venerdì 27 maggio 2016

Un viaggio strano. E passeggeri per caso. Baci e graffi. Sorrisi e lacrime. Ed albe e tramonti. Notti immense, come il mio tormento. O il suo inverso che si slega. Come un tappeto di sogni. E un buio lieve, così profondo da sprofondare nella voglia di comprensione. Poi tutto diventa diverso. Raccontare, raccontarsi. E dettagli, pochi, troppi. Il bisogno di rassicurazioni. Una ferita più dolorosa del giudizio. Sento e poi non sento. E provo a rispettare. Ignoro l'inutile e mi devasto per ciò che conta. Non riesco ad aprire le dita. Supplice come una lumaca con la sua casa addosso. Gli occhi dei miei nipotini sanno di meraviglia. Mi sanguina il cuore. Inaspettatamente. E vorrei che qualcuno lo comprendesse. Vorrei che fosse semplice guardarsi negli occhi degli altri. E lasciarsi guardare, per farsi vedere davvero. Nessuno merita il dolore. Nessuna cattiveria può essere giustificata. Neanche da un errore. Per me nulla è  brutto come il male. L'ossessione profonda come un pozzo. Da piccola quando non si sentivo forte mi rifugiavo nelle braccia di mia nonna. E nella mano di mio nonno. Avevano un profumo buonissimo. Il loro cuore profumava come un bosco. E io adagiavo il mio respiro nel loro amore. Poi la vita ti insegna a fregartene. A raccogliere solo quello che conta. A diventare esperti e distratti. A non guardarsi mai indietro. In questo viaggio c'è chi sale e chi scende. E a volte tocca proprio a noi. Alcune cose creano un dolore che è inspiegabilmente intenso. Come se le dita fossero finite sulla ferita. Dove è più calda.  Come un dito puntato sull'anima. E senti inutile tutto. Persino il voler bene. Perché ferirsi è persino troppo facile. E poi rincorrere come se si avesse fame di briciole. A casa mia le stagioni erano nette, o troppo o poco. E questo mi rende vulnerabile ai cambi di rotta. C'è chi scende e chi sale. E chi resta a casa, e guarda il cielo dalla finestra.
Né giusta.
Né sbagliata.
Solo donna.
E nulla rende liberi come la mente.
Tutta mia.
Domani sarò di nuovo mia.
Quanto lo vorrei.
Senza il fiato, come una collana.
Ed il respiro al centro di me stessa.
Quando ho iniziato ad essere un frammento?
E sempre marchiata.
Da un marchio che si perde tra mente e carne.
Una specie di alone del destino.
Perso nella mia memoria stinta dal dolore.
Ma c'è una innocenza che non si può spiegare.
Quella di ogni donna quando segue la sua anima.
Potrete non capirla.
Ma non sgualcitela.
Non calpestate la sua voglia di sognare.
A masticarle i sogni ci pensa la vita.

Sara e Noa

Io ho paura a dirti di che colore è la mia attesa. Non sono sospesa ma raccolgo i battiti che vorrò lasciarti esplodere dentro di te. Come stelle, una dietro l’altra. Ed è come se il mio sangue fosse un segreto. Ora. Quello del taglio che da sempre voglio da te. E tu non sai. Forse non vuoi. Non sarebbe dolore, ma uno strano modo mio di liberarmi. Oltre il fiato, oltre il respiro, oltre il piacere. Non è per avere un segno. Perché quello è in me. Dentro. In un angolo da dove non uscirai mai, anche quando dovrai. E vorrei spiegarti che è qualcosa di speciale, come quando qualcuno ti ha prestato i suoi occhi. E non sprechi neanche i tuoi battiti ad avere paura. Vuoi solo sentire dentro di te, come mai prima. Senza tempo, senza pretese, senza altro che consapevolezza di essere più donna. Un poco di più. Ogni volta. Fino alla fine di questo tempo. Poi non esistere sarà forse meno difficile, se lo si è riempito di verità e della voglia di viverlo. E forse anche dei sogni. Siamo quello infondo. Sogni riempiti di carne. Una strana sostanza che crede di bastarsi ma che straborda. E a volte ti tocca l’anima.
Sei questo pizzico che sento adesso nel respiro.
E quella voglia che a volte mi taglia come una mela.
In metà inesatte.
Imperfette per caso.
Come noi.
«Se tu ti ricordassi di me, non mi importerebbe nulla neanche se tutti gli altri mi dimenticassero».
