martedì 29 marzo 2016

la voce delle conchiglie

Umidi i ricordi, come frammenti di lacrime. Quel che resta del mio giorno sa di ferma nostalgia. E un morso esatto al destino ha mancato ancora le mie labbra. Annuso i miei polsi. Mi fa sentire donna, inesatta ma sincera, ed un poco meno sola. E quando mi sento sola, inaspettatamente ardo. E distruggo. E poi contemplo il fuoco e la sua forza. Ne vorrei anche io. Stasera sì. Avrei bisogno di sentirmi le ossa più vicine. Intorno all’anima a farle da capanna.  Unite al mio respiro. Il fruscio di una gonna riesce a distrarmi. A volte la seta sa essere così persuasiva. Davanti allo specchio. Disegno i miei occhi. Tratti indecisi e ciglia invisibili, come tende discrete. Ho imparato a guardare il mondo negli occhi, da qualche tempo.  E la vita. La mia, quella degli altri, i frammenti di infinito che ci capitano. Stasera ho molti pensieri variegati al pistacchio. E li centellino sotto la lingua. Occhi schiusi sull’ignoto. Un poco mi piace, un poco no. E comunque non puoi farci nulla. Se la sagoma dei tuoi sogni stride sempre troppo sulle tue vene e le trasforma in arpe voraci.
Solo l’acqua cancella.
Nel buio.
La lasci scorrere.
E sento, oltre la tenda, la mano ignota del destino che fende il buio.
Al margine pericoloso della mia pelle.
La lama scintilla.
Avverto.
Sospiro.
E lascio gocciolarmi addosso un terrore inverecondo.
Non ora.
Non adesso.
Non ho ancora imparato per davvero a tremare.
Prima o poi ci riuscirò.
  
L’odore del mare. La voce delle conchiglie. La loro storia. Nel gomito. Il profumo delle loro vite. Sotto i polpastrelli. Storie di donne, della scia dei loro scialli, fatti di sogni frantumati, dei graffi sulla sabbia, delle orme smangiate dal mare. Del pane impastato e morso. E della brezza che annega le loro paure. Le fa tremare e poi le disperse. Ma torneranno, come sussurri. Nei tramonti più segreti ed intimi in cui affondano. Una piccola delusione. Notti, come un sasso.  Un pugno nella pancia. La verità sulla mia gola. In equilibrio precario. Fragili soffi che si confondono nell’aria.  Respiro attese. Deve esserci un senso nella voglia di fare del male. Forse incauto. Forse ignaro. Forse solo troppo pregno dell’idea di se.  Un egoismo cieco ed asfittico. Una stedera e le sue oscillazioni, segnano il tempo, prima di sentire le ginocchia sbucciate. Ed il sangue sulla sabbia.  E la sabbia sulla ferita.  Ed un nuovo giro di vento, come una collana al collo.  Anelli di sogni. Forse baci. Su quella nudità che non sa che essere sincera. Non può anche se non vorrebbe.  La spezza la disillusione. Forse ossessione. O solo abitudine al dolore. Ma non ne capisco il senso. Non sarebbe più semplice provare a volersi bene? A lasciarsi andare senza zavorre. Con nuove consapevolezze. Ed emozioni segrete. L’odore del mare liscia e leviga. Raramente mente. E io non lo faccio mai con chi conta per me. E con chi ha contato. Bisogna volersi bene anche da lontano. Lo pensavo. Ora no. Sono stanca. Voglio un rettangolo di serenità. Tutto turchino. Dove essere me stessa. E fuori il resto. Non rinnego ma voglio stringere le mie emozioni. Come da la terra con le radici.  E poi calma. Perché la tranquillità è la lavagna dei sogni.
La gente, la mia gente, ha gli occhi rigati dalla salsedine. Piegati verso il cielo. E la pelle bruciata. Quando accarezza lo fa con i palmi aperti. Senza paura.Anche se poi morderà vento. Una specie di fame atavica. E sopporta le delusioni. Come pane e acqua. Al primo morso. Perché è destinata a questo. E brucia il sale su ogni ferita, come una medicina della terra. Brucia e consola poco e molto male. Perché la fame resta asciutta e profonda. Una corda verso l’inferno. Una fede che non smentisce il calore della terra. Solo chi ci ha camminato scalzo lo riconosce, perché ha affondato quel dolore nella memoria della carne.
