mercoledì 21 ottobre 2015

Strana la nebbia nella mia terra di salsedine. Le pigne sulla strada e gli aghi sparsi. Come dopo una battaglia. Ha un odore che sa di lontananza. Di tanto tempo. Di tante vite fa. Le dune sfondate dal mare lasciano intravedere l'incontro tra il cielo e le onde. E quel rumore non lo scordi più. La voce del mare è un tatuaggio di suoni nella mente. Da piccola avevo sempre paure delle tempeste di pioggia in inverno. Temevo che si portasse via la nostra casa, come se fosse di cartone. Quasi mi piaceva. E poi pensavo al freddo. E ad altro in verità. E faceva così paura. L'idea di mio nonno lontano e della sua solitudine. Una mattina ci svegliammo e tutto era immobile. Dopo aver tremato tanto. Una domenica come tante. E il mare aveva rubato alla mia terra, alla nostra terra, dei suoi uomini. Una storia incomprensibile per dei bimbi. Ancora di più per i figli di quella povera gente. Avevano incominciato a essere meno bambini, così all'improvviso e neanche lo sapevano. E a volte accade tutto ad un tratto. A noi altri metteva tristezza, una tristezza spessa e densa. Come se la cogliessimo negli occhi della gente del paese. Abituata alla crudeltà del suo signore. In un paese piccolo si condivide tutto. E tutto diventa di tutti. Anche il dolore. Forse solo quello. Per il resto ognuna ha la sua casa e le sue porte. E in quei momenti sa rinnegare il mare e le sue leggi. Nel tempo ho incontrato quei bambini. Erano uomini. "Sapete mio padre morì a mare d'inverno. Io ero piccolo.". Ed ero piccola anche io. Tanto più di lui. Perché ignoravo. E ricordavo senza capire fino in fondo. La tristezza è un ricordo grigio. Indelebile. E spontaneamente si accovaccia dentro la pancia. Senza fiatare.
Spesso ho quasi paura a manifestare questa parte di me.
Allora prese forma una delle tante me.
Aveva fame di strada e di sapere.
Parlava con le conchiglie e le baciava. 
Senza aspettarsi mai risposte.
Una parte legata da nodi duri alla mia carne.
La traccia della semplicità della mia terra.
Una impronta di sangue e amore.
L'amore per le parole asciutte e con poco sangue.
Hanno l'odore del sale.
E pochi sanno riconoscerlo.

E il diavolo che è in me ha una bocca immensa. Sorride alle mie viscere. E le annusa. E si diverte a leccarmi il cuore. Fino a farmi tremare l'anima. Non è un serpente. Nessuna forca. Ma ha la corolla di fiore. E gioca a rigirarmela nella testa. Come una sciarpa. Fino a farmi chiudere gli occhi. Per raccontarmi i colori. L'universo che un tempo persi. Un universo di colori dissolto. Per un errore. E' un diavolo buono. Spesso si pente del mal fatto. Raramente restituisce ciò che ha tolto. La chiama fame. Io la chiamerei malattia. Ha una paura fottuta del buio e si nasconde in un cantuccio ogni notte. Lo sento piangere e promettere che cambierà. Quanto vorrei credergli. Ma poi che diavolo sarebbe? Un buon diavolo. Spera di non farsi vedere. E alcune notti diventa davvero trasparente. Lo scambieresti per un angelo. Da lasciarsi le penne. E forse lo è. Ma non oso dirglielo. Credo di essere fumo. Ma abbracciarlo è fumare nebbia.
L'angelo che è in me è sempre trafelato. Arriva sempre al momento sbagliato. E si crede cattivissimo. Ma ha solo confuso le mani con i piedi. E a volte passeggia sulle sue mani. Quasi ci balla. Basta guardargli gli occhi per capire che non sa mentire. Si rotola in menzogne a fin di bene. Perché preservare gli altri dal dolore è il suo vestito migliore. E' permaloso. Un pessimo angelo. Ma si nasconde gli errori. Ma poi si pente e li ricerca. Anche se ha smarrito la mappa. Ha solo un vizio. Ulula alla luna. E la accarezza con le sue ali silenziose.
E io non ci sono.
Non più.
Mi sono rintanata in un angolo della mente.
Nel cantuccio che mi lasciano.
Quando ne hanno voglia.
Quando non stanno scommettendo il loro turno.
Mi limito ad osservare.
E mi basta poco per capire.
Non ho più nulla da dire.
E francamente fa un pò male.
Ma solo poco poco.
E' solo colpa delle mie mani ebbre.
Accecate dagli sputi di un arcobaleno.
Immensamente bello.

giovedì 15 ottobre 2015

E innocente il gioco.
Quasi pulsa.
Batte nelle vene.
E affonda come un sasso nello stagno.
E sei l'onda.
Tu lo respiri.
E non vuoi.
Spogliami.
Spogliami la carne.
E il cuore.
E poi sfondalo.
Dolcemente.
Spogliami e vestimi di luna.
Quando ti penso tremo.
Tremare è il gioco più innocente.
E cerchi un rifugio.
Quando una donna si sente una stella.
L'incastro dei brividi nella mente.
Come se fosse cielo.
E tremarti addosso.
Non per riscaldarmi.
Ma per resistere.
L'amore è il filo che si interseca con i nostri giorni.
E ci smebra la vita in segmenti irregolari.
Complica e devia.
E perfidamente lega.
Come in una foresta.
In un non luogo.
E desiderare è un pò essere immortali.
Divinamente umani.
Dei di carne,
con il cuore nel petto,
che tentano di vendicarsi della morte.
Non voglio essere amata, solo mangiata.
E poi nutrita.
Non voglio amore.
Ho solo fame.
*

Vertigini di raso. Afferro un lembo. Scivolano e affondano. Soffici come piume. Si sovrappongono. Ma poi sfuggono. Come scalare la panna. Il tempo che le ciglia si bacino. E le piume si sfiorano, ma non lasciano segno. E a volte mi sento così. Una ciglia smarrita. Dimenticata in un orlo. Un segnalibro di pagine invisibili. Perchè è bello pensare che i pensieri si inseguano. E le parole vaghino. Diventino sangue. E fiato. E tra tutte queste distese sterminate, galassie della mente, poter essere un piccolo intervallo. Quasi una virgola.
Così mi assento.
E mi riavvolgo dove mi ero interrotta.
Come una fiaba spezzata.
Ed una musica rammendata.
E' un lembo di carne. Su cui ho inciso un pensiero distante. E una illogica nostalgia. Una pausa. Una sosta. Una piazza. Un punto che non si arcua in domanda.
Tra essere e dare non so scegliere.
E mi semino obliqua.
«Nel corpo, non meno che nel cervello, è racchiusa la storia della vita».

