domenica 14 aprile 2013

In quel mescolarmi e ritrovarmi c'era un desolato vuoto che mi delineava. Ero la carne puntellata da quell'assenza di me. Ed io la lasciava pulsare beffarda, senza cercare di mutare, ma lasciando al tempo, artefice e pantocratore, la sagoma del mio pensare. Smunto, senza deliri, senza desideri, solo una serie di slanci e neuroni e sensi sparsi in scampoli e frattaglie, tutto alla rinfusa. E non ignoravo, nè riflettevo. Io avevo il compito sublime dell'esistere i miei giorni. Aveva smesso di siglarli con l'amore ed il tormento. E li lisciavo con una serenità protesa come una freccia, senza bersaglio. Ogni fine ha in sè il piccolo grumo di sangue che il cuore ha espulso, cercando di non renderlo odio, anche se restano sempre frammenti di risentimento, e scarso pudore ed un poco di freddo. Quello di cui coprirsi nelle notti silenziose in cui la luna tenta di morderti il cuore e lo spezzetta e tu insegui i pezzetti di cuore o è solo una maledetta voglia di carne del tuo sesso umido.
E tu ti volti e ti riscaldi.
Un'unghia spezzata nel tentativo di graffiare e il sapore del sangue sulle labbra.
O solo di succo di fragole.
L'innocenza non c'era ma la avevo disegnata io.
L'innocenza non esisteva ma la avevo raccontata io.
L'innocenza non pulsava più, era mozzata,
ma la professavo io.
Devota e zelante.
Perchè in noi cresce un frammento di ignoto,
in attesa di essere sfogliato, depredato, spaccato,
spezzato. 
Come un fiore selvaggio.
E non esisto.
E me ne vanto.
Non tentare di ricordare il mio odore.
Non te lo consento.
Sospesa

Supplico l'aria di continuare.
A spingere i pensieri.
E disegnare la mia sagoma di sabbia.
Per poi cambiarla ancora.
Sospesa sulla luce.
Mi intreccio a sogni di juta.
Tra vene e pelle.
Come corde di uno strumento muto.
In una rete di fili di buio purissimo.
L'aria si sta impregnando della melodia del silenzio.




Rubo il fiato ad una farfalla stanca.
Lei lo ha rubato ad un fiore.
Aveva promesso di restituirglielo.
Ma non l'ha fatto.

Larva. Farfalla. Ali. Volo. Cielo. Terra. Sangue. Linfa. Albero. Larva.


Sanno di aria.
E di terra scura i miei sogni.
Come occhi della notte.
Scrutano le radici del mio cuore.
Pensieri circolari.
Rotolano in un cielo in affitto.
Scorre l'inconsistenza.
Buca il tronco e scorre.
Schizza zampilli di verità.
La verità imbratta.
Le mie ali sono fatte di sangue.
Fendono la realtà.
Ritagli di vite.

Vuoto.Pieno. Pieno. Vuoto.


Mi volto.
Mi protendo.
Voglio fermare il vento.
Per raccontargli una storia.
Mi sfugge tra le dita.
Le taglia.
E strappa la mia verità.
E' nascosta in quel tronco.

 
Adesso  portami nella  casa  delle  farfalle.
Ma  prima distruggi le  mie  morbide ali.
Dopo  avere  riempite di colori nuovi.
Soffia lontano il dolore E la tua idea.
Sono  tra  le  tue  mani  adesso.
Puoi percepire la mia fragilità.
E' una verità a metà.
Con metà cuore.
Di  una  farfalla
che ha donato
le ali al vento.
E ha rubato,
una volta,
il respiro
ad un
fiore.


Chiudi
la tua
mano.
Puoi.



Io non ho paura.
Non più.
Amore, perdonami


Se adesso aprissi le mie mani, sarebbero davvero vuote e stanche.
Striate dall'aria. Scavate da parole. Come rigagnoli di linfa impudica.
Evaporata al sole. Quando la luce del giorno filtra
tra le palpebre e mi solletica la coscienza. E la cavalca.
Come piume variopinte. La accarezza fino a rubare ogni respiro.



Il segreto è una apnea dalla verità.
Segreto.
Sta vibrando. 
Qui.
Nelle mie viscere. 
Un nodo nero.
Slegato e riavvolto.
Accarezzato e stritolato.
Dalle stesse identiche mani.
Come radici di anima. 