E brucia una lacrima.
Riga la pelle, sino a piegarsi all’angolo della bocca.
Segna un sentiero segreto.
Come una freccia verso il cuore, fino alle viscere.
Ogni conchiglia ricorda da dove vengono le onde.
E dove fanno ritorno.
Ed al loro posto, a volte, un senso di estraneità.
Che fa tanta compagnia.
Come la assenza.
Chi morde il pane per primo?
 

martedì 22 marzo 2016

A volte mi sembra di sentire chi tu sia. Come se fosse una intuizione, o un fazzoletto, estratto dalla tasca del destino, o forse del caso, che a volte è lo stesso. Altre no. Perché la luce è una strana ed immaginifica forma di comunicazione. E sento gli altri. Anche ad occhi chiusi. La loro energia si impatta con la mia mente. Ne percepisco la forma, inesatta ma sincera. E quando succede tutto questo mi inebria. Sangue che si rincorre. Come se la mia anima fosse sotto i polpastrelli. E tra le vene, e le mie dita maldestre, incaute, ma sommamente curiose, ed a volte furiose, perché prese da una strana avidità di vita e di verità, riuscissero a raccogliere la mappa dell’anima, come se potessero e riuscissero, una volta almeno ad essere coppa, coppa dei sensi. Di quella indefinibile propagazione della nostra essenza. Perché a volte l’anima è sulle labbra, tra le ciglia, sul tuo gomito, tra le dita, nei tuoi umori, nei fremiti deliziosi del tuo sesso. Lungo il collo. Capita che l’anima si sfrangi e si dipani tra i sensi, macchiandoli di emozioni, più o meno candide, e righi la carne. Qualcuno lo chiama piacere. Ma ha un significato molto più semplice.  O capita che la carne impregni l’anima, si espanda intorno, dentro. Non so come funzioni precisamente. E allora senti con i polsi, con il fiato, sulla lingua. Fino a toccarti profondamente mentre precipiti nella deriva di un tuo orgasmo, come da una rupe ignota che si imbatte in altro spazio immemore ed sconosciuto. E ti attraversi tutta, frantumandoti. Per ritrovarti poi su una nuova riva. In una silenzio sazio, ma solo per un istante. Perché poi hai fame ancora. Ed è turgida e candida fame di vita. Ma vivere non è come respirare. Vivere può essere una preghiera.
Siamo albe voraci.
In attesa della notte.
E di un nuovo respiro.
E mentre senti gli altri, noti ignoti, pensi a chi tu sia.
Io mi sento spesso una nuvola. A volte una foglia. Altre un filo in precario equilibrio, che si tende e si sottende, più teso di un arco, come il desiderio solo sa. Ed altre ancora un frammento ignoto, incapace di incastrarsi nel posto giusto. Quasi a caccia di identità. Indegnamente astratta. Nella frazione di istante in cui si può essere tutto o nulla. O solo una sfumatura di colore. Quelli che sento. E che infilzano al destino la mia essenza. Sporca o candida. Sincera o bugiarda. Crudele o dolcissima. Ignorante, perché ignoro e poi non so, o so male. A volte l’arancio si sfalda nel calore della terra e si dilata. Come nell’attesa di saper accogliere. A volte il mio indaco si mescola al più inverecondo e sfacciato rosso e si placa per rovesciarsi nella sabbia. A caccia di un calore che sappia essere una culla o una capanna. Altre l’azzurro precipita nel mio tormento, e lo squarcia e lo diffonde, e respiro blu, scuro, sozzo, oppressivo, quello che non so spiegare, e che oscilla nel mare calmo e nero della sera. E là non esisto. E non so condividere. Forse non lo so fare mai. E quei colori sono solo la voce di una donna che non sa urlare. E si striscia contro la vita e striscia la sua vita a caccia del senso esatto e, più impuramente casto e veritiero, del suo sangue.
E non sa mentire.
Tranne che a se stessa.