Quei fili invisibili. Una tela senza ragno. Attende di essere spezzata. Un vestito di aria. "Ho freddo. Non rubarmi la neve dagli occhi. Le ho chiesto di andare a fondo e di coprire tutto. Di cancellare. Se ti chiedo di fermarti non ascoltarmi. Ho solo parole eccessive, quasi ridicole. Sono parole buffe ed invadenti. E voglio imparare a parlare con parole invisibili. Piccoli cristalli destinati a sciogliersi e divenire goccioline". Perché tutto quello che conta diventa sempre meno visibile. Si stinge. Si assottiglia. Si veste di oblio. La vita lo veste e lo sveste di rimembranza e di lenta distanza. E poi, come se fosse stanco, si adagia nella penombra. Deve fare posto a tutto ciò che arriva. E' per quello che scompare. Così sembra. Ma così non è. Siamo pieni di segni che ci hanno levigato l'indifferenza addosso. Si mimetizzano ed affondano nella memoria della pelle. Una memoria crudele, fatta di cicatrici silenziose, lembi su piccoli o grandi inferni, su pozzi, su frammenti di stelle. Qualcuno ha trovato il coraggio e ha cucito le due sponde. Segni che affondano e sfaldano strati, portando via con sé tutto il possibile, l'eccesso, il deserto, e ancora il troppo e il poco ed ogni ritegno. Sino a rendersi irreperibili. "Qualcuno c'era prima qua". Sembra dire il cartello, ma non lo dice. E' distratto e silenzioso. Ma se ci infili il dito, sentirai la presenza di qualcosa, che prima di diventare traccia era impronta e prima ancora altro. Era un qualcosa a forma di vita, pulsante e grondante di vita e che proprio quella vita, tutta quella vita capitatagli, ha fuso con la tua. Niente è più avido di carne e di materia e di nome, dei sentimenti. Soprattutto quando sono fragili e senza forza. Li barattiamo in emozioni e sensi, per ingannare la carne. Lei vuole tutto e tutto vuole trattenere. Sfugge, solo ciò che conta e si adagia in una profondità recondita ed immemore. In un viaggio senza ritorno. Qualcuno la chiama memoria del cuore. Altri anima. Solo perchè alla fine nessuno davvero lo sa. E poi a chi importa?
Come fragole morenti, in quella cesta.
Nella cesta della vita.
Ma c'è quella nuvola densa e morbida che si addensa. E c'è e deve esserci intorno al cuore. Un po' per farlo tempesta e pioggia e grandine e tuono, in attesa del sereno. La morte di un delirio in attesa di quello successivo, perché la serenità è una pausa. Quasi una tana. Ed un po' per proteggerlo, come una tenda o come una seconda pelle. Mi piace pensare di poter avere, che possa capitare, di avere le nuvole sulla pelle, sulle labbra, sulle ciglia, nelle orecchie. E' come essere un pochino fatti di nuvole. Di una sostanza che ci rende quasi impercettibilmente diversi, quasi una tenerezza misteriosa e nello stesso tempo vera, forse una confidenza quasi spiccia con il cielo.
Perché poi ho scoperto che quando le fragole muoiono non sanno sanguinare.
Hai mai infilato le mani nelle nuvole?
Io lo faccio ogni volta che mi slento.
E mi ritrovo in una strana sospensione.
In un'oscillazione che non ha tempo e ne ha troppo.
La fine e l'inizio come bordi di una stessa stoffa.
E l'ago che li penetra senza smettere di lasciare dei vuoti.
Da cui fuoriesce ancora un filo di speranza.
E' così che mi è capitato di ritrovarmi le nuvole nelle vene.
Una strana attitudine a sognare concreto ed a vivere astratto.
Ti ho lasciato un acronimo in un prato, e vi ho piegato petali, corolle e spine.
Vorrei che tu mi ricordassi così.
E questo è un segreto di nuvola.
E in quella nuvola c'è tutta la intimità.
Il legame più prezioso tra due creature.
Qualunque forma abbia.
Non è più notte. All'improvviso non è più così incredibilmente notte. L'alba risucchia le stelle e si condensa sul mio vetro. Quasi al confine placido dei miei occhi. Mentre una goccia si rifugia nella terra. Affonda senza pietà e senza ritorno.
Per aspera ad astra.
La mia insegnante occhialuta non mi sorride neanche più. Né io a lei. Annuisce. E' tardi. Ma io lo sapevo già. Non le posso negare l'illusione di avercelo insegnato. Una specie di approfondimento. "La ragazza è metodica. Dovrebbe studiare lettere antiche".
Ma lei voleva giocare con i numeri.
Prima ancora che con la vita.
