Ammiro chi ha il bisogno di dire sempre tutto su tutto. E ci riesce. A segnare il mondo con il suo pensiero, o forse solo con il suo dire e spiegare e raccontare. Con quel bisogno, quasi iniquo e tangibile, di inquadrare i fatti dentro gli schemi del divenire e dell'essere accaduto, dell'inevitabile, dell'orrore e della colpa. Io spesso prendo atto del mondo. E come voi, ne sento l'urto. E poi mi inchino solo davanti al dono supremo della vita. E del dolore ingiusto, quasi gravata e piegata dal vago, buio e crudo alone del destino. Io così cerco di rispettare la vita. Con il silenzio, ma senza smettere di parlarle, senza implorarla più. Perchè ho capito che vivere, lottare, accettare e sopportare sono molto vicini. Quasi si mescolano e sovrappongono.
Solo che di fronte al dolore degli altri, dovremmo forse farci da parte, e rispettare.
E chi ha ancora un Dio da pregare, che lo faccia.
Non è sempre indispensabile dire la nostra.
E poi la nostra l'abbiamo già detta, tante volte, con il silenzio.
E forse avrebbe dovuto essere di più.
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