*
Illogico è il dolore. E senza voce. Cerca di bucarti la pelle. Per trovare una via di fuga. Una porticina. Uno spiraglio. Un urlo. E con le dita parli. Fino a fartele sanguinare. Voraci e sgomente come rami contro la roccia. Cercano il segno in cui lasciare un nuovo segno. Per colmare i solchi e sperdere la propria voce muta.
Non ho più nome.
L'ho donato al mare.
L'ho visto annegare tra le onde.
L'ho visto dilaniato nel becco di un gabbiano.
L'ho visto colare a picco, come un sasso.
E ogni volta l'ho creduto mio.
E l'ho seguito.
Come un granellino di sabbia.
Fino al fondo.
Dove credevo dormissero i pesci.
Nella pancia del mare.
Come uccelli inversi.
E ogni volta mi sono svegliata, esatta come una campana a festa.
Oggi sono un morbido nulla.
Indolente e rabbioso.
In momenti come questo, come quando accarezzi il fondo, perchè altro non sai fare, vorresti una memoria liquida. Dove le parole non prendono forma. E si può dire tutto e nulla.
Senza direzione.
Come frecce pentite.
Mordimi le viscere.
Masticami il cuore.
E poi stringilo forte tra le mani.
Come un pesce che sta per morire.
Legami la mente.
Ho polsi sinceri.
E lacrime vergini.
Quasi ridicole.
Le potresti scambiare per il mare.
*
Poi ci sono cose che non sembrano dolci, ma che lo sono per davvero. Dolci come l'odore del mare ad aprile. Riempie l'anima e la gola. Di tenera nostalgia. Forse perchè ad aprile io fui quasi felice. E quell'odore, quasi incompiuto e imperfetto, mi riporta in quel punto. Come se fosse un punto di partenza e di arrivo. E ancora. Le conchiglie che si rotolano sulla riva e raccolgono e svuotano sabbia. Nessuno penserebbe a tutto questo come dolce. O forse lo hanno pensato in molti e non lo ricordano. Ma vi è infinita dolcezza nel velo di acqua che le accompagna e le ricopre e poi le libera nella luce. Senza farle mai asciugare. Abbandonandole solo per un attimo. E poi tornare ad accarezzarle. E permettergli di perdersi ancora. E di riempirsi e svuotarsi.
E la dolcezza in genere ha la corteccia ruvida della spontaneità.
Vorremmo solo qualcuno capace di lisciarla.
Come per incanto.
La magia del toccarsi senza che finisca mai.
Fino a divenire una sola superficie.
E in un dopo che poi è un quasi dentro, un pò più a fondo, nell'attimo dopo, trovare una carezza, una parola, un sorriso. Senza un motivo. Perchè la dolcezza è la capacità di accarezzarci, fino a farci sorridere. E ridere. E mordere luce. Senza nessun perchè. La logica spegne le emozioni, perchè a quel punto, ci raggiungiamo oltre la pelle. E la pelle ha compreso il quasi tutto. E d'istinto ha gioito. Come se respirasse.
Oggi, voglio sentirmi libera di esprimermi.
E ricamare sul bianco.
Piccoli grazie.
Come se fossero frammenti di luce.
Sulla pelle del mondo.
Un piccolo rettangolo.
*
Arresa. E tra le mie braccia fasci di aurora. Tagliano. E a volte torna. Torna l'aurora. E si mescola al disincanto. Non c'è il pallido stupore. Non c'è più. E ho una coltre fitta e densa che avanza. E la mia aurora mi sta tremando tra le braccia. Senza parole. O solo una. O forse di più. Non riconosco più le parole. Avrei voluto spiegare. Perchè così capisco. Estraendomi i pensieri dal petto. E tenendoli tra le mani. Toccandoli. Perchè a volte penso con il cuore. Per quello è così difficile spiegare. E quando poi si formano ingorghi mi perdo tra l'amare e il credere e il pensare e il sentire. E penso attraverso il sangue. E amo attraverso la mente. La parte in cui ho portato poche persone. Davvero poche. E' tutto confuso. E l'aurora fa male. Ho tagli in cui la luce si insinua. E mi scava. Un orgasmo di luce. Non ho avuto paura e ho visto le stelle. Mentre mi coprivi il cuore. Con il tuo. E sentivo batterti contro. E respiravo il mondo. Mentre mi perlustravi la mente. Avrei voluto descriverti quello che provavo. Quello che pensavo. Non per farti capire. Ma perchè era bellissimo. E non era lo stesso. E le stelle lo impedivano. Sì, io amo con la mente. E sanguinare non mi spaventa. Là sono davvero io. E lì mi avresti trovata. Aurora dopo aurora. In silenzio. A raccogliermi i battiti. Relegata nella soffitta della irrealtà. Ad intrecciarla con le mie favole di carne. Perchè la verità non basta. E oltre a quella non ho altro.
E mi lascio osservare.
Farfalle sulle labbra



E tra le mani. C'è stato un tempo in cui
le mie labbra sputavano farfalle. Piovevo farfalle.
Le osservavo mentre frustavano l'aria con le ali.
Ne imitavo i colori. Li imprimevo nella mente.
Descrivendomeli nella testa.
Me li raccontavo e le mie parole mi facevano compagnia.
Rigavo i pensieri di mille colori. E me ne riempivo le mani.
Farfalle dalle labbra alle mani. Fino alla testa.


Un volo fino al cuore.


Sciami di farfalle lo avvolgevano.
Le lasciavo sul mio palmo.
E loro lo accarezzavano.
Per alcuni istanti mi sono
sentita una di loro.
Una farfalla cieca. 
Poi ho riaperto gli occhi.

Ho dipinto le mie ali.
E le ho spedite al vento.
E ho volato.
Con le mie ali finte.
E strappate.
Per poi vivare nella mia ombra.
Le mie ali sono rimaste incastrate là.

Adesso nella mia mano è adagiata una sola farfalla.
Mi inonda il palmo con il suo respiro.
Lei mi presta la sua aria. E io il mio palmo.
Io vivo nelle sue ali.
A volte la nutro di parole. 
E le dono pezzettini della mia pelle.
E della mia dignità. Sento il suo odore.


E' l'odore della luce.



E' tornata. Ho cercato la luce.
L'ho cercata come si cerca
la forza nella disperazione. 
E si impone al cuore di contrarsi.


E adesso io sono la sola galleria tra il mio corpo ed il mio cuore.


Non aspetto più parole. 
Le dono senza chiedere nulla in cambio.
Ho lasciato che nella mie mente
fossero deposte gocce di cera. 
Calda. Irriverente ed impudica.


Ne ero la indegna coppa.
Ma la luce le ha sciolte.
Sento solo la loro traccia.
E di tutta questa indegnità.


Da bimba spargevo le foto sul pavimento.
E le affiancavo e le allontanavo.
File di foto.
Spezzate e ricomposte.
Come con le parole.
Per dire tutto o nulla.
A volte le ritagliavo.
Non per distruggerle.
Ma per nascondere pezzi agli altri.

Forse….