E sentivo la tua bramosia che si cospargeva sulle carni.
Inseguivo le tue mani che vagavano nel contorno delle mie paure.
Ricamavano ragnatele. Risucchiata la bimba. E risputata nell'aria.
Non pianse. Spinta e respinta. Fino a farla vagare come un palloncino.
Vagò. Vagava. E vaga. Graffiarono la donna. 
Dita di desiderio che all'improvviso divennero artigli. 



Era amore.
Lo specchio d'acqua sull'abisso.
La cosa più naturale e pura.
L'acqua che tutti vogliamo bere.



Ma sui miei occhi c'era la benda del peccato annodata stretta.
Abili mani cesellavano i pensieri. Li modellavano. Come creta del vasaio.
E le forme erano altre. Perchè persi il controllo della mia creta.
E non c'eri più. Non era importante quello.
Eri andato e non eri mio. Mai stato. 
Esploravo il mondo senza usare le cinque dita. 
Con il palmo pronto a fare da coppa.
Ma ancorato al filo di quel palloncino.
Strattonato nel vento e ondeggiante.
Cosa è cambiato? Non oso pensarci. 
Chi è prigioniero, l’anima o il corpo? Chi?




"...Amore perdonami: sono brutale
e vorrei ungerti d’olio,

ti perseguito e vorrei
che davanti a te io fossi un tappeto,
ti amo e mi recludo nel mio silenzio,
ma ho paura, paura di me stessa,
di questi gigli orrendi di fame e di fango
che crescono nella mia mente..."
 




A me succede che allontanandomi dalle cose io le veda.
 
Farfalle sulle labbra




E tra le mani. C'è stato un tempo in cui
le mie labbra sputavano farfalle. Piovevo farfalle.
Le osservavo mentre frustavano l'aria con le ali.
Ne imitavo i colori. Li imprimevo nella mente.
Descrivendomeli nella testa.
Me li raccontavo e le mie parole mi facevano compagnia.
Rigavo i pensieri di mille colori. E me ne riempivo le mani.
Farfalle dalle labbra alle mani. Fino alla testa.



Un volo fino al cuore.



Sciami di farfalle lo avvolgevano.
Le lasciavo sul mio palmo.
E loro lo accarezzavano.
Per alcuni istanti mi sono
sentita una di loro.
Una farfalla cieca. 
Poi ho riaperto gli occhi.

Ho dipinto le mie ali.
E le ho spedite al vento.
E ho volato.
Con le mie ali finte.
E strappate.
Per poi vivare nella mia ombra.
Le mie ali sono rimaste incastrate là.


Adesso nella mia mano è adagiata una sola farfalla.
Mi inonda il palmo con il suo respiro.
Lei mi presta la sua aria. E io il mio palmo.
Io vivo nelle sue ali.
A volte la nutro di parole. 
E le dono pezzettini della mia pelle.
E della mia dignità. Sento il suo odore.


E' l'odore della luce.




E' tornata. Ho cercato la luce.
L'ho cercata come si cerca
la forza nella disperazione. 
E si impone al cuore di contrarsi.



E adesso io sono la sola galleria tra il mio corpo ed il mio cuore.



Non aspetto più parole. 
Le dono senza chiedere nulla in cambio.
Ho lasciato che nella mie mente
fossero deposte gocce di cera. 
Calda. Irriverente ed impudica.



Ne ero la indegna coppa.
Ma la luce le ha sciolte.
Sento solo la loro traccia.
E di tutta questa indegnità.