Un sasso, un altro, una piccola fila irregolare, una serpentina, una linea incerta, quasi fossero i passi del mare, lungo la battigia, orme sprofondate, di un vecchio stanco che lascia la sua coda di spuma, si spoglia del suo manto regale e si ritrova in una notte qualunque e guardare l’orizzonte perso come una riga tremula, oltre l’ignoto. E riflette sotto la luna. E liscia la rena, con pensieri e sassi. Senza parole. Orme di pietra mute, segnate e levigate dalla salsedine. Potrei morirci nell’odore del mare. Al solo pensiero mi trema il cuore. Tutti i miei ricordi più belli e tutti quelli più brutti sono fatti di mare. Mi sentivo così ieri sera, sola e bagnata dai pensieri, orfana di bene e di male, nuda di passato e futuro, con la tasca piena di graffi e la luce buona delle stelle sulla fronte, sulle braccia, sulle labbra. Le ho protese e ho soffiato via ogni sogno effimero e le ho schiuse per lasciarmi invadere da un vento sconosciuto. Lo ho tenuto contro il fiato, mare contro mare. Si cambia in un istante, dopo che per una serie indefinita di momenti, tanti da non saperli contare, si è stati infedelmente uguali a se stessi. E si diventa diversi.
Oggi sono una io che non avrei voluto, ma che sto abbracciando con tutta me stessa, protesa sul bordo di una notte qualsiasi. Nei miei occhi niente più stelle ma piccoli pozzi verso il futuro, ignoti ma sinceri.
Non so smettere di non mentire.
Imparerò dopo.
Forse domani.

venerdì 18 marzo 2016

Le torri, a grattare il cielo. Come dita dell’uomo che si innalzano verso l’infinito. Ed il ponte sospeso nel vuoto. Il vento e la musica. La musica ed il vento. Un sorso ed un sorriso. La voglia di andare ancora via. E l’odore dell’oriente, quello che ti invade la pelle, in alcune città, e te lo ritrovi dopo all’improvviso nel gomito, tra le dita, sui polsi, sulle caviglie. Nel palmo della mano. Ti lascia una nostalgia che si può comprendere solo se ci sei stato in alcuni posti. A quei tempi eri con me nel mio zainetto azzurro. E giravo la città e ti cercavo nella mente e nelle cose che vedevo, che tiravo a memoria, e che pensavo ti avrei raccontato al ritorno. Dopo di quel viaggio ho smesso di fotografare i luoghi. E di pensare cosa avrei raccontato dei luoghi al mio ritorno. E da allora mi limito a raccontare ed a ricordare a me stessa ciò che sento bello e profondamente mio. E così sento più che posso, e mi sporgo ad osservare, ad allargare gli occhi, per raccoglierci e trattenere tutto. Dettagli di una vita lontana, di tante vite lontane, che si riversano, come per incanto, nella tua. E poi quello che ti spacca l’anima sono gli sguardi ed i sorrisi che incroci per le strade. Sconosciuti che non rivedrai più ma che ti sono brillati negli occhi. K.L., dopo tanti anni, era diversa ma ancora lucente, e si stiracchia verso il cielo, con l’odore della foresta ovunque, e della polvere e del calore della vita. Una piccola tappa, verso un viaggio diverso, comunque e sempre. Mi è tornata in mente, anche adesso che ho dismesso quello zaino. All’improvviso gli si è aperta una voragine.  Ma continuo a fare le cose a modo mio. E scrivo ai bordi dei libri che leggo. Qualcuno ci ride dietro a questa strana abitudine di sporcare tutto con i miei pensieri. Anche i bordi ruvidi delle pagine. In fondo, lo fanno tutti gli incoerenti come me. Quando hanno la coerenza di restare incoerenti. Perché non sanno mai quale sia il posto giusto per loro. E credo sia un modo per non appartenersi mai e per non appartenere mai a nessuno. Così allontanandosi continuamente da sé. Perché ci si accorge di essere la sagoma troppo stretta dei propri sogni.
Torno a casa, con meno sogni, perché sul mio sedile ho fatto posto a me stessa.
E la sensazione che chi non mi ha conosciuto mi abbia capita veramente.
Buio e luce sono figli del sole.