E mi lascio guardare dal giorno che avanza. Nel guscio di una lumaca che striscia la terra umida e timida. Quasi come quando ti gemevo sul collo. Più egocentrica di una rosa e della sua corolla. Sul bordo dei suoi petali poche convinzioni. E il mondo tra le cosce. Solo perché questo giorno che incalza e spinge ha un peso moderato. Ed è gentile. "Dammi la manoIntreccia le tue dita alle mie. Ascolta il mio polso". E' così orgoglioso di schizzare vita. Nonostante gli avessi chiesto di essere discreto, impunemente batte. E mi gonfia le vene, come un fiume. E io il suo corso, la sua sponda e la sua riva. Ogni donna si sente così prima di godere. E il tuo sesso tra le mani, fino ai polsi.
Quanta evanescenza nel timore.
Più che nella tristezza.
E nella solitudine.
Dopo sarà ancora notte.
Come se il passato non mi appartenesse.
Alla fine è il corpo che ci concede la misura e la rilevanza delle cose.
Quello che di lui, e su di lui, resta, nonostante l'onda madida di novità e di divenire.
Resiste solo il desiderio.
Forse uno scoglio.
Qualunque nome gli sia stato dato.
Ed ogni traccia.
Forse, adesso si chiama coraggio.
Qualcuno ha osato chiamarlo così.
Ho bisogno di vestire di un senso proprio tutto.

Mancava sempre un pezzo. Molti chiamano tutto quello che accadde, e le accadde, imperfezione. Io mi limitavo a sentirlo. Forse solo ad intuirlo, lasciandolo esistere con il beneficio della distanza. Di un pallido distacco. Non lo chiamavo neanche. Non lo chiamavo proprio per questo. Era possibilità. Una fragile ed invisibile affezione alla vita. Quel non sentirsi compresi che rende tutto vagamente doloroso. Sentiva quasi una scia di incomprensione. Come se qualcuno le avesse spezzato il filo delle parole. E aveva una tela liscia su cui il tempo lasciava tracce occasionali. Come la vita che si addensa sui polpastrelli. E dentro si ammassa la tua voglia di raccontarti, questa volta senza paura, senza limiti, senza regole. Senza essere giudicata. Da sempre il silenzio le era sembrata un'arma. Per una come lei che mangiava pane e sole. Lo sbocconcellava come sfacciata prepotenza. E sorrideva al mondo. E aveva dovuto imparare. Una terribile lezione. Gli uomini spesso sono capaci di esibire una cattiveria sottile. E si era chiesta quante volte magari su quel palcoscenico ci era stata anche lei. Troppo presa ad accarezzarsi il cuore, per capire cosa succedesse attorno. Troppo intenta a raccontarsi favole, senza fine. Solo per sentirne il guizzo della dolcezza crudele. Era là che si era persa. In una dolcezza barbara e predatrice. Nella sua voglia di fidarsi. Di poterlo fare. Di cercare un equilibrio. In un girotondo in cui mancava sempre qualche mano. Le piaceva dimenticare che fosse stata divorata. E tingeva d'oblio e di delusione i pezzi mancanti. Quando qualcuno le si avvicinava, lei non chiedeva. Come chi ha pretese, pretese taglienti, che devono diventare le torri preziose, così credeva, di una principessa triste. In un mondo fatto di parole, la gelosia diventava un buco. Come se il cuore fosse di stracci. Dentro. E là urlavano tutte le mancanze di cui era fatta. Quelle che incautamente la avevano plasmata. I limiti contro cui si sfregava la sua carne e le lasciavano ferite immaginarie. Tanto più dolorose nella misura della inconsistenza di cui erano fatte. Una battaglia contro il nulla, in cui non c'era nulla per cui lottare, nulla da vincere. Solo un immenso vuoto da nutrire. Credo che chi lo abbia provato un pò sappia. Quanto siano difficili da sconfiggere i nemici immaginari. E quando pensi di essere sola e serena, finalmente nella tua vita, quasi immersa, come una radice nella terra, un soffio tra i capelli, e dita di aria, ti lasciano percepire la precarietà di cui siamo fatti.
Mangio pane e stelle.
E quella è la mia dannazione.
A volte mi piacerebbe che qualcuno inseguisse me e non le mie paure.