Ho il cuore tra le mani.
Sembra un piccoolo sole che si spinge verso il vuoto.
Si contorce e si modella in archi di vuoto e di luce.
Tutta quella che non ha.
Prima di tuffarsi e stemperarsi in
linee di assenza
ed in mille ombre.
Quelle che ci raccolgono e ci adagiano.
Sul bordo.
Ci avvicinano al suolo.
Fino a renderci sue vene.
In avido ascolto.
Forse i nostri cuori sono le radici della terra.
I suoi vasi comunicanti.
Le radici di un fiore.
E come ombre silenziose affondano.
Si infilano sotto.
Nel resto del senza.
L’alcova del bisogno.
Fino a non lasciare traccia.
L’oblio del cuore è un labirinto.
Sotto la pioggia la terra è assolutamente nuda.
Quasi indifesa, si ascolta.
Fragile.
Ogni passo la riempie di crepe.
E quelle crepe a volte sono le uniche parole di cui siamo capaci.
E le soffia polvere.
La paura della terra.
Paura, quasi livido e scostante terrore.
Di ascoltare i sussulti che ci sono sotto.
Come un cuore lontano che batte.
E non ci sembra neanche più il nostro.
Il mio corpo è una terra da ascoltare.
In silenzio.
Perché così ti accorgeresti che è la tana di una luna muta.
Lana spessa e grezza.
Impregna e si impregna.
E io mi parlo e mi “parolo” addosso.
A cascata.
Solo per nasconderne i battiti.
Ed inventarmi il silenzio.

Sara sarà


E accadde mentre si lavava i capelli. Le accadde di capire, mentre tra lei ed il soffitto c’era solo acqua che le rigava, indulgente ed imprecisa, il cranio e separava, senza dividere; già acqua, acqua che non sarebbe tornata, e che giocava lenta ed implacabile sul suo capo. Una matassa di sogni spenti ed asciutti che ricominciava a strusciarle addosso. In uno di quei momenti in cui il corpo diventa un oggetto, tra gli oggetti. Come se fosse svuotato di ogni volontà. Il corpo è una cosa che si lascia vivere da noi. L’oggetto degli oggetti. Nel gioco della vita. Come se fosse un pulsante, un joystick, una lancia, uno sputacarezze, una ruspa o una pinza da insalata. E poi pian piano diventa sempre altro. Una specie di magazzino. Lei comprese, ne percepì una vaghissima sensazione, nulla di tattile, ma trattenne. Tenne per quale istante quella sensazione di essersi avvicinata alla verità. E che forse la verità non le interessava. Perchè la verità non era mai reale. Nè ferma. Era la non verità, senza diventare menzogna, che diventava solida, forma, carne e misura. E di riflesso ci dava la possibilità di cambiare strada. Ancora a raccogliere vita e voglia e desiderio. Per quello deviamo e ci rivoltiamo e continiamo a camminare. Contro ed oltre ogni apparente immobilità. Così slentò la sua corsa dietro a quel perchè. Lo sentì scivolare via con l’acqua. Come quando da bambini si capiva il trucco. Ed era solo imparare ed imparare a capire. Quella era una domanda che ne aveva precedute altre. Perchè domandare era un modo per smettere di rispondersi. Non aveva mai previsto che tentare di vivere fosse una possibilità. Una tra le tante. Senza che fosse neanche la migliore.
Solo che aveva il sapore del sole.
E forse una parola nuova da sciogliere sotto il palato.
Non voleva spiare il mondo.
Lei voleva guardarlo.
Ad occhi pieni.
Ed inspiegabilmente alternava un pensiero delicato ed uno brutale.
Quasi mangiarsi di baci e morsi.

luna nera


Un brivido ed una parola. E poi una vertigine. Mi sento e fino in fondo. E fino in fondo mi distruggo. Cancello gli occhi, la bocca, la mia voce, le mie vene, e le mie mani, fino alle nuvole. Fino a piovermi a dirotto. La pioggia scroscia in una notte senza stelle. Non ho emozioni sui polsi oggi. Solo rovi e tormento. Quello della incomprensione. Purissima, come solo la paura sa far germogliare. Buca la pelle, come se fosse una zolla arida. E fa male. Quando la lama ha segato ogni confine ed ha reciso la vena. Dove va il sangue? In che direzione? E nello specchio dell’indefinito ho iridi diluite in una strana indifferenza. Parole che non riesco più a pronunciare. Non le voglio. Sento solo uno strano silenzio. Fende la dignità e i suoi brandelli e mi squarcia il ventre, come un piacere all’inverso. Mordo aria, mordo il cielo, mordo la mia mente, con i pensieri, quelli più sbagliati possibile. Per il terrore, sacro e virgineo, di sporcare tutto, oltre me stessa e questa pelle sbagliata, una pelle inversa. In fondo aspiriamo alla perfetta comprensione, ma quella è il solo perfetto vestito del sangue. Il resto una favola senza capo né coda, dove il lupo non sa che pecora sbranare. Respiro, respiro ancora e le dita si perdono in questi tasti ed in queste parole e nel senso dell’inutilità di istanti. Qui nel mio fiato ho una verità e poi un’altra e poi ancora. E non respiro. Perché vorrei saper dire e raccontare una storia senza pause, senza virgole, senza sospiri. Senza giudizi. Sono difficile e persa nella mia rete di donna pesce. Ed è facile vedere il tormento che mi deforma e si infila tra i denti. E ho solo voglia di mordere e mordermi e dilaniare tutto questo errore di donna che sono riuscita a creare. Una donna intorno ad una voragine. Chi può mai sporgersi per guardarci dentro? Io non lo farei, meglio i muri fragili della incomprensione.
Ed è il silenzio il solo fodero del mio desiderio.
Delle mie mani sole, nel buio.
Perché nel buio i graffi scompaiono e sembrano bellissime.
E non ho bisogno di sembrare migliore di quello che sono.
Così per caso e poi per gioco. Tra vena e vena. Nella sua solenne lentezza, non so che ora fosse ma mi intrappolai in te, come nella più tenera e candida delle perversioni. Oserei dire feroce e lo sussurrerei. Ed è successo? Tu lo sai? Era ieri o domani? Scivolai dentro me stessa ed un desiderio che pulsava di rosso. Rosso come il sangue del mio dito, che vorrei descriverti, e come il palloncino che mi esplose davanti alla giostra. Rossa come la mia gota mentre mi parli. E come la mia mente mentre ti ascolto. Ho sempre odiato il rosso. Ma adesso no. Oggi lo sfioro e me ne tingo i polpastrelli, perché rosso è il tratto tra la mia mente e la mia carne. Un sentiero semplice se chiudi gli occhi. Perché ho la disperata sensazione che ci si può riconoscere per davvero solo nel buio. Ed è per quello che non ho mai aperto gli occhi. E sono ancora chiusi. Ma tu lo sai.
Il cuscino come argine dei suoi pensieri. Ha altro da dirsi nelle sue notti. Sta scandagliando il fondo, più o meno meticolosamente. Sente l’odore del futuro e ancora lo teme e ne centellina la fragrante fugacità. SI ascolta i polsi e così si placa e si divarica come una corolla. L’aria nella gola, troppa, senza neanche tanta paura; giusta quella che le serve. Un taglio sui jeans, ed passi alla rinfusa. La caviglia sorride, nei suoi schizzi imbarazzanti di sensualità. Senza una direzione, con una maledettissima voglia di vivere, come se il lembo si fosse slentato. E sul cuscino qualche lacrima, che non guasta. Hai mai bevuto le sue lacrime? La luna c’è ed è il suo palloncino. Ma a lei i palloncini hanno sempre fatto tristezza, languidi e smunti, alla fine della fiera, a grattare il soffitto, come barlumi di vita che si strusciano, esattamente sotto il tetto del mondo. Supplici a suggere frammenti di vita. La voce della gente la circonda, come uno scialle sgualcito. E lei resta sotto la sua patina, in un distacco che non è solo attesa, anche se sa, e sa che domani non sarà altro che domani.
In notti come queste, anzi come questa, vorrebbe solo musica, quella che piace a lei e che la spacca a metà come una mela. Spicchi che si sfiorano, lasciandosi ricucire dalle vene.
E quella lama a ridosso dell’anima, ad ogni palpito che brucia il cuore.
O forse altro.
Si disegna le linee della mano, per infilarci dentro sogni.
Ha perso la mappa stinta delle sue ferite.
Ma sa che la pelle è pregna di memoria.
Il senso dell’incompiuto mi lega i polsi e lascia il suo solco. Quanti giri di corda? Mi rifugio nel fiato, perché mi aiuta a non sentire quella riga perfida e sottile, come l’anima di ferro, che taglia. Come la delusione. Segmenti di respiro ed il prato come un tappeto, a raccogliere rugiada sparsa. Stringi forte, più che poi, perché ho bisogno di piangere. Urlerei volentieri alla luna questa notte, fino a lasciare cadere frammenti di cielo. E poi non so. Resta quella maledetta sensazione, come una seconda pelle. E quasi soffoca.
Sfioro la tempesta solo perché l’aurora è già finita.

