Non solo nero. E il cielo già lo sa. Non gli si può nascondere nulla. Ha mani immense e rovistano tutto. Il posto delle emozioni è lontano dal cuore. E' alla periferia più sfacciata. Dove i sensi bucano la coltre di un nero indeciso. Non sa più annodare. Non sa divorare. Non ha più fame. Lecca quello che gli capita. Con la sua lingua indolente. E' cioccolata perplessa. E muta. Non riesce neanche più parlare. Una cioccolata silente. Rifugiata in un angolo della mente. Perchè siamo abituati a vivere in cassetti. E nessuna si accorge che la memoria è una prateria. Uno sterminato campo da arare. Perchè siamo fatti di passato. Di strati di passato che non si sono limitati ad adagiarsi. Ma hanno provato il lusso prepotente di plasmare un puntino pulsante. La chiamano identità. Io la chiamerei lasciatemiesserequellochemipareeilrestononlodico. E non è più nero. Il sangue dell'errore non è catrame. Resta comunque e sempre sangue. E macchia. Il posto delle emozioni è il giardino delle opportunità. Steli mozzati e corolle nude. Deve seguire rotte contorte e scivolare da precipizi. Archi di piacere che si convertono in preghiere convesse. E la terra ride. Ha nascondigli anche per il cielo. Alla fine lo fotte sempre. Lo ama. Ma non può farci nulla. E' una gran puttana. E forse lui lo sa. Lo ha capito dal primo momento in cui è riuscito a sorgere. A squarciale luce addosso. In quelle immense gallerie senza coperchio ci perdiamo. E ritroviamo. E là che si stempera e fortifica la pallida umanità che ci compone. Poca carne. Ma fiumi di anima. Perdutamente innamorati. Come vene che sono scorse. Quasi senza saperlo. E mi ritrovo questa. In questa periferia. Dove il cuore è lontano. Un bucaneve sommerso da neve immaginaria. Non vede il nero solo perchè non lo conosce. Sa solo che da qualche parte ci sono i colori.
Io l'ho sognato un comignolo rosso.
E sfiorava il cielo.
E là dentro terra e cielo si incontravano.
All'insaputa di tutti.
Un filo blasfemo. Forse un gancio. Un innocente nastro di seta. Un sospiro. Una benda. Una buccia cruda. La certezza più fragile. La favola del forse è un tappo. Del piccolo abisso che ognuno ha. E a volte è una ascensore verso il cielo. Altre un cielo orizzontale. Ed altre volte ancora è una caverna. Dove tutto rimbomba. Sette giri. Ed un altro sospiro. E con il sospiro un solco. E un ricamo d'aria. Nella intimità. Forse una promessa violata. E una vena prodiga. Sangue e brividi. Pericolosamente ondeggiava nella mente. Una stadera fatta di incognite e possibilità. Arcane e remote circostanze si ribaltavano come tende nel vento. E mi ritrovo a tremare. Come allora. E il desiderio crudo come una mela. Impigliato nelle pieghe del mio labbro inferiore. Sembrava furioso. Era solo piegato dall'arco del limite e dal rosso porpora di quella idea. Rosso come la bava della luna. E il filo scivolava come un serpente sulla soglia e la porta lo risucchiava. Si chiama ignoto. O forse peccato. O forse quellochediventononloso. E la donna sulla stadera si approssimava al centro. Senza raggiungerlo. Non aveva ali. Solo virgulti di ali erano le sue dita affamate. E strisciare non pareva conveniente. Forse opportunamente adagiarsi. E precipitare nelle oscillazioni. Alla ricerca del centro. In attesa dello strappo. Forse del morso. E di addormentarsi come una santa. Con gli occhi zeppi di desiderio. Come pozzi.
E la sua anima vagava.
Nel cercarsi si era persa.
Ma è la quella la possibilità di ritrovarsi.
Hai raccolto la bimba e i suoi sette fiori.
E tre petali.
Piccoli sigilli.
Su segreti che credeva ferite.
Erano rimarginate.
Mordi i suoi petali con dolcezza.
Ha paura.
Ma vuole solo quello.
Che le mangi il cuore silenziosamente.
E poi che tu vada via.
Senza una parola.
Al posto del cuore le crescerà un prato.
E sarà inverno e poi estate.
Ma mai più primavera.
Mamaipiù è un delizioso artificio perchè nessuno ha il coraggio di dire persempre.
Non ha più paura la bimba.
Non ne aveva neanche prima.
Ma non lo sapevo.
Voleva solo sbarazzarsi del cuore.
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