E io la conoscevo quella favola. E la inciampavo. Solo per ricominciarla. E per vedere gli occhi che si facevano fessura. E poi gustarne il gusto e lo stupore. Il piccolo guizzo rapace che si sporgeva dalle pupille e si protendeva paurosamente verso le parole. Per assaporarle fino al centro di un vago e presumibile significato. E senso. Il senso delle parole è deliziosamente indefinito. Lento. E a tratti assale. Come lo stupore quando mordi un frutto nuovo. Non sai se concentrarti sulla polsa o sul sapore. E ti perdi il succo. Ne trovi traccia dopo. Quando il sacrifico è compiuto. E pensi a quello che sarebbe stato. Se quel misero sangue di mela non fosse stato perso. Oggi ho sentito il passato nella testa. E sono rimasta sospesa tra la scatola cranica e il mio corpo. Con una assurda sensazione di inutilità. Troppi movimenti inutili. Per poco pensierio. E le parole non erano parole. Contavano gli occhi. Quando io voglio davvero bene, in momenti come questi, sono distante. E non ho scrigni o confessioni. Sono solo un fantasma evaso. Una senza dimora dell'anima. In cerca di un sasso su cui poggiarmi. E ricominciare a respirare. Come se fosse avvolgere tutta la distanza ed il non detto che mi circonda. Non è un segreto. E' placida astensione. Quasi angoscia.
In fondo per volare bastano solo due ali nella testa.
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