lunedì 28 settembre 2015

Alibi molto poco divino

E io che raccolgo l'estate dai tuoi morsi. Quelli che capitano. Amari, come spicchi di arance spaccate spezzate e fuori dal loro tempo. Disegno la mia bocca con il sangue e poi ho voglia di segnare il percorso. Strisce precise senza indecisione. Senza sfiorarsi. Ricordi? I segni su di me, con direzione indefinita. I miei sogni ed i miei incubi spesso coincidono. E io ascolto il mare, senza usarlo più. E senza farmi usare. Il mio piacere è il margine più prossimo al mio delirio. Ho occhi diversi, e tasche piene di rumore. Quello della mia mente. Spesso il senso di me si stempera nel mio non amore. E credo che solo la curiosità sia il sale che scopre e illumina ogni ferita. Ed è quello il vestito vero della mia anima, quello che nessuna parola può coprire per davvero. Per il resto, il mio cuore è vecchio mille e più anni e annuso il dolore, come mio nonno annusava il vento. Odio il bianco e le sue scie, e credo spesso che nasconda il più grande inganno, quella della innocenza, soprattutto di quella perduta. Non ricordi? Le frecce erano dirette al punto in cui tutto si può. Io mi nascondo dentro la notte, quando mi allontano. E cancello le mie tracce soffiando tutta la mia voglia che tutto possa essere diverso.
La corda ed i suoi giri.
L'odore ruvido della disperazione.
Stride.
Forse è il desiderio.
Uno qualunque.
Con gli occhi a forma di uncino, verso l'infinito.
Come una cosa con il cuore al centro.
Mi fa paura, una paura ferma e crudele, parlare di me.
L'istante dopo

Fragole e nuvole

E non lo ricordavo più neanche quanto fosse bello e lieve e poi forte il mare; il mio mare. Una specie di culla, un cerchio magico, una pancia, dove lasciare fluttuare la più flebile intimità con noi stessi. Nella sua bellezza morbida e tenera, ma fiera e selvaggia. Ieri non pensavo, esistevo, mi lasciavo circondare da quello splendore. Come se per alcuni istanti il cerchio si ricongiungesse intorno e tutta la solitudine, di cui siamo capaci, e non fosse più latore di un tormento, proprio di quel dolore, sfacciato e poco dignitoso. Sembra quasi quando hai freddo senza quel lembo di coperta, ma resti immobile, per non ritrovarti ancora più scoperta. Così, ramo dopo ramo sui polsi, e l'odore del ciliegio, una ritrovata voglia di amarsi, li cinge. "Piccola ti voglio bene" - una eco del tempo e della coscienza. Mio padre mi ripeteva spesso delle cose. Ne diceva tante. Alcune bellissime, altre terribili. La nostalgia avvolge quei ricordi che ormai sono pezzeti di me. Radicati nel mio corpo, forse più che nella mia anima; scorrono nel sangue. Ma il tempo mi ha lasciato riscoprirmi diversa. Nè migliore nè peggiore. Come se le sue parole, che grondavano amore, fossero un gancio verso un attimo che sarebbe venuto in cui avrei dovuto urtare contro tutta la sensibilità, goffa e fastidiosa, di cui sono capace. Con la mia pelle al contrario, incapace di ricevere una carezza, per la paura smodata di soffrire. Senza schizzi di sangue. Immobile, carica di memoria, quasi con orgoglio sento la bellezza selvaggia e fiera della mia terra. Una terra amara e spesso improvvida, dove la forza scintilla, profonda, tra zolle e sangue e sudore, e custodisce, gelosa, il suo frutto. Sono fatta di sale, salsedine sulle labbra, e di tutto questo mare nella testa e tra i piedi, e di sabbia. Sabbia ovunque, nei pensieri, sulla pelle, tra i denti. Non si tratta di altro che del sigillo che la vita mi ha imposto sull'anima. Una vigola indaco, tra un sogno ed il successivo. Non mi sento sporca nell'ostentare il mio corpo, ma la mia anima. Come una nuvola carica di pioggia urtata dal sole. E conficcata al cielo, incredula.