C'è una strana simmetria nella crudeltà. Sembra quasi fare il verso a rintocchi di campane, pigre ma stanche. Prima di mezzogiorno e che sia troppo e troppo tardi. La misura del tempo chi la dà? La nostra giugulare che pulsa, il rincorrersi dei nostri passi o una lancetta sottile e stronza, quasi sorda, che non si sbaglia mai e non si ferma neanche a pregarla. Ci vorrebbe un martello. Come quella volta che mio nonno che non sapeva spegnere la radio la fracassò al suolo. Per un po' di silenzio meritato. Diceva che ne era valsa la pena e usciva di nascosto ad ascoltare la musica dei jukebox del lido laperladelmare. Mi sorrideva da sotto l'ombrellone con la granita alla menta e i suoi pensieri lontani. Nessuno pensa mai ai propri cari come uomini e donne: ti viene facile pensare che siano sempre stati là nella casetta dei nostri ricordi, senza alcuna vita loro. Come se fossero nati esattamente così nel posto in cui li abbiamo incontrati, nell'imprinting del nostro amore, incastrati al nostro cuore. E' assurdamente senza regole l'amore, lo senti e non riesci neanche a spiegarlo, e più è vero e più non ci sta nelle parole, le dilata come un caldo malato, come una febbre. La crudeltà invece è fedele, diversa dalla bontà, irregolare e sbadata, quasi ebbra e sbrodola. C'è un armonico orrore nella crudeltà. Nei suoi morsi esatti e precisi. Quello strapparci pensieri da sotto le unghie e confondere l'urlo con il dolore. La dignità e l'orgoglio. I sentimenti con la rabbia. Di non avere più quei pensieri o solo di averli pensati. Sarà pazzia, anzi lo è. Quell'urlo muto e denso che si sostituisce al sangue e che scorre senza che tu riesca a fermarlo. Con tutta la forza di cui siamo capaci. Io non incanto più. Sono nuda. Un tempo sentii la vita prepotente e fervida. E vivida lo fui. Foglia verde e sincera. Adesso non più. Sono più nuda della terra, di una terra dove è stato raccolto tutto e c'è solo polvere. Sono un ramo senza fiori. E ho impiccato le mie povere foglioline, prima che divenissero secche. Non gli ho dato il tempo di invecchiare, di farsi lacere. Ho spezzato la lancetta, poco per volta. Un albero che muore di freddo ma non può dirlo, si lamenta solo per i suoi fiori persi. Ma non chiamatela fiducia era una serie infinita di virgulti che non divennero mai petali schiusi. Sarebbero stati una bella collana di vita, vissuta e sognata e masticata e trattenuta, sul mio seno, nei pressi del cuore.
"Piove.
La pioggia si è impossessata del cielo.
E riga l'aria. 
La segna. 
Striscia.
Raccoglie e ruba come una ladra".
La pioggia non mi ha mai disturbata. Sentirmela addosso. Io che in genere la sento dentro. Trovo inutile l'ombrello. Nasciamo per prendere tutta la pioggia che ci capiterà. Con il desiderio di essere asciugati. E ancora bagnati.
"Adesso ho freddo io" ... anche se ho paura di infilare le mani nella pioggia.
Piove scuro. Oggi piove denso e scuro. E la campagna schizza ciuffi impazziti di margherite selvagge nell'aria. E i papaveri con le loro corolle irriverenti e sprezzanti. E canne sul bordo della strada. Mischiate a fango. Quasi compiaciute. Il verde si ribella. Quanto amo il verde della mia terra. Il cielo è scuro e di contro si staglia quel verde smodato, indisciplinato ed incolto.
Credo che la pioggia sia un atto di amore tra cielo e terra.
Un amplesso primitivo ed intenso.
Il cielo che si scopa la terra.
E lei resta come la più autentica delle culle.
Piovimi addosso.
E ancora. . . . .
Ho paura.
E vorrei che la pioggia avvolgesse i miei polsi.
Ora sono completamente vestita di pioggia.
E nella pioggia vago.
E nella pioggia mi arresto.
"Ho sempre più freddo".
Inciamperò. Ancora ed ancora. Non mi troverò mai…e mi riperderò sempre. 
Gratto il cielo, e suggo lentamente quello che mi ritrovo tra le dita. Una strana granella di nocciola e sogni. Mi fa sentire protetta la sua presenza sulla testa, come se il cielo fosse un cappello. E avanzo con i miei desideri per mano. Dita nelle dita, quasi un intreccio di radici. In fondo, i sogni sono quello. Una spatola gigante e dipingo il mio soffitto di stelle. Dei colori più disparati, quelle che non sapresti immaginare. Stelle indaco, stelle verdissime, stelle rosso fuoco. E stelle viola, per i momenti di tristezza. E sento un vuoto quasi magico, provvido e sincero, dove tutto "risuona per la forza del soffio". Pezzi di me scorrono sul fiume, come foglie riverse. Forse l'anima è una foglia? E io, come la nemica di me stessa, attendo, mentre tutto scorre. Oltre la coltre di dignità che mi sono sempre spalmata sulle braccia, oltre il senso del rancore di cui riteniamo dover ricoprire le cose quando non sono della forma che vorremmo dargli noi, oltre la apparenza dei buoni sentimenti, oltre ciò che si deve e non si deve. Una bambina mi guarda dal lato opposto del fiume e io ne seguo le movenze incerte ma delicate ed i suoi passi fragili e veloci e so che lei non mi lascerà mai. Anche se adesso deve andare. Ed i suoi sorrisi tristi ma buoni sono un timbro sul mio cuore. E le dico addio, così come a tutte le cose che ho tenuto strette fino ad ora, dico addio a quella me che ha così compresso le sue labbra a sorrisi di facciata. E sento la bocca nel vento. Come non era capitato da tempo. Forse da tante vite fa. Come se avessi labbra di cristallo, fragili e piene di aloni, e adesso il vento le leviga. E le restituisce. E qualche parola, raccolta come una foglia; proprio quel rigurgito di anima. Per farne un anello. Io lo facevo sempre con i fili di erba. E mi disegnavo la bocca con i petali di rose rosse. Le accartocciavo sulle labbra, e mi sognavo donna, terribilmente donna. A volte sognare è lanciarsi tra strati di vite. O solo ascoltare. Il ricordo dei posti incontrati nella mia vita e la voglia di vederne ancora. Altri. Di ricominciare a scoprire il mondo. Al contrario. Da dentro. A passi lievi ma sinceri. Il viaggio dentro di noi è quello più importante, il più lento, il più complesso. Se non fosse così vero sarebbe persino banale. La solitudine è una meravigliosa opportunità.
