mercoledì 26 settembre 2012


Quando poi...
quando poi scrivere serve quasi a respirare. Segna la pausa, la curva a gomito, la discesa. Così l'io mi moltiplica e perde in frammenti.  Forse si dimentica. E si veste di apnee fragili e sottili. Come gallerie. Ed è proprio così che l'ego si genuflette. Solo per cercare un lenzuolo che copra. La tenda di un palcoscenico che forse non si alzerà mai. Perchè scrivere è un pò dimenticarsi. E' annullarsi, allontanarsi, per ricrearsi. E' diventare altro ed altri. E' poi condividere. Dopo l'angolo e lo slancio. Magari solo per lasciare il segno attraverso parole. Perchè così diviene più reale, quasi tangibile, diviene entità un pensiero, e noi attraverso quell'idea ci intrappoliamo nella carta, nelle sue forme. Siamo quel pensiero senza esserlo mai fino in fondo. Perchè resta sempre un ostacolo e spesso siamo noi. Ed è così che qualcuno diventa profondo ed intenso, perchè scrive solchi, come se arasse l'anima deggli altri. Mentre altri restano lievi perchè sanno avvolgere le cose con le nuvole, quasi le intingono nella rugiada, e tutto sembra rivestito di un velo che stinge e soffonde. Mentre alcuni raccontano, perchè la parola non sia altro che tintinnante vita. Quasi gettoni da infilare, l'uno dietro l'altro, in silenti ed avare fessure. 
Scelgo io dove andare, adesso.
Perchè la realtà è nel mio respiro.
Contaminato dal desiderio.
Sento questo vuoto che è dolore o inconsistenza.
Un pieno che si contorce.
Una scia di foglie.
Avrei voluto coprirmi con il tuo pigiama, nelle notti fredde.
Al posto della tua carne, la mia.
Sotto la luce della luna.
E disegnare le tue mani, vicine.
Le tue mani solo mie.
Finalmente solo mie.
Scelgo io e so di non esistere.
Margherita senza dita.
Non ho mai contato.
Oltre questa mente che mi diluisce.
La verità ha osservato quel fiume di parole.
Dall'altra sponda.
E poi ha sorriso.
Così intrecciandosi, nutrendosi, flettendosi.
Come radici.
E tutto questo, tutta questa confusione,
può sembrare incomprensibile
solo
per chi da sempre 
conosce la verità.

Mi piaceva inzupparmi la bocca. Non bevevo mai fino in fondo. E lasciavo le labbra immerse, come foglie riverse, per impregnarle, e poi usarle come stampo. Labbra ebbre e grondanti. Sarebbe stato facile allora raccontare. Bocca contro muro, bocca addosso, bocca sulla pelle, bocca sulla carta, bocca agli angoli di una strada; e così lasciare andare ciò che avevo sentito, pensato, ciò che era capitato. E che per qualche ragione si era incastrato e non aveva avuto la sua giusta spinta. Ed era rimasto inespresso, o solo dimenticato. Eppure era esistito. O forse lo avevo sognato, perchè follemente e fermamente voluto? E adesso il caso si faceva segno, invece; un segno rosso, quasi più del sangue, e denso. Capace di imbrattare, in modo invadente, quasi sconveniente. Perchè nel decidere di scrivere c'è quello scarto infinitesimo tra ego e timidezza. E le parole, alcune parole, ci spogliano più di mille mani. Sono quasi nuda, quasi del tutto, e ho freddo. Ma mi riavvolgo in un lembo di indecenza. E sbircio il mondo. E nell'osservare c'è sempre una avida assenza, un distacco, come se fosse il margine di un foglio, ripiegato, forse per rileggerlo; e fa quasi rabbia cercare di rilisciare la pagina al posto suo. Non tornerà più nuova, ma sarà inciampata in troppi segni, troppe paure, troppi ripensamenti. E poi in tutta quella distanza, tra gli occhi e la mente, c'è tutta la solitudine di cui siamo fatti. In un percorso che si dilata e che come un dardo arriva sempre, ma inevitabilmente dopo.
E una promessa pulsa già sulle labbra umide e vermiglie.
Ecco, io per caso, avevo conosciuto il freddo. Non uno qualsiasi, ma uno strano freddo, in cui la dignità sembrava essere la seconda pelle. E mi sentivo in alcuni punti quasi squarciata. Perchè mi ero data, e mi vergognavo immensamente, di ciò che non era tornato indietro, delle mie mani spoglie, delle mie dita tremule ed avide, della innocenza del desiderio, e della sua forza ostinata. E se avessi potuto lo avrei riavvolto intorno ad un rocchetto per farci mille nodi e cucirci la mia forza. O la mia dignità. E mi sono ritrovata più femmina nel rifiuto, che nell'accondiscendenza. Il mio ventre ha pulsato di sdegno e di piacere. Mi sono piegata e contorta come un tronco sul fiume. Solo per sfiorare l'acqua. Fino a raccogliere i suoi riflessi, prima di voltarsi. E negarsi alla corrente.
E oggi sono questa, mio malgrado.
Dopo aver morso tutta la inconsistenza che è capitata, che ho sognato, che ho cercato.
Ed anche quella che ho respinto.
Perchè quando ho freddo, come adesso, ne trattengo più possibile.
Così sarà semplice dimenticarlo, al primo alito caldo.
 