Mi ascolto molto

Poi molto poco.
E poi decido di chiedermi le orecchie al mondo.
Nessuna vocina a serrarmi la coscienza.
A farne coriandoli.
"Perseverare è diabolico baby.
Lo so, ma non resisto."
Non saprei da dove sia sbucata questa voce.
Non è la solita.
Sembra una corda, un pensiero, un nastro tagliente.
Il fiume che si rincorre.
Una riga di cielo.
E del mio rimmel sbavato, dritto e severo sino all'angolo della mia bocca.
Sulle mie labbra un pensiero, e poi sul mento, e poi sulla nuca e poi tra le dita.
Non ho coscienza, non ho identità, nessuna dimensione.
Senza luoghi nè direzioni.
Sì, oggi gira così.
Come il bracciale intorno al mio polso.
Indolente e mordace.
Piega l'aria a piacimento,
 fino a frantumarla.
Per costruirla a suo piacimento.
Crepa contro crepa.
Come se il tempo fosse una cornice che si restringe.
Ci comprime.
Oggi, domani, poi.
E adesso?
Gira così, ed è terribile.
E a volte bellissimo.
E la vocina riaffiora.
Una scia su quel fiume.
Sono peggiore di quanto tu possa immaginare.
Ma sono dannatamente io.
E scusa se è poco.
C'è una condizione in cui ogni trasgressione si adagia ad un sentire che ha spaventosamente i margini della purezza, un pugno nello stomaco, un tenero oblò sui sensi. Ti piace sapere che qualcuno si sta sporgendo per osservarti. Non ti ritrai, e ti mostri in tutta la brutale nudità di cui sei capace. Ti vesti di oscenità, come se fosse una coperta, oscillando nel piacere, e non sai raccontarlo; come una vecchia fiaba che nessuno ricorda più. Una specie di gara con il sangue. Lupa famelica che ti morde le viscere e slingua il cucciolo di te, l'embrione di donna, che ha svoltato più giri, ha annodato una corda ai suoi polsi, ed è diventata quello che è. Ed è come se la forza del desiderio ne slentasse i cordoli, e ne lisciasse le asperità, livellasse ogni impossibilità, soprattutto quelle fatte di paura. La sagoma viola dei tuoi sogni, asfitta e menzognera, a volte. Una condizione che dura poco, pochissimo, e già è passata, ma che gioca con il respiro e con i sogni e li rende pericolosamente vicini, sottili, forse trasparenti come ali di farfalle. Il fondo nero prima o poi reclamerà la sua parte di pentimento, di rimorso o di rimpianto, e di quella carne, e di questa, farà brandelli, fino a rendere tutto crudo, come un sospiro spezzato. Ora non so in quale tempo io mi trovo, su quale piano della realtà, ma mi nascondo nel mio fiato, tra i brividi della mia pelle, nella ricerca in me di ciò che forse non sfiorerò mai. Ad occhi chiusi, con la benda del destino stretta sulle mie ciglia. E stranamente vedo mille colori. Da non saperli descrivere.
La mia ombra è la parte migliore di me.
Anche se avrei voglia di fendere la luce.
Le dita dentro a bucare il futuro, a squarciarlo, senza paura di avere paura.
Come una luna, mille volte luna.
Sono passata per caso da un posto. Mi è bastato capitarci davanti, al vecchio cinema, abbandonato, una specie di immensa casa dei gatti, vetri distrutti, finestre divelte, tutto dietro ad una catena, così debole da sembrare finta. Ed una marea di ricordi, tra un passo e l'altro, mi ha assalita, tutti al profumo di big babol alla fragola. E dietro il mare, sempre e solo il mare. Io sono fatta di mare, e così i miei ricordi. E mentre ci camminavo intorno, sono tornati veloci, riaffiorando dalla mia memoria, come da una vasca profonda, con mille fruscci, e con loro tutti i pomeriggi d'inverno, quasi sempre di domenica, ed i film, rivisti  e poi ancora, e sempre gli stessi, le risate, e le rotelle di liquirizia ed i rossori dei primi baci,  visti e ricevuti. E là i muretti, a ridosso dei quali ci respiravamo vicini, nella incoscienza meravigliosa, del tempo che non scorre mai, perchè ci sembrava infinito e vasto, immenso là ad accoglierti, a ricevere te e tutta la vita che avresti voluto infilarci dentro. E non ci pensi che quei muri che hanno conservato e custodito interi pezzi di vite, possono un giorno diventare un rudere, e che il tempo possa e sappia mangiare pietra dopo pietra, un vecchio cinema di un piccolo e vecchio paese, svuotato anch'esso, e con poche speranze, nella sua immensa bellezza.
Dimentico sempre di scegliere con attenzione le strade da percorrere.
E giuro, non rubo nulla, proprio nulla.
 
Sliding doors. Forse questione di attimi. Le cose si incastrano diversamente. Un futuro da disegnare. Siamo davvero muniti di tanta scarsa consapevolezza? Io ho paura a chiamare le cose con il loro nome. Chi lo ha deciso poi il nome di una cosa? Come se il rigurgito di una convenzione dovesse ricoprire il mondo di una patina. E la gente non sa più guardarsi negli occhi. E la gentilezza fosse sintomo di debolezza. E chi decide poi cosa sia davvero la forza? Le cose esistono, nonostante noi. E io sono in questa stanza, nonostante i miei pensieri. La forza dei sogni è una bella fregatura. Ti spinge a varcare orizzonti sconosciuti. Hai mai visto il vuoto che resta dopo un fuoco d'artificio?
Adesso però ho bisogno dell'odore del pane caldo.
E di un abbraccio sincero.
Delle mani di mia madre.
 Nel perdere un pezzo di me, io non smetto di avvicinarmi alla mia essenza.
Incauta, barbara, brutale, ogni sensazione, è uno strato che mi avvicina pericolosamente
alla mia mente.
E resto immobile.
Perchè nel gioco delle aspettative e delle conferme la stadera si ribalta.
Poi all'improvviso, la mia nipotina mi ha indicato con le sue dita bellissime il cielo, mentre salutava le stelline.
Avrei voluto ritrovare in un posto segreto tutte le mie parole. E anche le tue. Ma non è successo.
Ogni volta che hai fatto l'amore con me lo hai fatto con tutti i miei sogni ed i miei incubi.
Praticamente un'orgia.

martedì 25 agosto 2015

E avvicinarsi pericolosamente all'errore.
Fino a provare l'emozione di sfiorarlo.
Come un pavido incompiuto.
E poi convincersi che è tutto sbagliato.
Morbida suggestione.
Perché la misura del bene è sempre inesatta.
E poi oscillando si perde la direzione.
Adesso, ad occhi chiusi,
nascosta dentro me stessa,
ascolto il mondo.
E la sua scia.
Eppure avrei un disperato bisogno di una favola nuova.
Sangue e cielo.
Detesto la parola bisogno.
Disegna tutta la incapacità.
E il limite.
Mentre
mi
affascina
perdutamente
la
forza
del
sogno.
E si sbriciola la differenza tra sognare ed osare.
Io e la mia mente ci apparteniamo.

                 
 

     

Scomposta.
E la mente in quale cielo?
Forse un rettangolo dimenticato.
 E i piedi nelle nuvole, a prendere a calci le stelle.
Sara, non vi è dolcezza nella tristezza.
La tristezza è triste e basta.
Condannata nella sua dimensione.
Nel suo bordo stretto e livido.
E non gocciola seduzione.
Come ti piacerebbe, piccolina.
Strisciarla, cruda, sulle labbra.
Fino a farle sanguinare.

