A quei tempi mi era più facile parlare con i sensi. Non mediavo. Forse neanche lo sapevo. Molte delle cose che facciamo e che ci accadano le riusciamo a cogliere, appena, e non a comprendere, solo dopo. Con il distacco, e l'occhio diverso che il tempo e la vita ci aiutano ad aprire, ripulito dalla impurità dell'impeto. Del bisogno. Dopo resta solo l'essenziale. Dopo, proprio dopo, quella modulata indifferenza che ci ha modellato cautamente e che infiliamo tra noi e quello che eravamo. E ci vediamo diversi, perchè lo siamo, quasi fatti di tempo andato, trascorso e perso e di risucchi della coscienza e della mente. Anima, per taluni. Nella lotta costante con l'amarezza, appena in tempo, per impedirle di andare oltre il bordo, oltre il confine tra ciò che deve apparire e ciò che davvero siamo. O siamo diventati. Succede, infatti, che molti avvertano il ruvido della corteccia e naturalmente si scostino, mentre l'albero che disperatamente ci cresce dentro, di continuo esplode ed implode, costretto però a struggersi in radici e rami. Indeciso se dare frutto, o se graffiare il cielo, lasciandoci sospesi ed oscillanti tra cielo e profondità, entrambi sconosciuti. Ci piace chiamarli provvidenza. Forse voleva solo una carezza, a dispetto della sua corteccia.
Forse perchè mentre guardavo l'acqua che si dimenava, ho ripensato al mare.
La casa ed il cielo dei pesci.
Abbiamo tutto dentro.
Più di quanto noi stessi sappiamo.
E siamo di fronte agli specchi riflessi dell'arte e della scienza,
alla ricerca della natura che abbiamo perso, che tutto già sa.
Da sempre.
Perchè è tutto.
Razionale ed irrazionale si allontanano e ritornano.
Allo stesso punto.
Ciò che ci lega e lega è l'istinto di osservare.
Per stanare la bellezza.
Oltre ogni curiosità, oltre ogni rumore, oltre ogni crudeltà,
oltre ogni fame ed ogni contaminazione.
Ed oltre questa pelle.
Già, oltre questa corteccia.
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