Oltre l’azzurro ancora azzurro. Sempre di più. Un orizzonte incerto su una linea  Il mare caldo e l’acqua sulla pelle mentre la luna si affaccia e si rispecchia. La voglia di essere onda, e respirare ancora e sempre e poi ancora mare. Sono fatta di mare, tutti lo siamo, oltre ogni più placida convinzione. Respiro ed alterno maree, e a volte inquietudine. E la mia pelle è piena di segni e di impronte. Soffio sulla sabbia ed un granchio fugge spaventato, incontro al mare ed alla spuma, la stessa che lo fa rotolare. Il vento quando ha appena sfiorato il mare ha una magia irresistibile. Più dolce e struggente di una carezza. Io lo lascio fare, oltre le paure di questa mia pelle di donna strana. Conto i miei brividi e li lascio sciogliere nel vento, sempre più intenso. Da bambina ero abituata a dormire con il rumore del mare nelle orecchie. E nelle notti d’estate, restavo di fronte al mare, con mio padre. Parlavamo di tutto, dei progetti, del suo lavoro, di quello che avrei fatto io. Un padre ed una figlia, forse una lettera unica, una lettera blu, come il cielo, se ci penso potrebbe essere la A, di amore, di amicizia, di aiuto, di ancora. Di anche, di alba, di adessochenonciseipiùètuttodifficilemailtuopensieroèquelvento. Esattamente il vento che ritrovo nei posti che mi incantano. E mi restituiscono la scia di protezione che solo la sua idea mi ha lasciato, come un monito, un gancio, un graffio, un segno intorno al polso. Il filo di un palloncino immaginario per cui non smetterò mai di sentirmi una bimba. La bimba che è dentro di me, fiera di aver attraversato le mie e le sue notti vicini vicini. A come abbraccio infinito. Il suo a me, a quello che sono, una donna difficile. Ed è difficile avvicinarsi e poi restare e a volte anche allontanarsi, perché no? A come adesso. E poi chi lo sa? Ancora piena di sogni. E con i passi incerti, ma con una spaventosa voglia di camminare. Anche stanotte la luna oscilla piano nel mio cielo. Domani non sarà altro come domani. A come altro giorno. A Tioman eri già andato via.
L’anima come una vela solitaria.
E la mia tribù di formiche ancora non smette di raccogliere molliche.
E quel sentisi diversa ma terribilmente uguale. Il prato che esplode. L’incomparabile senso di meraviglia della primavera, nel suo acerbo ed incompiuto divenire. Un gattino miagola e graffia la corteccia, finchè può, finchè gli riesce. Davanti l’odore del sale, nel tramonto della mia terra, mentre il vento lascia ondeggiare le foglie indecise nel suo tepore, amico, nemico, forse sconosciuto. Una musica. “Hai passioni pericolose fanciulla“. E ti riempivo le orecchie con la mia musica, quella dei miei momenti strani, un poco tristi ed un poco dolci. In quei momenti nessuno dovrebbe  guardarmi mai negli occhi, perchè ho pozzi di solitudine discinta e vorace ed è una condizione in cui mi piace perdermi da sola. “Pericolose ma irresistibili” – avrei aggiunto io. Quello che ci riempie è il bisogno e la aspirazione alla bellezza che tutto eleva e che reseca il respiro. In attesa di implodere in una emozione. Quasi ad infilarsi nella carne. Il corpo è una capanna. Fragile nella tormenta. E brividi come un muro contro tutta la indifferenza in cui si imbattiamo. Un promemoria verso l’indefinito, la complicazione più ovvia della paura. A piedi nudi sulla pietra, nel calore della lontananza. Una volta un bambino mi ha mostrato le stelle con le sue dita sincere. Erano le stesse che avrei visto poi da casa, sembrava dirmi. Un modo bellissimo di dirmi addio, per salutarmi. Con gli occhi negli occhi. Dove si concentra la voglia di bene, a ridosso delle pupille. Là guardano davvero in pochi.  E i colori si livellano in strati. E tra le pietre, il segno implacabile del tempo. Immerso tra i graffi della foresta. E la paura di fidarsi. E la voglia feroce di infilare distanza da tutto ciò che accade. Non sentire. E morire per rinascere. Come se ci fosse sempre bisogno di una conferma della propria imperfezione. La traccia della nostra fallace umanità. Sono donna ma non sempre. E mi assento dalla vita, quanto basta per dimenticare. Un promemoria nelle mie mani. Sì. La prossima volta devo ricordare di nascere ancora migliore.
Senza questa maledetta voglia di parole sincere.
E lacrime che si infilano come perle di una collana segreta.
