Ci sono stata davvero una notte sul fiume, oscillando nella sua corrente. Lieve, morbida, quasi infida. E non è un modo di dire, o di trasformare le emozioni in parole – che poi quello è un tentativo che facciamo spesso. No. Una notte, ho davvero dormito sotto le stelle, nel silenzio della notte, con il mio respiro, come compagno, più o meno fidato. Ed adesso è difficile trasformare in parole quello che sul corpo impresse quella notte, quel momento, o forse fu tutto così lieve, come solo la magia sa essere e quella notte non è accaduta davvero. E io ero solo un’altra me, spersa in una dimensione che adesso non esiste più. Ed anche quel tempo fu fatto di alternanza, perché all’improvviso si aprii sotto di me il senso e la idea fagocitante di un vuoto buio, che tutto ingoia e che tutto divora, e che un poco dilania ed un poco restituisce, appena più forte, ma non molto. Il dolore sa levigare, sa ascoltare le tue vene e sugge parte di te, quasi fosse un debito confuso con l’universo. Ho uno strano patto con la vita, e non so esigere la mia prestazione. Come se il sinallagma fosse viziato e corrotto, da restare sempre squilibrata, e con una immensa fame di dolore. E tutto quel dolore non fa di me una vittima – no, assolutamente – ma la carnefice più vicina a me stessa ed alla mia mente. Ed in quei momenti, contemplo immobile la vita. Vorrei solo non esistere e contare per sentire la distanza tra me e gli altri, ed infilarci passi. Perché in quel percorso potessi dimenticare e rinascere magari tra mille anni ed ad un’altra vita. Su un’altra sponda di un nuovo fiume.
E guardo chi sa e chi non sa.
E li sento sempre maledettamente estranei.
Incauti spettatori.
E tutto questo ha una oscenità che potrei nascondere solo spogliandomi.
Ma resta la sensazione che quello sia il modo, quello mio, del non saper sedurre.
Svuotarmi come una marea e nascondere la donna.
Sotto, sotto, più a fondo.
E non esistere se non nei miei ricordi più pallidi.
Quasi di luna di carne.
E la sua voce un filo.
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