Da bimba spargevo le foto sul pavimento.
E le affiancavo e le allontanavo.
File di foto.
Spezzate e ricomposte.
Come con le parole.
Per dire tutto o nulla.
A volte le ritagliavo.
Non per distruggerle.
Ma per nascondere pezzi agli altri.
Mi piacevano le cose semplici e definite. Con i contorni sottili e decisi. Un po' come le parole. Preferivo quelle asciutte, senza affezione alcuna per quelle sdrucciole. Le usavo quanto bastava, per esprimere, per significare, ma senza descrivere le cose, che evidentemente erano già di loro, per quello che era la loro dimensione, a prescindere della mia percezione e dalla capacità di esprimerla. E mi sembrava, almeno quella volta, di essere ramo, dentro una foresta, persa tra le sue voci ed i suoi rumori, le urla dei tronchi, il loro fremito, e il sibilo delle radici ed il loro mescolarsi alla terra, il loro rovistare sempre più a fondo, a caccia di acqua. Io, finalmente incapace di sentire la mia, la mia voce, quella stessa eco di me stessa e dei miei desideri e delle mie pulsione selvagge o solo gli grido della serenità più bieca. Era così sottile il confine tra le cose importanti e quelle essenziali. E nella mattanza del bisogno e del desiderio non li distinguevo, e neanche il resto. Dove andavo? Dove era la luce? Cosa mi avrebbe restituita a me stessa? Soggetto attivo e passivo, come sempre, parti configgenti, ma per la prima volta con la chiara percezione di avere l'anima tra le dita e tutti gli errori che le colavano intorno ed addosso, fino al polso. Uno strano braccialetto, e con il polso imbrattato dai mie battiti e da tutte le scie di quello che era stato e che non avrei voluto. O che avevo voluto troppo e maledettamente. Ed era sbagliato ed inutile.
"Ti prego, taci. Non è successo nulla. Mi prenderò io cura di te. Ignora il ghigno e stringiti a me. Coprirò il tuo freddo e le tue stagioni.Suggerai la comprensione, e non lo saprai. Vorrei donarti l'oblio. Non smettere di stringermi. Non ti farò male.".
"Signor albero, non saprei".
La luce delle foglie e il loro palmo offerto al cielo ed i suoi rami ruvidi e sinceri mi abbracciavano e non mi facevano male. Graffiavano quel poco che consola. Come se mi fossi trasformata in foglia, in radice, in fronda. Sentivo una luna diversa. Quasi liquida. Fino alle viscere. E mi scorrevo, più lenta di linfa.
Ero solo una sillaba.
E mi piaceva. 
Non nutrivo più l'ego altrui nè assaporavo occasioni per nutrire il mio. E io lo sapevo, sapevo, perchè lo sentivo,  che il seme stava per bucare la terra. Avvertivo tutta la forza silenziosa dell'urto, della nascita, del dopo e del poi. Fino al risveglio.
Lontano.
Nè foglia, nè tronco, nè ramo, nè radice.
Solo donna.
E nessuna voglia più di spiegare.
R_una nuova 



Luna di lana. Luna di gesso. Lama di luna.
Seduce come primitiva malia. Penzola sotto il soffitto.
Bava di infinito. Sta per cadere. Oscilla. Ingoia aria.
E la mutua in sensi. E io osservo. Fuggo.
Nuove pose. Di luce opaca. Di buio lucente.
Dondolano i pensieri. Sfuggono. Sotto un cielo di carta.
Lama che taglia spicchi di luna. Luna affettata.
Affilati raggi. Lontani. Ignoti come spade di una battaglia mai vinta.
E mi riempiono le iridi. Stanotte brillano di stelle di carta.
E non riesco a spegnerle. Come puntini di buio.
E bruciano parole. Nella testa. Ceneri di una luna al rogo.


E io mi fingo strega
e striscio mani su muri ignoti.
Parlo con nocchia e sangue.
E con il silenzio. 


Ho disciolto nelle vene un fiume venefico.
La comprensione.
Scorta e percorsa.
E mi rivesto di puro freddo.
Faccio mazzolini di pensieri.
E li lego con i miei brividi.
Mi interrogo.
E la terra resta muta.

.
"...L'ho rifatto
Un anno ogni dieci
Ci riesco

Una specie di miracolo ambulante, la mia pelle
Splendente come un paralume nazi,
Il mio Piede destro,

Un fermacarte
La mia faccia un anonimo, pefetto
Lino ebraico.

Via il drappo,
O mio nemico!
Faccio forse paura?

Il naso, le occhiaie, la chiostra dei denti?
Il fiato puzzolente
In un giorno svanirà.

Presto, ben presto la carne
Che il sepolcro ha mangiato si sarà
Abituata a me

E io sarò una donna che sorride.
No ho che trent'anni.
E come il gatto ho nove vite da morire.

Questa è la Numero Tre.
Quale ciarpame
Da far fuori a ogni decennio.

Che miriade di filamenti.
La folla sgranocchiante nocioline
Si accalca per vedere

Che mi sbendano mano e piede
Il grande sporgliarello.
Signori e signore, ecco qui

Queste sono le mie mani,
I miei ginocchi.
Sarò anche pelle e ossa,
Ma pure sono la stessa, identica donna.
La prima volta sucesse che avevo dieci anni.
Fu un incidente.

Ma la seconda volta ero decisa
A insistere, a non recedere assolutamente.
Mi dondolavo chiusa

Come una conchiglia.
Dovettero chiamare e chiamare
E staccarmi via i vermi come perle appiccicose.