In fondo ai tuoi occhi io scorgo un frammento segreto di te.
Come una conchiglia smarrita.
Hai l'anima che profuma di mare.
Così ti piace pensare.
Ma a volte è solo un inganno.
Una malia.
Come se quel frammento non ti appartenesse.
O forse non c'era.
Ed è così triste avere il bisogno di ritrovarsi negli occhi degli altri.

 

 
             
 
 

      

E mentre ti confessavo il mio peccato, lo dimenticavo.
E mi sentivo assolta.
Perchè esiste una strana innocenza.
Quella immemore.
E mi voltavo e mi ritrovavo nuova.
Come adesso.

"...Lascia che il buio si faccia strada.

E' la lanterna che ti conduce a me.

Lega i nostri polsi in un nodo.

E' il buio che segna la mia carne.

La scava di desiderio e la cosparge di brividi e di attesa.

Lascia che il desiderio disegni e segni il mio sentiero.

Come inchiostro invisibile.

Svelato solo ai tuoi occhi.

Nasconditi dentro di me.

Come il seme si nasconde nella terra.

Voglia essere la tana del tuo cuore.

E la culla del tuo respiro.

E piovimi tutto l'amore di cui sei capace.

Contro la zolla della realtà.

Dentro i fiumi scavati dal mio desiderio di te.

Spalancami l'anima.

E battimi nel cuore.

Fino alla fine di me.

Sulla mia pelle languono i segni del tuo nome.

Inciso sulla carne e baciato dall'intreccio del nostro sangue.

Se lo fa tremare dentro.

Fino alle ossa.

Prenditi tutto.

Perché io sono tua.

Ti dono la mia aria.

Altro non ho.

Rifugiati nei miei meandri.

Oltre il cancello.

Spalanca la mia paura.

E frantumala.

E poi spargila nel vento.

Come polline fecondo..."
(estratta dalla sacca del tempo)
 

 
                 
 
 

      

E
poi
descrivermi
nel modo
peggiore
possibile
mi rende
libera
dall'ossessione
della perfezione.
Un brivido, una vertigine, una fitta,
un punto che pulsa alla rinfusa
e io la sua eco
e nuovo dolore
per rimuovere
il solco ancora fresco
di quello
or ora levigato.
Vorrei descrivertelo...
è un'onda nera
che non copre
ma graffia.
Feroce come un morso.
E i suoi segni, nella mente.
Nessuna mente divorerà ancora la verginità della mia bocca.
E le sue promesse infrante.
 

 
 

Forse una goccia.

O altrimenti l'immenso.
Nella luce mi nascondo l'anima e, senza sbavature, la preservo.
Perciò, la mia casa è il buio.
E non resisto alla armonia scomposta della indecenza.
Quasi fosse un sussuro eterno.

E poi nella terra
il desiderio
come il seme.
Perché
alla
fine
di
dolore
non
si
muore.
Vince la vita.
Anche se
irrimidiabilmente
si cambia.
Resta la perversione
del perseverare.
Quasi come rammendarsi le ferite.
Un
brivido
in
quel
precipitarsi
che
infilza
come
una
vertigine.
Per guardare la cudeltà
più
da vicino
possibile.
Se non aiuta
a decidere
cosa essere
serve a scegliere cosa non essere.
Nulla
che
non
sia
assolutamente
autentico.
Ricordi l'odore dell'erba?
Nella mia terra in alcuni punti
si mescola
vergognosamente
con la salsedine.
Credimi
è irresistibile.
Eppure
più volte
ho sussurrato
il tuo
nome.
Con poco pudore
e senza tregua.
 

     

A volte accadeva, quasi per caso, che il desiderio le partisse dai polsi, e facesse dei giri impensabili, come un dardo senza direzione. E che i polsi dal desiderio fossero serrati, ma con dolcezza. Allora sentiva quella  emozione, o forse era solo una sensazione beffarda, al confine tra il piacere ed il dolore. In quel solco in cui alcune donne incastravano l'errore e non sapevano farne a meno. Aveva provato a spiegare, ma era più facile fermarsi alla apparenza, alla sensazione di curiosità o di sdegno, osservare sulla soglia la sua mente che ancheggiava, piuttosto che fermarla, accarezzarle la mente, con decisione, e farla sentire assolta, abbracciata, forse compresa, o solo vicina. Sara aveva sogni strani, secreti dalla sua mente, come se fossero rivoli di piacere, pronti a solcare sponde ignote. E non si negava, offrendo pezzi di sè, come capitava. Le sue mani bianche, le sue iridi feroci, le sue labbra livide, le sue caviglie ferite, e si spalancava, sogno dopo sogno, solo per ricercare ancora il frammento di quel dolore, che le faceva una immensa compagnia, e per avvolgersi nell'alone del giudizio, sino a farsi disprezzare. Perchè avvicinarsi al male le era sempre piaciuto, per guardarlo da vicino, per osservarne le movenze, perchè desiderava la redenzione di quella carne che si impregnava di brividi ed a cui aveva sempre negato amore, un amore vero. Poi era accaduto, aveva ripiegato il cuore e aveva lasciato le mani nel vento, e così aveva provato sollievo. E non sapeva spiegare, solo che quella sensazione tornava, ad ogni tocco, quando si schiudeva come un fiore, per implorare un nuovo morso, più forte del precedente, per nasconderne a sè stessa i segni, e sentirsi almeno per un istante intonsa, di nuovo, come se non fosse mai esistita.
Eppure basterebbe così poco.
Ma il piacere lo esige il cuore, non la carne.

 
                 
 
 

     

Donna, fatta di acqua, che acqua diventa ed acqua rimane, e pura si perde verso il cielo, per riprecipitare, preghiera, dopo preghiera, fatta di nuvole. Acqua che scorre, senza forma, e con mille e più forme,  e mai sa smettere, che poi si infila tra meandri sconosciuti. Goccia dopo goccia, ora lontana dalla luce, per scivolare, oltre ogni segreto, ora incontro alla luce, affamata di sole buono e sincero, con le braccia calde e goffe della comprensione e della tenerezza, in cui perdersi significa esistere. E sa corrompere la materia, penetrarla, segnarla, non per lasciare il suo segno, ma perchè ha bisogno di osare, di segnare il percorso, una via di fuga. Nella mia mente, non serve affacciarsi, ma precipitare, oltre ogni pioggia e deserto, senza funghi per cappelli, senza scarpe, una musica fatta di fiori, del loro odore selvaggio, provvida, più di una primavera, di attesa della inclemente estate. E là incontrare i miei sogni, ed i miei orrori, la rete dell'errore, del sentirsi sporca, pur non sapendo di essere acqua. Per salvarsi, senza essere mai stata condannata.
All'improvviso le rose sono fiorite. E non ne vedo i colori, le corolle e le spine. Ma solo il loro odore che si stempera nell'aria.

