lunedì 27 giugno 2016


Che ora è?

Qualche istante? Interi giorni? Quanto tempo è passato prima che tutto questo divenisse parte di me? Ho vene verdi  e strani riflessi, a volte viola. Segnano i miei polsi. Mi piace pensare che siano fiumi e che io sia terra. Sono questi i pensieri che mi attraversano, fino a diventare linee, quando mi ricopro di solitudine. Di tutta quella di cui sono capace. Fino ad inseguire un tramonto caldo, caldissimo, ed un cielo carico di sfumature. Tutto inizia e finisce nel mare. Almeno così mi sembra, mentre annuso l’aria. Un attimo prima di distruggere ogni luce. E sentire ancora l’ombra, in fondo, fino alle ossa. Per tremare ancora. I gatti miagolano in giardino,  scavano sempre le piante che io sistemo e le lasciano sparse nella terra. L’aria finalmente più fresca mi aiuta a respirare. E se respiro, penso.  Pensieri leggeri. L’ora blu. Ed è quella che preferisco. Dalle mie parti ricopre tutto di una luce speciale. La luna non è ancora esplosa e tutto il cielo si sfuma lentamente verso il mare, in un modo particolare, di una bellezza prepotente, quasi invadente. Tra un istante sarà ancora notte. Quante onde dovrò attendere? Quante volte la loro acqua sfiorerà la riva e righerà la sabbia? Una volta ho passeggiato sulla spiaggia, sotto una coperta fitta di stelle, e ad ogni passo tutto si illuminava.  In un posto lontano, è successo, sotto questo cielo. Lo stesso che adesso sembra abbracciarmi. Perché ci sono viaggi indispensabili. E io desidero aria nuova. Dentro e fuori. Un bisogno antico che riaffiora. Altrove è il mio posto, adesso. Perché la distanza aiuta a sentire meglio.
Siamo tutti protagonisti di vite diverse nella stessa vita.
Quale è la prossima mossa?
Fammi una domanda, ma non so se ti risponderò.
 ”….Il cielo era stellato, tanto che, dopo averlo contemplato, ci si chiedeva se sotto un cielo così potessero vivere uomini senza pace…” (F. D. – “Le notti bianche”)

Piovono rose…

Non sono goccioline, sono rose. No, nessuna lacrima, ho occhi asciutti e sinceri, in questo cielo grigio e pregno, come la solitudine. Quella è la condizione che ci avvicina più pericolosamente ai nostri sogni. Napoli, punto e a capo. Una città che è un punto e poi un altro e poi una virgola, ed intarsi i giorni strani che io vivo. E poi un respiro.  Prima di precipitare ancora nelle emozioni. E nella presenza più o meno profonda di me stessa. Noi, in genere, siamo i posti che viviamo. Ma a volte quei posti diventano un poco di noi. Io non ho mai la misura di quello che è il bene ed il male, ed esagero, faccio incetta di pensieri. E spesso sono di carne. E mi limito a vivere, a respirare, a respirarmi più a fondo che si può. Anche quando non dovrei. Anche dove non dovrei. Io sento. Non è bellissima questa parola? Sentire. La lasci scivolare sotto la lingua. E neanche deglutisci. Non subito, almeno. Finché ti brucia sotto il palato.  Finché ti perdi nella apnea. Anche quando sai che fa male, a te ed agli altri. Anche quando in fondo al tunnel di quel respiro non c’è nulla, o nulla di buono. O semplicemente un candido niente. E le parole sono nuvolette. E per un istante senti la mente tra quelle nuvole.
Proprio quelle che sento da qualche tempo.
Io lo dico sempre che sono una nuvola sbagliata, con tanto sangue, troppo, tanto da dover piovere rosso. O solo limitarmi a piangere quando serve. Ma non serve. E stringo i denti. A volte sorrido, con tutto l’egoismo di cui sono fatta. Per quello poi sento il bisogno, all’improvviso, come in un vicolo, dentro e madido di vita, di questa città, di chiedere scusa, di posare il mio bacio, come il più sincero dei perdoni e di svoltare l’angolo. Tra le urla della gente. Santi e peccatori. Pietre e aria pregnata di salsedine. Sì. Mi dispiace, perché una nuvola sa solo sporcare il cielo e non trovo la forza per soffiare, soffiarla lontano. Lontanissimo, oltre i miei sogni. In fondo una donna sincera è affascinante come una mutanda a vita alta. E corro il rischio, poi mi spoglierò e sarò ancora nuda davanti a me stessa.  Meglio il mistero, come un guanto che fascia la mano. Quali carezze potrebbe nascondere? Quanti baci su quelle dita? Il senso dell’indefinito ricopre tutto di una luce intrigante e le cose sembrano allungarsi, dilatarsi come ombre. Oggi sono come questi tacchi sulle pietrine di Napoli che lastricano la strada, in precario equilibrio. E a volte oscillare ti spaventa, mentre altre ti fa sentire così viva, inaspettatamente donna. Sono così diversa da non sapere neanche cosa effettivamente sia cambiato. So solo che si impara in fretta dalla vita, anche quando ti sembra troppo tardi.
Piovono rose, con tutte le loro spine, ma è bello…bello assai….anzi di più.