L’anima dentro una clessidra.
Granellino dopo granellino.

Deep. Deep fishing. Annego nel mio sangue. Ad ogni respiro più a fondo. Pochi ricordi ma solo fiato. Lieve lieve, quasi un sospiro. “Tienimi al polso come un palloncino“.  Il vento saprà fare il resto. La vita si mescola alle vite degli altri. Respiri su respiri. E lievi aure che si sfiorano. Archi che si piegano, solo nel desiderio di vita, di frammenti di gioia, di scintille che facciano poco calore. E buchino il buio. Squarci su questa pelle, dove tutto lascia un segno. Tutto sembra scorrere ma ad ogni lieve impatto tutto si piega e devia. Come biglie lanciate nel buio. L’oscillazione è la misura del percorso. Ma la traiettoria è candidamente ignota. L’orgoglio pulsa. La macchia affonda in sé e si slarga.  E percepisco ogni piccola variazione e tutto oscilla. Con questi occhi tutto è più facile. E vorrei saperlo raccontare quanta vita c’è ad ogni tremito. Ad ogni brivido spezzato. Io sento e sento le cose che si stemperano. Ogni sfumatura fa male. Ma non so lasciarla andare. Basterebbe aprire la mano. E dimenticare le mie dita. Come nel Legong. Quando le mani hanno una anima tutta loro, sottile ma profonda, come una lama, che sfugge alla mente. E le dita disegnano, accarezzano, affondano nel vuoto.  Oggi è, questo sì è,  un altro frammento di tempo che mi scorre fino in gola. Come una medicina, più di una medicina. Respiro la mia vita mentre lo sento scorrere piano e mischiarsi al sangue. Hai mai visto il mondo tra due tende? Non ne ricordi neanche il colore. A volte quell’odore ti torna all’improvviso.  Senti solo il tuo dolore, il tuo essere indegna. Ed è tutto così sfuocato da sembrare bellissimo, tra le lacrime e le tue esitazioni. Sì. No. Forse. Domani. Poi. E gli puoi dare la forma che vuoi, anche quella del futuro, forse di un fiore. Da piccola mi piaceva imparare i nomi dei fiori. Sfogliavo i libri di mia nonna. Per poterli ritrovare un giorno in un prato. Li sto ancora cercando. E non so smettere. Perché non ne voglio mancare neanche uno.  Adesso la mano è aperta. Corsi e ricorsi storici. Non so spiegare ma vorrei sapere dire che la mia pelle ha già compreso. E anche la mia anima. Ognuno ha diritto di non smettere di sognare un prato. Tutto suo. Un luogo speciale. E i sogni sono libertà. E il vento ancora leviga le mie dita, perché sono nude, come i miei petali.
Il mare ovunque ed il mare dentro. Ti consente voli immensi. Varchi soglie. Spingi la mente. Un cielo liquido. Nel mare versi le tue parole, come bottiglie alla deriva. Le mie non so quali spiagge sapranno raggiungere, quali sponde toccare, quali flutti superare. Quali conchiglie baciare. Forse si limiteranno a colare a picco, come barchette tremule nella tempesta. O si limiteranno a galleggiare, annasperanno, e con fatica spaccheranno i flutti. Li fenderanno. Oppure dovranno sperare con il dorso sull’acqua, sotto una coperta fitta di stelle. Parole che sapranno resistere. Andare oltre ogni più plausibile intenzione. In una direzione nuova. Ignota. Nell’ignoto c’è un mare di possibilità. Mille e uno modi di poter essere. Diversamente noi. Piccoli Dei con il sangue nelle vene. Ed i piedi in un cielo qualsiasi. Parole che ci gonfieranno di silenzi. Quanto vorrei sapermi educare al silenzio, quello sapio e pregno, quello che non chiede, che non spiega.  E non si piega. E che sa dare la misura di una dimensione e della forza, quella vera di ognuno di noi.  Sicuramente non esatta, né perfetta. Siamo divinità imperfette.
Con una pietra al centro.
Un cuore di pietra sa sentire.
Fermo in quel suo raro pulsare.
Vero ed unico.
A volte la forza ha una tenerezza speciale in sè.
Non ho paura delle pietre.
Quella verità vorrei saperla dire.
A volte ci provo.
A volte la urlo, muta.