Per i miei sensi.
Per la mia mente.
Per la mia anima.
Per la mia carne.
Mi aiuta a sentire il desiderio.
A saperlo riconoscere.
A ritrovarmi nuova.
Ad inventarmi.
Oltre ogni egoismo sordo di questa pelle.
E dei suoi segni e delle sue ferite.
Dei suoi tagli bugiardi.
E alterno buio e luce.
Forse io sono proprio quell'intervallo che li separa.
A volte penso che sia così difficile trovare un posto, un istante, una sensazione esatta.
E mi rifugio tra le parole.
Dove posso passeggiare, serena, a piedi nudi.
Senza fare rumore.
Almeno, non troppo.
E all'improvviso correre, correre, correre, fino a quando avrò fiato in gola.
Il senso dell'incompiuto mi lega i polsi e lascia il suo solco. Quanti giri di corda? Mi rifugio nel fiato, perché mi aiuta a non sentire quella riga perfida e sottile, come l'anima di ferro, che taglia. Come la delusione. Segmenti di respiro ed il prato come un tappeto, a raccogliere rugiada sparsa. Stringi forte, più che poi, perché ho bisogno di piangere. Urlerei volentieri alla luna questa notte, fino a lasciare cadere frammenti di cielo. E poi non so. Resta quella maledetta sensazione, come una seconda pelle. E quasi soffoca.
Sfioro la tempesta solo perché l'aurora è già finita.
Il cuscino come argine dei suoi pensieri. Ha altro da dirsi nelle sue notti. Sta scandagliando il fondo, più o meno meticolosamente. Sente l'odore del futuro e ancora lo teme e ne centellina la fragrante fugacità. SI ascolta i polsi e così si placa e si divarica come una corolla. L'aria nella gola, troppa, senza neanche tanta paura; giusta quella che le serve. Un taglio sui jeans, ed passi alla rinfusa. La caviglia sorride, nei suoi schizzi imbarazzanti di sensualità. Senza una direzione, con una maledettissima voglia di vivere, come se il lembo si fosse slentato. E sul cuscino qualche lacrima, che non guasta. Hai mai bevuto le sue lacrime? La luna c'è ed è il suo palloncino. Ma a lei i palloncini hanno sempre fatto tristezza, languidi e smunti, alla fine della fiera, a grattare il soffitto, come barlumi di vita che si strusciano, esattamente sotto il tetto del mondo. Supplici a suggere frammenti di vita. La voce della gente la circonda, come uno scialle sgualcito. E lei resta sotto la sua patina, in un distacco che non è solo attesa, anche se sa, e sa che domani non sarà altro che domani.
In notti come queste, anzi come questa, vorrebbe solo musica, quella che piace a lei e che la spacca a metà come una mela. Spicchi che si sfiorano, lasciandosi ricucire dalle vene.
E quella lama a ridosso dell'anima, ad ogni palpito che brucia il cuore.
O forse altro.
Si disegna le linee della mano, per infilarci dentro sogni.
Ha perso la mappa stinta delle sue ferite.
Ma sa che la pelle è pregna di memoria.
