daunfiore

Ed è così difficile descrivere quello che si prova l’attimo dopo. Dopo cosa? Dopo che ti sei sentita una stella di sangue e fango. Dopo che ti sei lisciata come un foglio su cui lasciare impronte, come se una pialla ti avesse annullato tutto, passato e senso di futuro, e presente. Quasi come una mendicante a caccia di emozioni, ti guardi e non ti vedi. E le parole degli altri sono frecce oppure gocce che scivolano e disegnano linee e deviazioni su vetri invisibili. E le tue sembrano navicelle sponte ad esplodere in galassie sconosciute. Il senso di me, stemperato e diluito, come lacrime innocenti, ma gravide di colpe. Solo l’acqua copre. E mi bagno, nella mia fonte segreta, che non cancella, copre acqua con acqua. E mi protegge. Io non so farlo. Io ho bisogno del dolore. E lo cerco. Nelle cose più sbagliate. Nel sentirmi continuamente sbagliata. Ed è così difficile volermi bene? Per quella che sono? Non voglio paraventi. Non voglio tende. Non voglio altra acqua. Solo la mia pelle. Voglio essere vera, come questa pelle ed i suoi tagli, i suoi segni, le sue voglie,  i suoi bisogni. Forse riusciamo ad essere veri, unici, sinceri, solo nella solitudine più pura. Nè cercata, nè indotta. Senza spinte, e senza paure per il nostro immenso vuoto. Finalmente pronti ad accoglierlo, come forse nessuno ha saputo fare con noi. Senza sconti di pena. Al bordo di una lacrima, appena scivolata. Senza coraggio, perchè per vivere ne serve già troppo. Un incrocio di respiri. Di fiati lenti come vento. Il vento ed i suoi disegni. Ieri attraversavo la mia terra ed il vento non smetteva di sedurla. Io non so farlo. Non so sedurre gli altri. Lo faccio solo con me stessa, con le mie assurde storie di donna. Vorrei essere come la terra, più femmina della terra. Riuscire a sentire tutto il vento che posso. Andare a ridosso del margine, delle mie viscere, senza paura del cielo, delle sue nuvole, delle ombre della sera. E restare e stare, nonostante tutto. Ma quale è la fabbrica del coraggio? Quale è il limite nel mostrarsi? Credo che gli altri non vogliano vederci come siamo, perchè è difficile. Ed è più semplice vederci come riescono, appena appena. Ancora di più come vorrebbero fossimo. Ieri, dicevo, mentre mi infilavo in uno dei miei angoli bui, sentivo solo la velocità e la strada, ed il sangue nelle vene, come mi piace, finchè non sono inciampata in un rettangolo di tramonto. Forse era un poco prima, perchè il sole  era ancora alto, ma rivestiva i campi della sua luce così bella e buona da pizzicare il cuore. E non scintillava ma accarezzava i colori dei papaveri sul bordo della strada, innocenti e meravigliosi, come una striscia rossa di futuro. Una lama di sangue. E io ho sentito la voglia di una carezza buona, per un attimo. Oltre la soglia del mio angolo buio. Mi sono resa conto, come per incanto, di non essere affatto buona. Ma una piccola donna egoista. Egoista per un milione di motivi. Tutti sbagliati. Cercherò ancora e ancora quel sole buono ma inclemente. E sbaglierò ancora. Ed ogni volta per ripartire chiederò scusa.

“…Perdonami mondo. Dico sempre che non chiedo. A volte impongo. E non rispetto. Perdonami mondo, se puoi. Io sono sbagliata. Ma sto cercando di cambiare. In questa vita, o nella prossima, in quella dopo ancora, cambierò. Tu sei puoi fammi rinascere migliore. Io non riesco. E muoio e rinasco. E non smetto di sbagliare. E di chiedere. Eppure non vorrei…”.

Io sono fatta di nuvole.

Ma a volte sono davvero rosse.

Come il sangue di quei papaveri.

E della loro innocenza.

Una macchia.

La mia tenera perversione.