E nel frattempo liscio il dorso di una pietra,
su questa spiaggia, così amica, così estranea,
davanti a questo blu,
che mi ha vista immensamente felice.
Da non sapere come iniziare a raccontare la storia.
Quella di cui conosci la fine.
Ammiro di ha la certezza inscalfibile del proprio sentire.
Io non ho certezza, se non le mie pietre da lisciare.
Ci sono stata davvero una notte sul fiume, oscillando nella sua corrente. Lieve, morbida, quasi infida. E non è un modo di dire, o di trasformare le emozioni in parole – che poi quello è un tentativo che facciamo spesso. No. Una notte, ho davvero dormito sotto le stelle, nel silenzio della notte, con il mio respiro, come compagno, più o meno fidato. Ed adesso è difficile trasformare in parole quello che sul corpo impresse quella notte, quel momento, o forse fu tutto così lieve, come solo la magia sa essere e quella notte non è accaduta davvero. E io ero solo un’altra me, spersa in una dimensione che adesso non esiste più. Ed anche quel tempo fu fatto di alternanza, perché all’improvviso si aprii sotto di me il senso e la idea fagocitante di un vuoto buio, che tutto ingoia e che tutto divora, e che un poco dilania ed un poco restituisce, appena più forte, ma non molto. Il dolore sa levigare, sa ascoltare le tue vene e sugge parte di te, quasi fosse un debito confuso con l’universo. Ho uno strano patto con la vita, e non so esigere la mia prestazione. Come se il sinallagma fosse viziato e corrotto, da restare sempre squilibrata, e con una immensa fame di dolore. E tutto quel dolore non fa di me una vittima – no, assolutamente – ma la carnefice più vicina a me stessa ed alla mia mente. Ed in quei momenti, contemplo immobile la vita. Vorrei solo non esistere e contare per sentire la distanza tra me e gli altri, ed infilarci passi. Perché in quel percorso potessi dimenticare e rinascere magari tra mille anni ed ad un’altra vita. Su un’altra sponda di un nuovo fiume.
E guardo chi sa e chi non sa.
E li sento sempre maledettamente estranei.
Incauti spettatori.
E tutto questo ha una oscenità che potrei nascondere solo spogliandomi.
Ma resta la sensazione che quello sia il modo, quello mio, del non saper sedurre.
Svuotarmi come una marea e nascondere la donna.
Sotto, sotto, più a fondo.
E non esistere se non nei miei ricordi più pallidi.
Quasi di luna di carne.
E la sua voce un filo.
Alcune cose sono così sfacciatamente illogiche. Tutto sembra puro, liscio, lineare, come la traiettoria di una freccia scagliata contro il cielo. E quelle cose maldestramente si intrecciano in finte promesse, in atti di una strana fede e in parole genuflesse. E vorrei non saper e dover spiegare quel senso di confusione, gonfio come un palloncino, che mi lascia sospesa e confusa, oltre le parole, oltre le sensazioni, oltre tutte le emozioni, che credevo avessero un senso. Piccole delusioni che si addensano come grumi, su una ferita più grande, e non sai più medicarti, né lo vuoi, tanto sei e resti solo carne, come i segni che porti addosso. E nulla è come l’istante prima, perché gli altri non sono come li sogni, come li avresti voluti, come se nessuno capisse per davvero quello di cui hai bisogno. E sai che non è giusto e che stai commettendo una violenza, che stai ferendo l’anima altrui, come la peggiore delle egoiste. Ma vorresti anche che nessuno ferisse te. E la bimba che è nel tuo grembo inespressa urta con tutta se stessa contro il disincanto, come contro un vetro, ed ogni ferita lascia un livido, su un livido precedente, alone su alone, su un margine che sta per guarire. E vorresti solo che nessuno si avvicinasse più alla tua pelle. Proprio in quell’istante dopo, mentre il tuo desiderio è un palloncino esploso e tu un frammento dissolto in una galassia lontana. Non sei una stella e non lo sarai mai. E non bastano tutte le parole, tutti i tuoi brividi, tutto quello che ti ha accarezzato l’anima, tutto scompare e resti solo tu, e il tuo sogno infranto, come se una virgola di troppo ti avesse lasciata inciampare in una storia sbagliata. In un bosco sconosciuto.  Perché sai che in quella curiosità morbosa c’è il germe di tutto il dolore ancora a venire, quando capirai improvvisamente che le tue sensazioni non ti hanno mai tradito. Ma che sei tu che ti rinneghi ogni volta che uccidi i tuoi sogni. E se qualcuno non capisce che in quelle sbavature c’è il senso del tutto, devi voltarti, puoi solo scappare.. Lo devi a te stessa. Succede l’attimo dopo.