Morire
É un'arte, come ogni altra cosa.
Io lo faccio in un modo eccezionale.

Io lo faccio che sembra come inferno.
Io lo faccio che sembra reale.
Ammetterete che ho la vocazione.

È faccile abbastanza da farlo in una cella.
È faccile abbsatanza da farlo e starsene lì.
È il teatrale

Ritorno in pieno giorno
A un posto uguale, uguale viso, uguale animale
Urlo divertito:

"Miracolo!"
È questo che mi ammazza.
C'è un prezzo da pagare

Per spiare le mie cicatrici,c'e' un prezzo da pagare
per auscultare il mio cuore
Eh sì, batte.

E c'è un prezzo, un prezzo molto caro,
Per una toccatina, una parola,
O un po' del mio sangue

O di capelli o un filo dei miei vestiti.
Eh sì, Herr Doktor.
Eh sì, Herr nemico.

Sono il vostro opus magnum.
Sono il vostro gioiello,
Creature d'oro puro
Che a uno strillo si liquefà.
Io mi rigiro e brucio.
Non crediate che io sottovaluti le vostre ansietà.

Cenere, cenere
Voi atizzate e frugate.
Carne, ossa, non ne trovate

Un pezzo di sapone,
Una fede nuziale,
Una protesi dentale.

Herr Dio, Herr Lucifero,
Attento,
Attento.

Dalla cenere io rinvengo
Con le mie rosse chiome
E mangio uomini come aria di vento..."


 
 
Ti confesserei uno e più segreti.
Ma la fiducia come una velina fragile nel vento
trema e precipita.
Attraversa  strati di mente,
carne,
sangue,
o solo fremiti alla deriva.
Sapevo tremare, ma adesso non lo ricordo.
Perchè la mia pelle ha smarrito le sue linee.
Come una corda le sento
premere sulle mie vene.
E alterno battiti e sospiri.
Tutti parlano di anima,
ma l'anima dovrebbe renderci
tutto più semplice.
In fondo è solo la mente
che come una virgola fuori posto
confonde tutto.
Gelosa del mio tormento, taccio. E lo ascolto, come corda di vento, legare e slegare boschi. E la loro voce. I brividi tra le foglie. Mi volto e ti sorrido. Nulla appare così inutile, quanto la realtà. Perchè esattamente là la misura della possibilità si sfalda e si assottiglia, insieme all'indefinito, ed alle sue bolle di luce. La mia bocca ci schiude in una parola. Insegui le mie labbra. E si accomuna e si riflette e si somma, mescolandosi all'impossibilità. Io tenera erba mi piego, fino a sfiorare il suolo ed a sentire il polso leggero ma profondo. Si cala nel mio ventre. E così geloso della vita, in un'altrove privo di senso, e pregno di fantasie, quasi indecenti. Spogliami. E mi ricopro e mi mostro, nuda come la luna in questa notte senza nuvole, con poche stelle, e tanto cielo da sfogliare. E da accarezzare.
Pochi pensieri e un vuoto che urla.
Il mio odore è il mio segreto più sincero.
Non è mancanza, ma il fruscio dell'abbandono.
Foglie che ridono.
Come una serpentina dell'ultima sabbia.
Prima di sporcare la via
con la macchia del mio sangue.
La vita che si fa asfalto.
E passi.
E mi seguo e mi ritrovo.
E ci provo.
E adesso vattene.
Lo strano bisogno di ricoprire il mondo di una patina. Per non toccarlo, per non mescolarsi, per non sporcarsi. In fondo la vita è esattamente questo, la nostra esigenza, l'attitudine e lo slancio, a sporcarci, ad impastarci, di mondo. C'è chi seleziona, e sposta la copertina, scruta e valuta, e solo quando lo ritiene allunga la mano con timore e chi invece si scopre senza problemi e tocca e si lascia toccare, con il palmo aperto ed avido.
E poi c'è anche chi spaccia impronte,
come se fossero parole,
anzi più velocemente.
Vortici di parole ed impronte.
Come se quello fosse la misura e la dimensione dell'esistenza.
Abbracciami.
Forte, ti prego.
Abbraccia il mio respiro.
Ho solo bisogno delle tue mani,
come collane di fiori,
a cingermi,
oltre la carne,
dentro le ossa,
a confine con il mio sangue.
E forse con la mia anima.
Lei scorre, rossa e densa.
E io non voglio.
Perchè io a volte penso proprio questo,
di avere l'anima rorida di sangue.
Piena di macchie.
Dopo che ha perso le sue ali,
piccolo angelo monco
e tremulo
e senza piume.
Abbracciami.
Io so ancora tremare.
E ingoio coraggio per andare avanti.
E non chiudere il palmo.
Sento con la pelle
e la pelle mi restituisce pensieri,
come se fossi un fiore.
Ma non lo sono.
E poi che importa?

