In quel mescolarmi e ritrovarmi c'era un
desolato vuoto che mi delineava. Ero la carne puntellata da
quell'assenza di me. Ed io la lasciava pulsare beffarda, senza cercare
di mutare, ma lasciando al tempo, artefice e pantocratore, la sagoma del
mio pensare. Smunto, senza deliri, senza desideri, solo una serie di
slanci e neuroni e sensi sparsi in scampoli e frattaglie, tutto alla
rinfusa. E non ignoravo, nè riflettevo. Io avevo il compito sublime
dell'esistere i miei giorni. Aveva smesso di siglarli con l'amore ed il
tormento. E li lisciavo con una serenità protesa come una freccia, senza
bersaglio. Ogni fine ha in sè il piccolo grumo di sangue che il cuore
ha espulso, cercando di non renderlo odio, anche se restano sempre
frammenti di risentimento, e scarso pudore ed un poco di freddo. Quello
di cui coprirsi nelle notti silenziose in cui la luna tenta di morderti
il cuore e lo spezzetta e tu insegui i pezzetti di cuore o è solo una
maledetta voglia di carne del tuo sesso umido.
E tu ti volti e ti riscaldi.
Un'unghia spezzata nel tentativo di graffiare e il sapore del sangue sulle labbra.
O solo di succo di fragole.
L'innocenza non c'era ma la avevo disegnata io.
L'innocenza non esisteva ma la avevo raccontata io.
L'innocenza non pulsava più, era mozzata,
ma la professavo io.
Devota e zelante.
Perchè in noi cresce un frammento di ignoto,
in attesa di essere sfogliato, depredato, spaccato,
spezzato.
Come un fiore selvaggio.
E non esisto.
E me ne vanto.
Non tentare di ricordare il mio odore.
Non te lo consento.