La fiducia si frantuma, come il cuore della bimba contro quel vetro.
E tu sei intrappolata in quell’urto.
Imbottita di paure.
Il coltello sul tagliere. La lama nella polpa fresca. Il frutto che si apre, mentre verso l’olio.  Mi lecco le dita. Il pane fresco. Meravigliosamente caldo. La seduzione meravigliosa del cibo. L’acqua bolle. Ed il vapore sa di tempo lontano, dolcissimo e pieno di respiri. E fiati. Tanti, troppi. Tutti insieme. I libri sulla cassapanca. Ed il telefono con il lucchetto. Le braccia di mio padre che cingono i fianchi di mia madre. Una delle poche scene intime che gli siano sfuggite. Forse un bacio sul collo. Li avrei guardati per ore, se non fosse durato un secondo. Io e mio fratello e la battaglia delle briciole. E le forchette che rimbalzano. “Scusa”. Ed una, due, tre smorfie. Odiavo il pane da affettare. E bucavo michette. Dei trafori nella scorza. Solo per strappare la mollica. E poi l’origano appeso fuori. Mi prude il naso solo a pensarci. La lama ancora a fondo. L’odore della cipolla rossa. La pasta è cotta. “Assaggiala se è giusta di sale”. “Dio che schifo, se non ci metti il sugo”. E poi mangiare, quasi come amarsi. Mangiare tutti insieme. E parlarsi, anche se le cose sono quelle di sempre. Morsi intorno alla tovaglia a quadri rossa, da riporre dopo averla ripulita fuori. Tanto poi i passerotti avrebbero fatto il ripasso.
Il coltello è ancora là.
Nella memoria.
La televisione ancora accesa.
“A tavola!”.
Noi siamo pezzetti di infinito.
Non siamo carne.
Non siamo ossa.
Siamo luce.
“…Between what is said and not meant, and what is meant and not said, most of love is lost..”
Ci sono giorni che non saranno mai più come gli altri. Sono solo sassolini nella memoria, perché l'assenza si sedimenta istante, dopo istante, sin da quando ti rendi conto che nulla sarà come prima, e diventi la madre ed il padre di tua madre e di tuo padre. Non puoi non abbracciarli anche se non ci sono. Una corsa leggera ma forte verso il cielo o verso le viscere della terra e la sua voce, profonda e sincera, come un tuono o come un ruscello, che ti ricorda, lo ricorda al tuo sangue, tutto l'amore dato e ricevuto e poi dato ancora. Quasi una valanga. Certi giorni non saranno mai più come gli altri. Ed oggi un sassolino, un fiore e una nuvola, te lo dicono ancora. Domani sarà domani, con un pezzetto in più, ma dentro. Perché la vita toglie, toglie e toglie ancora, e mentre lo fa ti sembra insopportabile, come se ci fosse un credito di amore mai esatto.  Ma poi, come in un circolo, perché il nostro cuore è un cerchio, una ruota, al posto della assenza, ti accorgi che c'è un seme e quel fiore esplode in te all'improvviso, come altro dolore, come consapevolezza, come nuova forza, come coraggio, O anche solo come triste nostaglia.
T.a.

