Voce spremuta dalle mie tempie. Sembra un ricordo. Pulsano i numeri. Conto. E riconto. E non so cosa conti davvero. Nella seguenza di tintinnii maldestri. La voce si insinua. Come il soffio di una margherita. Geme e si nasconde. O il sibilo di un serpente. Un millepiedi si affanna sul cemento. E sogna fango e terra. Ed è già mattina. L'attimo in cui mi distacco dal mio ramo. E ricomincio a cucirmi le ali. La voce sa di sole. Accarezza i pensieri. Non riesce più a farsi male. Non ricorda di averne fatto. Di aver masticato parole. Ha deciso di amarsi. Ma è una mezza verità. Di quelle bisbigliate al risveglio. Con la voglia di caffè. Con il suo odore di portentoso mistero. Un filo di erba come segnalibro. Del sogno interrotto. E il cuscino ha l'odore di radici. Quello sognato e tanto pensato. Per riuscire a stare bene. E delle carezze di mia madre. Poche. Ma sincere. E la voglia di usare i suoi vestiti. E le scarpe con il tacco. Niente a che vedere con le mie. Ma sembravano scale dove fare ondeggiare i sogni. E il suo rossetto. Per immerggerci le labbra. E stampare baci sullo specchio. Come se fosse marmellata di ciliege. E una promessa reciproca. Guardo tra gli scaffali. I raggi schizzano polvere. La contorcono. Ed il pulivoscolo sembra una magia. E giro lo zucchero nella tazza. Troppe e troppe volte. E mi sfondo la mente pigra con una delle mie insostenibili ricette. La fiamma è troppo alta. Ma è così che mi piace. Con il canto furente dell'olio. Nel tegame. Mi fa credere che tutto andrà bene. Ha un odore. E una voce. E questo basta per rassicurarmi. Una vecchia fiamma dilata la ombra. Attraversa carne. E strati di pensieri. Impastati. Senza ordine. Senza regole. Dilatati e prosciugati. Annusa la loro voce. E la striscia. E quello che resta è ombra tremula. E cenere. Quello che resta di ciò che non riprende a scorrere. Con la forza di continuare. Io non riesco a negarmi il sangue. E quel puntino che nonostante tutto c'è. Solo che gli impedisco di parlarmi. E resto ombra dell'ombra. Il guizzo diabolico mi morde la pancia. Ma è solo un istante. Tutto tace.
Come se quel muro fosse un giardino.
Di fiori muti.
Siamo contenitori infetti di sogni assolutamente puri.
Back to basics, direbbero da qualche parte. Immersi nei propri corridoi, che hanno sapori e profumi, pieni di suoni e rumori. Una casa che all'esterno appare consumata, ma dentro è sazia, anche se non di sé.
RispondiEliminail mostro consiglierebbe di ricucire le ali prima del distacco dal ramo.
RispondiElimina(a) evocazione: il test dell'emoglobina prima della donazione: quella piccola puntura che produce una bollicina di sangue; si rimane lì, imbarazzati, con l'idea di non poter portare istintivamente alla bocca il dito per succhiarlo, come si faceva da piccoli per non "perdere" e "perdersi". il rassegnato sacrificio che possiamo consapevolmente sopportare solo per l'idea malsana di essere ormai divenuti entità "intaccabili", capaci di disinteressarci della flebile pulsazione che segue.
e se fossimo solo contenitori rigenerati puri di sogni infetti?
RispondiEliminaa2