BUCO NERO

E così precipiti nella tua voglia di silenzio, che a volte è fatto di molte parole.  Vuoto di tutto, sassi nelle tasche, la voglia di lanciarli, dentro e contro il mare. Forte, fortissimo. Da piccoli andavamo a “pietrisciare”. “Vieni a pietrisciare con me” – la mia amica mi sorrideva. E sulla spiaggia di sassi, nei pomeriggi di settembre – quelli che sembrano infiniti, perchè il sole non tramonta mai, anche se tutto si riempie di ombre – parlavamo per ore. Sul mio mare il sole sorge solo, e ricopre la fatica dei campi e della sua gente, ma muore di spalle, sempre, inderogabilmente. E ci raccontavamo. E giri nella macchina. La sua vita a Roma, piena di sogni e di amori complicati. La mia vita ai tempi del colera, lo studio, il mio grande amore per lui, i miei conflitti con mia madre, i miei problemi con il cibo. Così siamo diventate amiche. Viaggi a Roma, in giro nella notte, musei e passeggiate, con la pioggia e con il sole. Andavamo a Villa Torlonia, sempre io e lei, mentre le altre stavano all’università. Una lunga storia di amicizia la nostra.  Di baci e di lacrime. Spezzatasi poi all’improvviso, perchè la vita divide. Anche allora molte parole e poco silenzio. Io sono così, vado via sempre preavviso, quando sento che è il tempo di farlo. Avevamo il compleanno nello stesso giorno. E per anni ci siamo fatte gli auguri. Adesso la incontro e ci salutiamo velocemente, ma con affetto. Lei sa, io so. Ci ritroviamo infilzate nel nostro passato per qualche istante. Siamo donne dure, apparentemente fragili, ma con il cuore fermo. Una volta per caso ci siamo viste. “Ti chiamo“. ““. Ed il pomeriggio dopo leggevo le sue lacrime silenziose e la sua voglia di parlare, di gridare tutto lo sdegno, la dignità e l’orgoglio ferito. Di fronte al dolore di altre donne, ma credo di tutti gli esseri umani, ognuno può solo rispettarlo, come si rispetta ciò che conta, con un abbraccio forte e sincero, spesso silenzioso. Adesso lei vive lontana, torna solo d’estate, come spesso fanno i figli di questa terra ingrata. Pensavo a lei, perchè ho pensato alle mie amiche, alle poche vere grandi amiche che ho avuto e che ho amato e che amo e che non smetterò mai di amare.  Alcune vicine, altre lontanissime. Cercavo, oggi, di capire se in me c’è del buono, e forse l’amicizia data e ricevuta, con gli eccessi di cui sono capace, è una cosa buona. Forse una delle poche. Io sono meglio negli errori. Perchè sono un’anima tormentata che riesce a ritrovarsi ed essere una, ed una sola, solo per qualche istante, nei suoi contrasti, quando le due parti si riavvicinano ancora. Prima di riprecipitare nella solitudine che non è oblìo. E neanche vuoto. Ma solo quella voglia sincera di nuove linee di orizzonti. Difficile da descrivere, perchè solo se la hai provata, sai di cosa si tratta. Si tratta di uno strano mood che a tratti diventa quasi solido, prende vita e corpo e ti riempie il respiro. La voglia di allontanarti, di non esistere, di ritrovarti altrove e migliore. Poi passa, perchè io sono meglio quando sono sbagliata, piuttosto che quando sono esatta. E mi piacerebbe che qualcuno sapesse capire, leggere, comprendere, trovare la parole sbagliata nella frase giusta, o forse la parole giusta nella frase sbagliata.
Quasi in quello ci fosse un autentico frammento di innocenza.