Ora ci provo a spiegartelo. Immagina i miei occhi che ti stanno fissando. E le mie labbra che senza voce ti stanno parlando. Si muovono senza tempo e non smettono di guardarti il viso, la bocca fatta di corallo, gli occhi come due lame profonde, le ciglia fitte. Gli occhi ti guardano ancora e seguono il contorno delle tue labbra, come se ti stessero baciando. A volte succede, si chiede alla vita di prestargli degli angoli speciali ed accade. Si incastrano degli istanti a vite che non gli appartengono, o che forse gli appartengono in modo unico, raro, diverso. Ed in quella diversità c’è qualcosa che vita non è ma che ne ha una immensa dignità. Una profondità tra gole di anima e di sangue. E così ho pensato di dirtelo, volevo dirtelo, devi saperlo. Quando succede, quando una donna si raggiunge fino in fondo a se stessa, si sente una stella, fatta di una luce inspiegabile, morbida, che smette ti roteare e si contempla. Come se la sua anima, la sua carne, il suo sangue  di stella, si fossero toccati. Ed è un viaggio che lascia sospesi. E senti le mani dell’altro che ti lasciano andare, senza timore, solo perché in quell’istante si è smesso di avere paura. Ti è esplosa una strana e feroce tenerezza. E poi una assenza, un vuoto fecondo ed immemore. La tua pelle, l’attimo dopo, è un campo di papaveri, una distesa di girasoli, una tempesta di farfalle. E i tuoi brividi, come in un cerchio, ma magico per davvero, chiedono e richiedono l’altra pelle, per lisciarsi, per mescolarsi. Per avere meno freddo, prima che il viaggio finisca ancora. Senza sapere che riprenderà. Ma con la consapevolezza della immensa bellezza del respiro di quella sosta. Come viandanti che per caso raccolgono una rosa.
Se chiudi gli occhi i miei brividi sono ancora sulla tua pelle.
Te li ho donati.
Ma donare non richiede tutto
il coraggio
che richiede il
ricevere.
Ed una notte, non so più quando, ho inseguito le mie orme sulla spiaggia. Ad ogni impronta la sabbia si illuminava. Come se fossi magica. E non smettevo di rincorrere le onde. Un poco nuvola ed un poco donna.  Senza una forma, facendo l’amore con il vento, lasciandogli accarezzare la mia intimità, quella più sfacciata e recondita. E nel buio io ti ho trovato, oltre la sagoma di quei passi. Senza preoccuparmi più del colore del cielo. Lo scoprivo sulla tua pelle, come una mappa color indaco. Una nuvola impudica, che ti si infila nelle testa e soffia il suo odore. Senza ritegno. A piedi nudi sul mondo. Una nuvola femmina che si apre dentro il cielo, in atteso della pioggia, con la voglia di penetrare la terra.  Carte sparse ed un usignolo dentro l’anima. Quello che vorrei dire è che in alcuni istanti, tutto diventa lievissimo e ho solo voglia di riderti nelle orecchie.
Ed ogni risatina è l’eco dei miei baci.
Un sassolino che rotola e rotola.
E poi un chicco di grano, nella terra.
Non ti muovere.
Cibarti – cibarmi…come un delirio.
E il mare che ci ingoia e i nostri nomi astratti ardono.
Come non amare le nuvole?
Un mare così morbido non lo ricordo.  Non lo ho più sentito così amico, come un abbraccio. La spiaggia ferma ed il sole lieve, lievissimo. Avevo solo sogni negli occhi, ed una promessa, nella mente. Ancora lo ricordo l’odore della notte in quel vicolo. Tra sangria e sorrisi. E la vita intorno. Una fetta di arancia tra le labbra. A suggere quella leggera euforia e sentirla colare lieve, in rivoli spensierati, mentre un gatto miagolava e due ragazze oscillavano sui tacchi rossi, quasi davanti alla mia testa. Una margherita ed in suoi petali sul tavolino instabile. E poi la piazza ed il fiume asciutto. Il suo letto vuoto e la musica lontana. Le stelle sono le stesse ovunque, solo che si ribaltano. O forse ci ribaltiamo noi, ci spostiamo, ci incliniamo, come quando camminiamo con i piedi per aria. Senza una regola. Magari da qualche parte c’è un prato che fa da cielo al cielo. E i fiori crescono a testa in giù. Sono solo schiocchi frammenti di una serata libera, veramente libera, da regole e pensieri, forme, convenzioni, da segni e persino da sogni.
In cui come una creatura mi limito a percepire il mondo.
In attesa di tornare a sentire il sangue.
La gocciolina impenitente dalle labbra al cuore.
Segna il percorso.
Sono una donna con il cuore sperso e sparso tra i sensi ed il senso del domani.
Poi non conta cosa accadrà.
Ma adesso sono mia.
Neutra come l’aria che impatta il mondo.
L’attesa è una macchia che inebria e si apre.
E la musica non posso descriverla perché è tutta dentro la mia mente.