vevo lasciavo un sassolino grigio al mio posto. E al posto del mio cuore. Perchè fino a quel momento ero convinta di essere proprio dove era il mio cuore. E dove era stato poco prima. Una scia frammista a rosse oscillazioni, più della gelosia, e della mia atavica insicurezza e del mio bisogno di conferme. Come se le ciglia degli altri fossero mannaie che mi forgiavano. E mi divertiva pensare che gli altri, o forse solo qualcuno, credeva di sapere cosa ci fosse là dentro e dove fossi io. E quel sassolino segnava il posto e non contava. Era un artificio irregolare, e sincero, come irregolare e sincero era il mio sentire. Nel breve periodo. Poi dilatando tutto prendeva altra forma e direzione. E quello era il mio punto debole e quello era anche il mio dannato punto di forza. Manifestare tutta la debolezza di cui ero capace e poi sorprendermi con una forza che fino ad un istante prima io ignoravo. Ero, e sono, la donna dalle certezze di carta velina, capace di inzupparle di sogni o di strapparle e poi inseguirle. E quella precaria instabilità era divenuta un mal vezzo, diluita in una sincerità che spesso diveniva voglia di dire tutto, proprio tutto, oltre ogni decenza, e poi di restare drammaticamente vuota, e sola, più di una canna sul bordo della strada, costretta ad ondeggiare ad ogni passaggio, ed a tutta la sua estranietà. Ai suoi urti e ad alla assenza di un vero senso. A volte capita di rendersi conto che sono i posti che ti plasmano, e sono sia quelli visibili che quelli invisibili. Perchè ci sono posti invisibili che noi frequentiamo, ai quali siamo abituati, nei quali ritorniamo, quasi senza accorgercene. E spesso non sono solo nella mente. Sono sempre stata fortemente colpita dalle parole, come se siano un prestito grossolano ed invadente della mente. E subisco il fascino immondo della profondità, di quella che non ha bisogno di ostentazione, e che ha una sua leggezza quasi impercettibile.
Una specie di zefiro frammisto alla voce di ninfe.
Ed al sangue delle rose.
Raccolgo il sassolino e lo lancio lontano.
Oggi mi sento un angelo di carne.
Ho aperto la finestra ed era inaspettatamente primavera. E così ho raccolto i pochi brividi che mi restavano e mi sono affrettata, per sentire tutto l'odore possibile dell'erba appena tagliata, frammista all'umido salso della spiaggia. Ho sfilato tutti gli anelli dalle mie dita, solo per sentirle, dopo tutti i graffi, libere nel vento. Perchè ho scavato nella terra, e non ho smesso, e sono rimasta prigioniera della sua forza silenziosa. Siamo tutti figli dello stesso ventre, ma non sappiamo dircelo. E così ho sentito la vera appartenenza che mi accarezzava i graffi, e li legava e poi li slegava, come piace a me. Nello stesso modo di quel vento che non toglie e che non ferisce e che ricompone la corolla del fiore in cui si impiglia, lasciandolo oscillare nell'aria. Come se il tempo fosse la sua culla, il suo salmo, il suo profumo. E non coprisse ma lievemente accarezzasse, fino a sublimarla,la fame della carne. Il resto è più astratto di ogni lacrime. Ed io ho bisogno di piangere dannatamente concreto. Ed ho bisogno di baci casti sulle vene. Non ho bisogno del poco. Non lo voglio. Io pretendo. Il mio cuore pretende. Il mio corpo, improvvido ed avido, molto di più. E non mi doso, mentre faccio scempio della mia anima, e la percuoto, come un cuscino di piume. O come una frusta o il suo sibilo silenzioso. Il male degli altri ci rende migliori.
Io ti assolvo.
E mi condanno infinite volte.
Ed il mio alone è il mio mistero.
Quasi quanto la mia voglia.
Perchè questa parte di me ha una sua voce
e racconta le sue fiabe, proibite e candide e poi sordide.
Ed implora dannazione.
Ecco, io ti assolvo.
Perchè sono troppo buona.