Ci sono sorrisi che per caso ti ribaltano la giornata. Ad angoli di strade, dallo specchietto, appena ti sfiorano, ma ti accendono. Vite lontane  calpestano l’asfalto, senza sosta. L’umanità si mescola di continuo. Si tocca, si intreccia, si racconta. Ed è forse questo il segreto della nostra semi-divinità, delle nostre ali imbrattate di sangue e di polvere, sempre a caccia di luce, per spegnere il buio che da dentro ci anima come una fiammella. E quei sorrisi spontanei, all’improvviso, lasciano una scia. Perché la bellezza è oltre la logica e si annida nello stupore. Mia nipote si rannicchia vicino a me, inaspettatamente. Il suo cuore da cerbiatto mi sbatte vicino. Ha gli occhi grandi, di quelli che sapranno contenere tanti sogni. A labbra nude, mi racconta dei suoi amici, di quello che le accade, solo perchè sa che io so capire quello che davvero vuole raccontarmi e che non sa spiegare tra imbarazzo e gioia. Ed io la ascolto ed un poco le spiego e le racconto i rudimenti dell’irrazionale sentire di noi donne. Amiamo e sentiamo sempre verso il futuro, come il nostro utero. Ma lei non lo sa, e non deve saperlo. Perchè adesso è il tempo di crescere, di cambiare, di provare. Piccole cicatrici le rivestiranno il cuore, e lo renderanno più bello e più vivo. Oltre le lacrime e le delusioni e le ferite, anche quelle sognate. Sarà sempre più bello. Perchè vivere con il cuore aperto significa vivere come virgulti di infinito, piccoli dei imperfetti. All’improvviso dorme con il sonno dei giusti o solo di chi voleva essere rassicurata e ancora una volta essere coperta dalla luce buona dell’affetto, da quella impronta che le altre non potranno cancellare, solo coprire. E ti capiterà piccola stella di ritrovare questo abbraccio, tra tanto tempo, forte come adesso, perchè è sincero, come il bene vero. Ed il bene vero lascia sempre una traccia anche se silenziosa ed invisibile.

ACNATS

Un tempo adoravo essere guardata. Sentivo i tuoi occhi sul collo, sulla schiena, vertebra per vertebra. Il tuo desiderio risuonare come monetine, una sopra l’altra. Mi bagnavo di assenza e gli occhi sulla mia pelle erano dita, matite, colori. Erano linee che si intrecciavano, come edera, come foglie di acanto, come radici, come sbuffi di nuvole, come sabbia che graffia.  Donna come la terra, mi sorprendevo a sentirmi vestita di primavere sconosciute e di mille bufere, tagli come aghi di pino nel vento, o cera calda ed impudica. Brucia il ricordo. Alcuni istanti ed è per sempre. E danno la misura del mio essere sbagliata, della perversione che mi tagliava i polsi, del delirio di cui cospargevo le labbra. Ma tu potevi solo immaginarlo. Supplice come una corolla mi piegavo nel vento. Sentire troppo e confuso era come non sentire. E smettere di essere. Ed è sempre stato strano il rapporto con le emozioni. Come prima di ogni apnea. Un salto nel vuoto, forse nel buio, in un nulla confortevole, dove smettere di farsi domande. Un tempo io adoravo essere guardata, quasi ti supplicavo di farlo, e di farlo ancora. Ma poi ho smesso. Mi sono voltata. Perché ho imparato a guardare nel buio. E come una gatta attraverso le mie notti. Le riempio di significati segreti, misteriosi, in attesa del nuovo giorno. E del suo divaricarsi nel suo incessante ed implacabile divenire.
La voglia di vita si annida inaspettata ovunque e ti sorprende. Rotola, scivola, lacrima, dopo lacrima. Come una collana di perle spezzata.
Una benda.
Una luna impiccata, tenera e sincera.
Ero quello.