Così per caso e poi per gioco. Tra vena e vena. Nella sua solenne lentezza, non so che ora fosse ma mi intrappolai in te, come nella più tenera e candida delle perversioni. Oserei dire feroce e lo sussurrerei. Ed è successo? Tu lo sai? Era ieri o domani? Scivolai dentro me stessa ed un desiderio che pulsava di rosso. Rosso come il sangue del mio dito, che vorrei descriverti, e come il palloncino che mi esplose davanti alla giostra. Rossa come la mia gota mentre mi parli. E come la mia mente mentre ti ascolto. Ho sempre odiato il rosso. Ma adesso no. Oggi lo sfioro e me ne tingo i polpastrelli, perché rosso è il tratto tra la mia mente e la mia carne. Un sentiero semplice se chiudi gli occhi. Perché ho la disperata sensazione che ci si può riconoscere per davvero solo nel buio. Ed è per quello che non ho mai aperto gli occhi. E sono ancora chiusi. Ma tu lo sai.
Un brivido ed una parola. E poi una vertigine. Mi sento e fino in fondo. E fino in fondo mi distruggo. Cancello gli occhi, la bocca, la mia voce, le mie vene, e le mie mani, fino alle nuvole. Fino a piovermi a dirotto. La pioggia scroscia in una notte senza stelle. Non ho emozioni sui polsi oggi. Solo rovi e tormento. Quello della incomprensione. Purissima, come solo la paura sa far germogliare. Buca la pelle, come se fosse una zolla arida. E fa male. Quando la lama ha segato ogni confine ed ha reciso la vena. Dove va il sangue? In che direzione? E nello specchio dell'indefinito ho iridi diluite in una strana indifferenza. Parole che non riesco più a pronunciare. Non le voglio. Sento solo uno strano silenzio. Fende la dignità e i suoi brandelli e mi squarcia il ventre, come un piacere all'inverso. Mordo aria, mordo il cielo, mordo la mia mente, con i pensieri, quelli più sbagliati possibile. Per il terrore, sacro e virgineo, di sporcare tutto, oltre me stessa e questa pelle sbagliata, una pelle inversa. In fondo aspiriamo alla perfetta comprensione, ma quella è il solo perfetto vestito del sangue. Il resto una favola senza capo né coda, dove il lupo non sa che pecora sbranare. Respiro, respiro ancora e le dita si perdono in questi tasti ed in queste parole e nel senso dell'inutilità di istanti. Qui nel mio fiato ho una verità e poi un'altra e poi ancora. E non respiro. Perché vorrei saper dire e raccontare una storia senza pause, senza virgole, senza sospiri. Senza giudizi. Sono difficile e persa nella mia rete di donna pesce. Ed è facile vedere il tormento che mi deforma e si infila tra i denti. E ho solo voglia di mordere e mordermi e dilaniare tutto questo errore di donna che sono riuscita a creare. Una donna intorno ad una voragine. Chi può mai sporgersi per guardarci dentro? Io non lo farei, meglio i muri fragili della incomprensione.
Ed è il silenzio il solo fodero del mio desiderio.
Delle mie mani sole, nel buio.
Perché nel buio i graffi scompaiono e sembrano bellissime.
E non ho bisogno di sembrare migliore di quello che sono.
E accadde mentre si lavava i capelli. Le accadde di capire, mentre tra lei ed il soffitto c'era solo acqua che le rigava, indulgente ed imprecisa, il cranio e separava, senza dividere; già acqua, acqua che non sarebbe tornata, e che giocava lenta ed implacabile sul suo capo. Una matassa di sogni spenti ed asciutti che ricominciava a strusciarle addosso. In uno di quei momenti in cui il corpo diventa un oggetto, tra gli oggetti. Come se fosse svuotato di ogni volontà. Il corpo è una cosa che si lascia vivere da noi. L'oggetto degli oggetti. Nel gioco della vita. Come se fosse un pulsante, un joystick, una lancia, uno sputacarezze, una ruspa o una pinza da insalata. E poi pian piano diventa sempre altro. Una specie di magazzino. Lei comprese, ne percepì una vaghissima sensazione, nulla di tattile, ma trattenne. Tenne per quale istante quella sensazione di essersi avvicinata alla verità. E che forse la verità non le interessava. Perchè la verità non era mai reale. Nè ferma. Era la non verità, senza diventare menzogna, che diventava solida, forma, carne e misura. E di riflesso ci dava la possibilità di cambiare strada. Ancora a raccogliere vita e voglia e desiderio. Per quello deviamo e ci rivoltiamo e continiamo a camminare. Contro ed oltre ogni apparente immobilità. Così slentò la sua corsa dietro a quel perchè. Lo sentì scivolare via con l'acqua. Come quando da bambini si capiva il trucco. Ed era solo imparare ed imparare a capire. Quella era una domanda che ne aveva precedute altre. Perchè domandare era un modo per smettere di rispondersi. Non aveva mai previsto che tentare di vivere fosse una possibilità. Una tra le tante. Senza che fosse neanche la migliore.
Solo che aveva il sapore del sole.
E forse una parola nuova da sciogliere sotto il palato.
Non voleva spiare il mondo.
Lei voleva guardarlo.