 
 
 
 

     

Incompiuta, lo confesso. Come una melodia interrotta. Ed anche instabile e animata da una voglia di chiarezza che alla fine confonde tutto. Come se le parole non fossero altro che lettere. Ossimoro tra carne e anima, mai in pace tra di loro. Con i confini nel nodo del peccato.  Disegno la mia mente con un tormento indifendibile che a volte è un distillato di cielo, altre di terra.  Pece che nasconde e affoga. Detesto non essere compresa, in quegli istanti cancellerei il mondo, con un "delete". Ma poi ci ripenso e spesso la mia solitudine è nel non saper aspettare, ma da qualche parte ho imparato che il tempo tra te e gli altri fa troppo male, come se fosse una tasca in cui accumulare indifferenza e distanza. Meglio distruggere tutto, pur di attenuare il dolore, almeno un poco, perchè altrimenti fa una gran compagnia.
Ma oggi c'è il sole, e ho voglia di mare.
Ci penseremo domani.

 

 

Asterisco      

Non sai districarti nella mia morsa. E respiri, ti respiro, quasi gemo. Mi detesto quando percepisco la crudeltà del mio piacere, e il tuo sangue che mi pulsa vicino, fino a frammentarmi i pensieri ed i sogni. A volte è lo stesso, sai? un volo che sembra renderci liberi, fino a moltiplicarci, come pani e pesci. Senza nessun controllo, se non il vezzo di vivere, bene, il più possibile. Non sono una preghiera ma la peggiore imprecazione che tu sappia pronunciare. E mi contraggo, prima di divenire lava, senza saper smettere di scorrere. Adesso se tu posassi le labbra sul mio cuore,ti bruceresti.

Luna bagnata
E come la riva viene bagnata dal mare, tu mi lavasti, fino a lasciarmi a tremare nella pioggia. E da allora non so tremare, né pregare. A volte ho creduto che la misura del desiderio fosse il peccato, ma poi mi sono ricreduta e l'ho calibrata alla ingenuità. Non quella ostentata o lasciata sbiarciare, oltre le gonna, ma quella che dal sangue buca la pelle e macchia, lasciando aloni candidi e mai pregni. Non sono oscena ma una luna di sangue che a volte sanguina e altre attende la ferita giusta. Quella che poi si fatica a dimenticare. Come se la gioia non fosse altro che l'attesa non satura del dolore. E nei giorni, come oggi, proprio come questo, quando non sanguino, ho una fame immensa ed invereconda, e potrei fare molto male.

 

Futuro Remoto       

Ridicola follia tra stralci di un passato mai avvenuto, ossimoro tra sogni e lividi.


Lascia che il buio si faccia strada.

E’ la lanterna che ti conduce a me.

Lega i nostri polsi in un nodo.

E’ il buio che segna la mia carne.

La scava di desiderio e la cosparge di brividi e di attesa.

Lascia che il desiderio disegni e segni il mio sentiero.

Come inchiostro invisibile.

Svelato solo ai tuoi occhi.

Nasconditi dentro di me.

Come il seme si nasconde nella terra.

Voglia essere la tana del tuo cuore.

E la culla del tuo respiro.

E piovimi tutto l’amore di cui sei capace.

Contro la zolla della realtà.

Dentro i fiumi scavati dal mio desiderio di te.

Spalancami l’anima.

E battimi nel cuore.

Fino alla fine di me.

Sulla mia pelle languono i segni del tuo nome.

Inciso sulla carne e baciato dall’intreccio del nostro sangue.

Se lo fa tremare dentro.

Fino alle ossa.

Prenditi tutto.

Perché io sono tua.

Ti dono la mia aria.

Altro non ho.

Rifugiati nei miei meandri.

Oltre il cancello.

Spalanca la mia paura.

E frantumala.

E poi spargila nel vento.

Come polline fecondo.


Era ieri...
 

non è mai stato così difficile...

              
Ascoltare la voce del mare. Ha inspiegabili picchi ed inflessioni, ed io la seguo come un nastro che si slega, oltre le mie ciglia; mi sporgo con il respiro e la voglia di star bene. E tutto trema, come un miraggio. Una e mille voci si sfiorano e mordono le mie paure che non mi toccano più. Ho questo inspiegabile peso della incomprensione, un macigno che ottunde e non sento più la poesia del flusso della vita, i suoi riccioli sparsi; come se all'improvviso io non riesca più a sentire altro che il battito confuso della mia mente e la mente ovunque. Ed ogni contatto amplifica la distanza, e mi proietta lontano come una stella senza luce, ribaltata sotto il soffitto, tra gemiti senza anima. E senza firmamento alcuno. Ed è così imbarazzante il vuoto che provo, goffo ed austero, immemore e feroce, nello stesso tempo. C'è troppo di niente. Ed è immobile e si intreccia al respiro. Forse basterebbe un raggio di sole buono, proprio quello che non sembra mai scalfire il mio cielo. Ed è racchiuso in una mano. In quel tocco che non fa male.
Ed è così che ho smesso di notare i dettagli, perchè l'essenziale è sempre e solo nell'essenziale.
E in null'altro.
Ed è sempre tutto così poco chiaro.
Da non aver bisogno di altre spiegazioni.
Perchè io non voglio sapere.
E mi rifugio nella periferia di me stessa, perchè nel centro c'è senza dubbio troppa confusione.

 

non è mai stato così difficile...

              
Ascoltare la voce del mare. Ha inspiegabili picchi ed inflessioni, ed io la seguo come un nastro che si slega, oltre le mie ciglia; mi sporgo con il respiro e la voglia di star bene. E tutto trema, come un miraggio. Una e mille voci si sfiorano e mordono le mie paure che non mi toccano più. Ho questo inspiegabile peso della incomprensione, un macigno che ottunde e non sento più la poesia del flusso della vita, i suoi riccioli sparsi; come se all'improvviso io non riesca più a sentire altro che il battito confuso della mia mente e la mente ovunque. Ed ogni contatto amplifica la distanza, e mi proietta lontano come una stella senza luce, ribaltata sotto il soffitto, tra gemiti senza anima. E senza firmamento alcuno. Ed è così imbarazzante il vuoto che provo, goffo ed austero, immemore e feroce, nello stesso tempo. C'è troppo di niente. Ed è immobile e si intreccia al respiro. Forse basterebbe un raggio di sole buono, proprio quello che non sembra mai scalfire il mio cielo. Ed è racchiuso in una mano. In quel tocco che non fa male.
Ed è così che ho smesso di notare i dettagli, perchè l'essenziale è sempre e solo nell'essenziale.
E in null'altro.
Ed è sempre tutto così poco chiaro.
Da non aver bisogno di altre spiegazioni.
Perchè io non voglio sapere.
E mi rifugio nella periferia di me stessa, perchè nel centro c'è senza dubbio troppa confusione.