CORSI E RICORSI…

Il dolore libera.  Ci sbatte contro di noi. Al margine estremo della nostra verità. Forse è quella la sagoma dei nostri sogni. O solo della nostra identità più sfacciata. Ombra e luce, buio e chiaro, fantasmi e vita nuova. Non mi sono mai sentita più piena di rosso del momento in cui ho osato. Era tutto rosso, rosso il fiato ed il mio sguardo, rossa la coscienza e la mente. A volte incroci passi e segni che ti riportano inaspettatamente indietro. Balzi in un tempo che è fatto solo di respiri. Dove non ci sono lancette. Una nota storta, spezzata, come il pane strappato per strada. Mia nonna lo raccoglieva e lo baciava. Memorie della sabbia e del sangue.  Adesso sono dentro, come strati di me stessa. Giugno è un mese che ho sempre amato. Mi fa pensare alla sabbia calda sull’asfalto. Ed alla salsedine sulle spalle.  Mi infilavo nel mare e sentivo solo l’acqua addosso, sulla schiena, ed il sole avanti, mentre bucavo il suo dorso. Il mese in cui ho vissuto le cose più belle della mia vita. In cui alcuni desideri segreti si sono avverati, quasi srotolati sotto il cuore. Sino a riempirmi l’anima, gli occhi e la bocca. Il mese in cui sono nata. E già li rivedo, tutti e due, con la loro bambina, cioè io, un poco imbranati ma così felici ed innamorati. Lo erano, sì che lo erano. Tutto questo mi fa sorridere e mi stringe il cuore, come una pinza.  Il dolore sminuzza, sfrangia, leviga. Sembra banale, ma rende forti. Mentre una amica ti racconta i suoi giorni, le leggi l’anima e senti. Una amica sente sempre oltre le parole. E raccoglie. E ricorda. Ricorda il bene. Il male riaffiora solo come sangue infetto e brucia come una ferita purulenta, come il fiato sul suo bordo. Ma è solo un vettore, di altro. Un gancio di qualcosa di irrisolto che cerca dannatamente la sua forma. Se per un attimo il vento spazzasse via tutto, resterebbe solo il bene. Ne sono sicura. Tu mi hai insegnato che parla più l’assenza che la presenza, andando via. Allora era giugno. Ed è per questo che io ho così paura di essere abbandonata. E le mie dita non smettono di cercare parole capaci di spiegare. Mentre sarebbe così facile limitarsi a respirare. Perché il vento del mondo in noi diventa fiato e poi vita.
Ho un nuovo segno.
Ed ogni segno è una battaglia.
Da vincere.
O già vinta.
Abbracciami senza parlarmi. E annusa tutto il silenzio di cui sono fatta. Perché in quello che non dico c’è più di me di quanto sia possibile immaginare. Sono fatta di dolore e di gioia. Forse in maniera non pari. Insolente ed ingorda la bellezza. Quasi come il mal di vivere.
Lati estremi dello stesso specchio.
Perché non mi guardi per davvero? Ho paura dei tuoi occhi.  Una paura tremenda, densa, corposa, quasi un pugno. Ma per un istante vorrei tu lo facessi. Come voglio tutto quello che so può farmi male, ma che è inevitabile. E faccio le cose anche se so che procureranno dolore. Agli altri ed a me. E le faccio, ostinatamente le faccio. Come se la solitudine e la verità siano la misura dell’essere se stessi. Perché ogni volta che rinneghiamo la vita, un pochino moriamo. I granelli si addensano e rotolano più veloci. E negli occhi degli altri ritroviamo un senso che non era smarrito ma solo dimenticato. E quel lato oscuro esiste e freme e si sporge e si lascia intravedere. Come il verme nella mela. Io non ho altro che questa mente. Eppure a volte vorrei saper mentire. Perché sono sincera con tutti. Tranne che con me stessa. E vorrei saper lasciare andare via tutti.
Adesso, raccontami una favola…sapessi che bisogno che ne ho…

STARE SPENTA…OGGI VOGLIO STARE SPENTA….