Ad occhi pieni.
Ed inspiegabilmente alternava un pensiero delicato ed uno brutale.
Quasi mangiarsi di baci e morsi.
Ho il cuore tra le mani.
Sembra un piccoolo sole che si spinge verso il vuoto.
Si contorce e si modella in archi di vuoto e di luce.
Tutta quella che non ha.
Prima di tuffarsi e stemperarsi in
linee di assenza
ed in mille ombre.
Quelle che ci raccolgono e ci adagiano.
Sul bordo.
Ci avvicinano al suolo.
Fino a renderci sue vene.
In avido ascolto.
Forse i nostri cuori sono le radici della terra.
I suoi vasi comunicanti.
Le radici di un fiore.
E come ombre silenziose affondano.
Si infilano sotto.
Nel resto del senza.
L'alcova del bisogno.
Fino a non lasciare traccia.
L'oblio del cuore è un labirinto.
Sotto la pioggia la terra è assolutamente nuda.
Quasi indifesa, si ascolta.
Fragile.
Ogni passo la riempie di crepe.
E quelle crepe a volte sono le uniche parole di cui siamo capaci.
E le soffia polvere.
La paura della terra.
Paura, quasi livido e scostante terrore.
Di ascoltare i sussulti che ci sono sotto.
Come un cuore lontano che batte.
E non ci sembra neanche più il nostro.
Il mio corpo è una terra da ascoltare.
In silenzio.
Perché così ti accorgeresti che è la tana di una luna muta.
Lana spessa e grezza.
Impregna e si impregna.
E io mi parlo e mi "parolo" addosso.
A cascata.
Solo per nasconderne i battiti.
Ed inventarmi il silenzio.

Iron Buddha

E l’aria gira intorno al fumo del mio caffè. Una notte con i bordi gonfi della luce che arriva e la ripiega e compatta, come un cuscino. Dopo sarà ancora giorno, ma adesso sono mia. Come questa aria. E sola come mi dice il mio respiro mentre mi attraversa. Scelgo sempre i modi peggiori per dire le cose. E mi accorgo che non mi appartiene quella dolcezza del saper descrivere, che poi è il più sublime degli strumenti di comunicazione e della condivisione delle parole. Anche se qualcuno mi ha detto che si può condividere senza dare importanza alle parole. Come se fossero farfalle, di un prato speciale, dove poter camminare a piedi nudi, appena se ne ha voglia. E là lasciare sotto un sasso il proprio messaggio per il destino. Io deformo, io analizzo, io sminuzzo. E le cose finiscono ai margini di una descrizione, come se un non_luogo facesse spazio al successivo non_luogo. In una serpentina che sfocia in un non dire, per dire il più possibile. Alla fine non mi sono capita neanche io. Ma a chi importa? A me poco e male. C’era la notte e poi la luna. Ed all’improvviso più nulla. Ardo e di rosso gemo. E resta polvere. Qui. E non so descriverne il colore. Polvere sulle labbra, sugli occhi, sul cuore. Oscillava tutto nella notte, mentre il soffitto era scuro, come la rabbia. E io non la voglio, ma sono così. Non voglio la rabbia. Solo un filo morbido verso l’infinito. Non una freccia, ma un corso lento come un fiume. Candidamente sbagliata, mi annodo. L’odore del giorno, le voci della vita. Il mio cellulare che non si ferma. E vorrei solo uno sguardo che potesse capire che in alcune crepe tutto si infila velocemente. E che il tormento è vorace. Ma poi dimentico che io sono e resto un problema mio. Donna e paura. Quasi un’alba impiccata ed il mio respiro che si annida proprio adesso che credevo di non avere più paura. Io dico e dico sempre e troppo e chiedo al carnefice di non mangiarmi questa volta. Come cappuccetto rosso ed il suo lupo. O un lupo qualunque. Ed è così sbagliato, ma spesso credo che ci sia più verità nel dire le cose sbagliate che nel tacerle.
E non dormo.
E non mi sveglio.
E mi dimentico.
Ci vuole più forza ad essere come non si dovrebbe che come si vuole.

