Temo la convessità. E apro le braccia solo per accarezzare il mondo. In genere con le parole. Striscio la vita di parole. Ci cospargo gli altri. E a volte con il silenzio. In quei momenti a parlare è il mio cuore. O meglio la sua ombra. Ho un cuore logorroico. E mi invade di parole. E poi non sa tradurle. E trattiene. E urta. E sputa via. Pensieri che non saranno mai veri pensieri compiuti. Nè parole. Mai le parole giuste. Il giusto è il compromesso tra noi e la vita. Sigillo ipotesi. Non voglio che si contaminino di certezza. E di perfezione. Sarebbe come ritrovarsi inaspettatamente a vivere di lucidità. E io vivo di sensi. E di spontanea inconsistenza. Di fiumi che diventano rapide e si ritrovano pozze. E pozze che si gonfiano di diluvi e si rituffano in mari.
E' il confine che temo. E voglio inzupparmi di tenera incoscienza mentre lo varco.
Pago sempre i miei debiti.
E il prezzo è in foglie.
E in respiri.
Tra spalle e collo si è insinuato
stanotte un delizioso tepore.
E mi ha cullata.
L'ho trattenuto finchè la lucidità è svanita.
Restituendomi al mio sonno.
E ho smesso di contare le foglie raccolte.
Bottino di vita.
Nascosto sotto il cuscino.
E' che sto cercando di imparare a fare a meno degli altri.
E di tentativi, vivo.
Quel tepore era la vibrazione di un traduttore universale, la Ragione, che cercava di interpretare i segnali (logorroici? allegorici?) prodotti dal muscolo in cui risiedono sentimentalismi e sensi, quello, accidenti, che non ne vuole sapere di smettere di battere, per sé, per gli altri.
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