Ci sono giorni fatti di assenza, più di altri. Di vuoti che ti soffiano da dentro e ti riempiono la mente di bolle di sapone. Leggere e colorate. Mi invadono di tutta la leggerezza che vorresti. E tu desideri raccontarle, perché nei loro riflessi ci sei proprio tu, i tuoi slanci, la tua malinconia, feroce ma sincera. Te ne accorgi all’improvviso. E ti lasci inondare dalla solitudine. Come una donna marea, che lega e slega il suo cuore al mare e dimentica la riva ed ogni punto di contatto. Come se il fiato fosse una catena. Perché il mare non è un posto ma un modo di essere e di sentire.
E sarò mare in quel momento esatto, questo lo so.
Lo dice la fede immensa e profonda, come quella di una bambina che non sa smettere di sognare, eppure vorrei, quanto vorrei mordere pane e vorrei una speranza senza occhi, dove si può sentire il vento con le ciglia e con le labbra.
Il resto non lo comprendo, mi infastidisce, sembra una nenia senza fine. E quando non comprendo esercito una strana forma di crudeltà su me stessa, fino a negarmi ogni respiro. Frantumo facilmente i miei sogni, perché sono fatti di sangue, quasi sempre. Io sogno con le vene.
Quasi come un’arpa.
E respiro poco e male.  Senza sfumature di menzogna. Per quello ho smesso di osservare  ma mi limito a guardare.  Nella apparenza più placida. Mentre nessuno sa chi io sia davvero. Quante donne ci possano essere in me. Quante femmine furiosamente e selvaggiamente si sappiano avvicendare nella disarmonia dell’esistenza. Per non perdermi neanche un colore e non dimenticarne mai le loro sfumature e la loro capacità di vibrare, fuori e dentro di noi. Credo che sia quello il modo per poterli ricordare più a lungo. Di riuscire a fare della mia pelle un taccuino, pieno di fogli da riempire. Faccio il pieno di vita, da centellinare in solitudine.
Perché cerco una solitudine più grande che possa contenere anche la mia.
Senza sentirne i limiti ed i confini.
Senza urtarci contro.
Un modo semplice per essere sempre più complessa. O solo per accogliere come un dono, tutto quello che capita. Anche quando sembra dolore, difficile, duro, impietoso. Come se il segreto fosse nel far scorrere la vita, comunque. E adesso sta scorrendo. Vorrei descriverla ma non so farlo e non so se è giusto. Sarebbe come trattenerla e io non voglio.
Una conchiglia.
Un sasso.
Una stella.
Un modo per lasciare un piccolo segno di me.
Insieme alle mie parole, proprio là.
In fondo al mare.
Sto imparando ad accogliere i miei stati d’animo, come arrivano. Senza fuggire lontano da me stessa.
Perché io ho bisogno di me stessa.

venerdì 3 giugno 2016

La ragazza con la valigia

Un tempo viaggiare era il mio modo di sfiorare il mondo. E così mi sono riempita gli occhi di vita, vita per caso, vita voluta, desiderata, cercata, e spesso sfuggita. Ed è e resta una delle mie passioni. Viaggi e percorsi, dentro e fuori di me. Un viaggio inizia tanto tempo prima, mentre sogni un posto, le sue vie, i suoi tramonti, le sue chiese, i suoi musei, le sue piazze, o solo i suoi rami che toccano il cielo, o le sue pietre immemori, residui del tempo che fu, testimoni silenzio della storia, grondanti di secoli di tracce. Natura e tempo, tempo e spazio, e cibo e profumi. Il viaggio inizia mentre inciampi nell’idea di un luogo e lo carichi di curiosità e di una attesa piena di idee e di sentieri intimi o solo esteriori, ma comunque tuoi. Ci sei tu e sempre tu nel tuo viaggio, perchè è un momento in cui ti appartieni nella misura in cui ti sperimenti. Spesso arrivi in una meta e neanche sai per bene cosa vedere, ma tutto ti provoca una emozione che quasi “friccica”, ti fa battere il cuore, ti carica di desiderio di conoscenza, di scambio o di timori nuovi da scalare, di gare con il respiro, di ignoto in cui infilarti. Capita poi di restare incantati da piccoli particolari, insignificanti per gli altri. Piccoli dettagli che, all’improvviso, spalancano l’anima e spesso sono negli occhi della gente, nel loro sorriso, nel viso dei bambini, nel loro sguardo carico di innocenza o di sogni. Pezzi di oriente sfuso conficcati nella memoria. Di mondi inversi in cui splendono le stesse stelle, sotto un cielo caldo caldo, da sembrare quasi morbido come una coperta. In fondo il cielo è la coperta sulla notte del mondo.  E le ore si ribaltano. E gli odori ti attraversano, ricoprono tutto, anche la memoria. E ti rivedi allora, diversa, forse felice, serena. Così maledettamente innocente. Quante stelle dovrò ancora sminuzzare per ritrovare tutto questo? Quella sensazione di nuovo e fresco? Quella voglia di aria pulita e sincera? E per riempirmi di nuovi passi e di nuove impronte?