vari. Nella indifferenza di una folla che ci circondava, ignara del segreto che conservavamo dentro e che ci aveva avvicinate ed unite per sempre, quasi come un sigillo. Allora non lo sapevamo. E le nostre paure e le risate, e le lacrime, le confidenze, il timore iniziale, e le scintille; quante scintille! E tanta cautela. Protezione, cura, come con i semini preziosi, su una strada. Per non parlare dei tuoi biscotti, del diluvio in estate, del casello di una autostrada, delle mie melanzane tisiche, e di miscio, gatto pugliese. “Di chi sei tu?!”E poi Napoli, ancora e ancora, mia e tua, Napoli nostra. Punto e a capo. Ogni volta, sorrisi, assenze, scarpe vecchie e nuove e l’odore del mare. Confidenze nel cuore di una notte sconosciuta, ma disperatamente sincera, con le cicatrici vicine vicine. Una vera promessa di amore.  Un gioco, un gioco serio, il gioco più sacro che si possa concepire, la amicizia, la nostra, più reale del pane e più profonda di un solco nella terra.


Si perde come lo zucchero nel caffè. Un nuovo libro sul comodino, si aggiunge agli altri. Una pila disordinata; difatti in uno dei libri si parla di “space clearing“, anche se io lo definirei “seidavverounagrancasinoenonsaimaidadoveiniziarelecosefiguratiquandofinerle“. Prossima tappa: riuscire a volermi più bene; giusto un pochino di più. Perché la notte porta consiglio, anzi no, non lo porta la notte, viene e basta, perché io stanotte ho dormito come un ghiro. A volte quasi ci si disabitua al bene verso se stessi. E poi ho voglia di una bella passeggiata, a dispetto di tutto e tutti. Passi decisi, nell’aria sempre pregna di salsedine della mia terra. L’aria è fredda ma pulita. Non punge. Oggi ci sono assenze che fanno particolarmente male, perché sono vere mancanze, pezzi che sono andati via; come se fosse andato via un braccio, un occhio, uno spigolo di cuore. E in quella mancanza cerchi la energia buona quando non sai proprio da dove ripartire e senti gli altri, con il brutto vizio di non saperli ascoltare. Spesso mi dico che piangere pulisce gli occhi, ma anche il cuore e l’anima si danno una brusca risvegliata; una strizzata alla vita da stendere al primo sole, mentre ancora gronda quella maledetta sensazione di errore, radicata alle vene, alle viscere, alla bocca dello stomaco. E questa è stata una settimana strana, come la mia inquietudine, che a volte è tormento, altre una bastarda voglia di solitudine, di una solitudine vera, che non è debolezza ma forza. Quasi di tornare dentro di me, dove nulla fa male, perché nulla ci arriva. Non ho paura delle cose e della loro fine, perché neanche mi pongo il problema se ci siano, se siano mai esistite. Mi limito a vivere, come viene e come capita; anzi meglio che posso. Ed il mio cruccio è lasciare agli altri un pezzetto di me a forma di sbaglio, perché non vorrei mai. Siamo mani che si sfiorano; alcune quasi si toccano ed accarezzano la solitudine che ci disegna e ci staglia su orizzonti distinti, come vele del divenire. Mi dispiace degli errori che facciamo, del dolore che incautamente causiamo. Perché la essenza di noi stessi risiede in un grumo di polvere e caso, come una virgola sbagliata di sangue nel fango.
“Space clearing”.


Ed è una finestra segreta. Il vento gioca con i raggi timidi del sole. Osservo il cielo macchiato di nuvole. Non ho verità, solo sensazioni, che spesso inciampano nella paura, prima di diventare emozioni. Alcuni segreti nei pressi del cuore, come onde che non sanno fermarsi e che hanno solo voglia di distruggere. E poi quel peso che a tratti diviene insopportabile e nessuna parola per raccoglierlo. A volte ti stupisci quanto torta e complicata sia la via, e poi ti accorgi che i sogni sanno essere frecce, pronte ad infilzare il futuro. E che tutti viviamo oscillando tra mille difficoltà, e sappiamo dargli i nomi più diversi, ed i colori più disparati, anche quelli dalle sfumature indefinite che in alcuni momenti la nostra impotenza scaglia contro muri ignori.
Poi ti basta una tela, e un mondo si apre, l’incanto si schiude, e ti sa far tremare il cuore, fino a lasciarti infilare in un cantuccio dimenticato, tra spennellate di immenso. E tu sai che se osservi non cogli, quasi non vedi, perché in quel quadro c’è un frammento di animo e non sai se riuscirai per davvero a catturarlo, anche solo ad individuarlo. Non si trova in un punto preciso ma nell’indefinito magnificenza dell’anima che si spalma nel tempo, e dona, come solo l’arte sa fare. A  me piace seguirne i profili e la lotta famelica delle sfumature, quasi a ribaltarsi nei tratti. E più tutto resta  misterioso ed indefinito, più siamo attratti dal mistero della vita che vela e ottunde quella verità.
Eppure se ci pensi la comprensione non è altro che l’accettazione del limite, del non riuscire davvero a penetrarsi veramente, mentre l’io si fronteggia con la vita che incontra. E là restare a sentire, senza capire per davvero, perché non conta capire, ma sentire. La cosa che è davvero importante è sapere che al di là del nostro fiato più disperato, del nastro slegato delle nostre tristezze, il vento esiste e sa anche accarezzarle, senza spezzarle, senza chiedere, lasciandole andare appena è il tempo di farlo. La paura dell’abbandono è un graffio contro il cielo, e le sue gocce di sangue ci macchiano la mente, riaffiorando quando la corrente si placa.
E poi io ho sempre amato il rosso perché è il colore della verità, quella più sfacciata, quella che è densa di errore, quella che non perdona.
La mia parte sbagliata mi afferra e mi trascina e non ha un nome.
Non ancora.