Capita di avere delle cose da dire. E di pensarci. E poi di lasciarle andare. E di non fare sforzo alcuno. Perchè non è essenziale dire, nè raccontare. Ed è istintivo lasciare andare via ciò che sembra normale. Perchè è tutto così irrimediabilmente immediato, ed è senza dubbio più semplice e leggero delle parole che poi dobbiamo usare per descriverlo. E' tutto così assolutamente ed assurdamente veloce da sembrare quasi evanescente. Cosme se pensassimo nuvolette. E spesso ti capita di ritrovare un pensiero, come per incanto, o per assurdo caso, oppure per inciampo, dopo tanto tempo. Ricordare è un gioco bello e pericoloso. Il gioco di ciglia che si muovono a velocità diversa e sezionano la vita in frammenti. Istanti che si accumulano fino a lasciare il loro posto ad uno solo. Quello che ha la scena finale. Prima della nuova serie. Di quella selezione occasionale. Come spari senza rumore. A chi non è capitato? Sentirsi esplodere il respiro nella gola, a dispetto di tutta la indifferenza di cui ci foderiamo l'anima. E così, come per caso, che ho rivisto quella porta, aperta e ferma, come milioni di altre porte, le chiavi che ancora dondolavano, e la vita di quella famiglia, che non conoscevo. Uno squarcio di quotidiana umanità. Lontana ma vicinissima. In fondo la vita degli altri è il filo di una matassa immensa che ci avvolge tutti. E siamo sconosciuti ma così evidentemente familiari.  
E quando quella porta si è rinchiusa, ho ripensato a quella famiglia, intorno al tavolo, e ai piatti colmi e fumanti, e ai calici macchiati dalle sagome di bocche, e alla televisione, e alle voci che si confondevano con le ultime notizie. Ed alle occhiate e ai sorrisi. O solo ad una fronte corrugata. Ed alle mani che mescolavano, spezzavano, dividevano, piegavano.
Un rito, chiamato vita.
Ed ho pensato che a volte l'uomo è complice di una divinità umile e sublime.
Non chiamatela.
Per lo meno non chiamatela amore.
E' più leggere dell'aria e più salda dell'acciaio.
In fondo cosa è l'amore?
E' tutto ciò che lasciamo andare senza perdere mai.
Lo sguardo di mio padre, per esempio, ed il suo azzurro meraviglioso.
E' appena sotto le mie palpebre.

mercoledì 19 settembre 2012


E mi accorsi che tutto quel cinismo era davvero troppo. Asfittico e meno sincero di ogni deprecabile dolcezza. E per compensare un eccesso, un ammasso, un troppo pieno, ci si cala dentro una galleria, dove la luce non scompare ma resta e ad intermittenza deforma. E se all'inizio il gioco della mente e degli occhi si intreccia ed interseca forme quasi allettanti, poi tutto diventa un rettilineo. Più diritto della noia. Più veloce di una freccia affamata. E nel tentativo di diversificare si banalizza il mondo fuori da quella galleria. Perchè nella banalità è più facile riconoscersi. E nessuno ne ha davvero voglia. E per quello urla la sua specialità. Quasi la pretende. "Nessuno ha le mie stesse mani" - sembra ripetere. Non so se mi è successo. Non ci giurerei. Anche se ho smesso di giurare da quando ho perso qualcosa di devastante ed importante. Quasi più forte delle radici. O meglio la mia radice. Il mio numero primo per eccellenza, decretato dal sangue e dal cuore. Prima ancora che ne avessi la consapevolezza. Si inizia ad amare per caso, per empatia. Per compenetrazione. Per immersione. E si ama, come se si respirasse. Tra apnee e rituffi d'aria. La vita è proprio quell'alternarsi, quell'incastro di aria e carne e sangue e fulgido pensare. Tutto avvolto in una normalità che solo la coscienza sa davvero spezzare. La interrompe con morsi decisi e poi cura. E forse ho detto troppo e male. Ma trovo irresistibile accarezzare le nuvole. Lo facevo sin da piccola, e non me ne accorgevo. Giocavo con le nuvole e ci credevo, ci giuravo, che un giorno le avrei toccate.
E forse è successo.
O forse no.
Ci penserò domani.