venerdì 6 maggio 2016

Alcune cose sostituiscono altre cose. Non si sostituiscono. Non rubano il posto. Lo trovano. Come l'acqua che si adagia nei fianchi della montagna e decide se andare o restare. Senza mai smettere di scorrere. L'origine del mondo si riproduce. E diventa un argine mutevole. Si impenna e si distende. Come quando la terra si accartoccia e poi si liscia, si stende. E' successo. Forse ieri. O mille anni fa. Le cose non prendono un posto che è rimasto vuoto, ma solo un posto che gli spetta. Era loro. Ogni volta che ti apro il mio desiderio. Come la tenda della mia intimità. Forse accade. Il mondo si inabissa ancora. Per riaffiorare dopo. O prima che sia accaduto. E' bello credere di essere apnee del mondo. Come se fino a quel momento fosse spudoratamente immemore. Non voglio sentimenti. Ma voglio la verità di questa carne. Non voglio emozioni esatte, affettate dalle lancette di un tempo che qualcuno si è inventato. Ho solo un tempo scandito dal mio polso. Quasi si raggruma come terra intorno al corso dell'acqua. Incapace di capire quale sia la distanza tra le sponde. Si addensa e si ammassa. Si addossa perchè ha bisogno di darsi una forma. Anche quella di un abbraccio. L'origine del mondo non ci appartiene. Siamo viandanti in un frammento della sua scia. L'orgine del mio mondo, invece, è solo mia. E non ha regole. Io nasco al contrario. E mi piace essere frutto prima che radice. E cenere prima che fuoco. Mi piace ribaltare le regole. E ho un cuore immemore. Si crede vergine. E a volte mi cola a picco tra le gambe. Ed altre si rifugia sulla mia nuca. In attesa di una carezza. O di un graffio.
Non è mai un segnalibro. E' la pagina mai letta.
Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza.
Separo le cause dagli effetti. E mi muovo in un mondo senze conseguenze. Le sbatto lontano. Come se fossero schizzi. E mi sposto in uno spazio senza reazioni. Spostando cause. Come massi. Un universo effimero. Fatto di istinto. Puro. Ma denso. Come se sperimentassi. E io fossi il tentativo di me stessa. Il peggiore possibile. Ma la reazione è lontana da me. Non posso neanche scorgerla. Mi sforzo di immaginarla. Mi viene in mente solo una freccia.
Un punto deve esserci. Un fiore. Una stella. Un piccolo sole. Da inchiodare. Infilzare. Impedendogli di perdere sangue. E lasciare immobile. Come luce. Senza calore. Capace di donare il senso della direzione. Con l'odore del vento.
Da afferrare. O da spezzare. Per sempre. Sono una torcia che langue. Il tempo ha risucchiato la mia fiamma. Ma sento. L'aria consumata intorno a me. E sento che gli eventi si ripeteranno. Si incastreranno nello stesso identico modo. E che succederà ancora. E come allora posso solo raccogliere. Cenere. E chiudere gli occhi. E lasciarli andare a picco. Dentro. Mi sono cosparsa la fronte di aurora. E non vedrei che quella. Se solo aprissi gli occhi. "Dimmi la prima parola oscena che ti viene in mente. La più oscena. Il più possibile." Amore".

Nulla che non sia…e così sia

Le canne sul bordo della strada.
Un campo di papaveri sfacciati.
La sabbia leggera che abbaglia.
La linea azzurra del mare.
Il taglio dell’orizzonte.
Li vedevo dal mio letto.
Ero bambina e sognavo di diventare donna e mi addormentavo con la luna negli occhi. E le stelle nel cuore. E sognavo di disegnarmi la bocca rossa e di vestirla come una rosa. Petalo su petalo, in attesa di poterla schiudere in un sogno.
Vivere con il mare addosso aiuta a sentirlo amico, sempre e comunque, e a volerlo condividere. Quando sei lontana e continui a sentirlo. Quando le tue notti sono quelle di una donna pesce che sente che tutto le sfugge, e si rifugia nelle sue apnee. E poi sotto e sempre più a fondo. E vorrebbe urlare al mondo che è tutto più semplice di quello che sembra. Perchè basterebbe avere il coraggio di saperlo dire. Di dire tutto.
Anche che adesso mi sento una marea.
Anche che adesso mi sento una luna piena e di carne.
Anche che adesso sono più donna di ieri.
Anche che adesso aspetto un istante perfetto perchè è mio.
Un minuscolo e piccolissimo istante.
Puro e sincero.
Come il desiderio.
Ecco è questo quello che non so dire.
E quando ti chiedo di bendarmi è solo per un motivo.
Perchè voglio aspettare il momento successivo in cui
strapperai la benda e mi guarderai negli occhi.

Fiori di acciaio…

“…Perdonami mondo. Dico sempre che non chiedo. A volte impongo. E non rispetto. Perdonami mondo, se puoi. Io sono sbagliata. Ma sto cercando di cambiare. In questa vita, o nella prossima, in quella dopo ancora, cambierò. Tu sei puoi fammi rinascere migliore. Io non riesco. E muoio e rinasco. E non smetto di sbagliare. E di chiedere. Eppure non vorrei…”.
Io sono fatta di nuvole.
Ma a volte sono davvero rosse.
Come il sangue di quei papaveri.
E della loro innocenza.
La mia tenera perversione.