 
 

Stella mozzata

              
E passi come ciliege. Un sassolino e un sorso. Tre lacrime e poi nulla più. La indifferenza non si colma con nessun fiume. E io mi scorro, fino al piacere più selvaggio, mentre mi insegui fino al precipizio. E mi raggiungo mentre tu mi tocchi. Non siamo carne ma voli di farfalle cieche. E poi corolle di fiori sconosciuti. E nella cera ho lasciato le mie impronte. Tu prova a cancellarmi, se ci riesci. Io non mi salverò. E non ho nessuna intenzione di salvare te.



luna semi.seria

              
Non conosco altro modo di conoscere gli altri, che essere me stessa, e non parlo di sincerità - quello è l'incanto che avviene talvolta, di rado, forse una volta sola o mai - ma del bisogno di sentire gli altri, di annusarmi addosso le impronte e restituirle, a modo mio, spesso sbagliato, ma sforzandomi di essere autentica. Parlo di quel limite prima del contatto. Ho smesso di cercare artifici nella comunicazione e quelli degli altri li riconosco subito, sono gli stessi che spesso ho praticato sulla mia anima e sulla mia mente, troppe volte e si slabbrano in strategie di difese, di manifestarci più o meno forti, tristi, felici, annegandoci in un mare di percezioni di facciata. Poi ho compreso, o forse ho intuito, e deciso che ogni percorso di conoscenza è un modo per percorrersi ancora, per continuare a capirsi senza capirsi, perchè siamo alberi con una sfacciata ed immensa voglia di sentirci i rami nel vento, di sentirci esplodere le foglie addosso, di resistere al gelo, in attesa di altre primavere. Alberi inversi, senza terra, con una maledettissima voglia di penetrare il cielo. Siamo oltre ogni apparenza più scintillante, anche se tenta di oscurarci. A volte penso che nulla ci lascia più nella luce del buio. Siamo oltre ogni parola, plausibile spiegazione, oltre ogni ragione tolta e negata, oltre ogni equivoco, siamo quello che sentiamo, e che non smette di urlarci dentro, contro ogni silenzio. E mi perdo nell'incomprensibile, perchè so che avvicinandomi non lo afferrerò.

 

Sangue di fragola dal rubinetto...

              
Fervida disarmonia. E mi volto. E mi abbraccio. Non voglio ritrovarmi, ma solo sentirmi. Pezzi di donna, con l'anima in mezzo. Ed è fortissima l'esigenza di restare immobile, perchè si ha il bisogno di sentire quello che si è dentro, come se la carne ne fosse l'involucro ed il sangue ne segnasse il percorso. In genere, quello che scrivo corrisponde meno di adesso a quello che sento, come se lo estraessi, da un cassetto dimenticato, ed il corpo ricordasse, con più o meno dovizia di dettagli, ciò che è stato e ciò che mai fu. Oggi, le dita, si sottraggono all'immobilità, che forse è uno solo strano silenzio. Con il respiro avvolto nell'aria, raggomitolato, ho solo voglia di cancellare, carezza dopo carezza, e abbracciare ogni pezzo di me, oltre ogni mancanza di pudore, oltre ogni confidenza tradita, e ogni lacrima smarrita, come perla di una collana spezzata. E mi tengo il cuore tra le mani, per capire, ancora una volta, e mai più, che non è un pezzo di carne. Il mio cuore è fatto di nuvole ed a volte ha bisogna di un gran vento che gli pulisca il cielo. Altre no, di diluvi interminabili. E di poche parole, non esatte, ma giuste, capaci di incastrarsi ai battiti, come un metronomo irregolare, ma infaticabile. E le parole seguono il respiro ed il respiro la linea delle labbra e la mia bocca si schiude in un pensiero. Segreto. Non chiamatelo peccato.

 

 

Non chiamatemi aria

              
E non resisto, proprio non so, non ci riesco, e mi ammalia quella leggerezza che sa di profondo, quella che sa accarezzare, senza graffiare, e che sa sfiorare e poi all'improvviso si immerge, senza ferire e scava e non fa male, tocco dopo tocco, apnee languide, e te la trovi, senza sapere come, intrecciata al fiato, a schiacciarti i battiti e la senti, perchè altro non puoi nè sai, come quando esplode un fuoco d'artificio e nel cielo c'è solo un grande buio e la luce e le sue scie neanche sai dove sono finite, ma il cuore non sa smettere di batterti. In quell'istante sei solo un cuore che pulsa nel buio. Buio. E io mi ritrovo. Buio e so di esistere. Ed è il buio la casa dei sensi, dei miei, la grotta in cui la mente si fa liscia come un filo d'erba e attende la vita ed il suo soffio. Nel buio colorami, e la mia carne smette di esserlo, e la mia pelle diviene tela e la mia mente non ha più parole distinte e nette, ma solo schegge capaci di avvicendarsi, di inseguirsi, di modificarsi la traiettoria, in una corsa folle, senza senso, oltre il sangue. Ecco, io adesso non ne ho, e non sono più una pagina, ma una donna, che ti chiede di baciarle i suoi polsi, perchè i tuoi baci non siano un modo per cancellarle i segni ma solo per disegnarne di nuovi, come carne che chiede impietosamente nuova carne, nuovo fiato, nuova vita, umida e che incalza, senza smettere, senza logica, senza ragioni, senza limiti. E già ne sento il rumore irresistibile che si avvicina. Io non ci sarò quando aprirai quella porta, perchè si spalanca su prati sconosciuti dove io voglio perdermi. Senza nessuna pretesa di ritrovarmi. E di notte si sa se vuoi guardare, perchè io mi lascerò guardare, devi avere molto coraggio.
Per non calpestar le stelle.
Perchè ti avviso, poi fa davvero male.

Mela rossa ed i suoi spicchi

              
Ed è un giorno di sole pieno. Fitto di pensieri. L'odore del mare rassicura, accarezza, consola; avvolge come un lenzuolo che protegge, fin che ti viene voglia di restare ferocemente nuda, nel tuo silenzio, che silenzio non è mai. L'anima parla e non sa smettere. Davanti allo specchio la donna mi trafigge con il suo sguardo lontano, quasi pesante, fatto di piume e labbra a forma di passione, con il solco gravido di desiderio. E si fa dolce quando culla la bambina e non sa smettere di abbracciarla, assecondarla, lei ed i suoi brividi. Così nelle notti fredde si raccontava fiabe, lunghe, tutte senza fine. La donna si riguarda e la bambina è di spalle. Vuole essere coccolata ed inseguita e lei lo fa, ci prova. E si sovrappone. Unica come la verità che sente e che fa male. Dritta nel petto, a ridosso della pelle, dove si fa tutto più sottile. Perchè non si nasconde, dietro veli oscuri, non sa nè può. Non ostenta mistero, non serve. E nè li scosta quegli strati, perchè l'intimità non faccia più tanto male. Ma le parole divorano quel suo pudore. E la memoria anche, voracemente. E si lascia levigare dal futuro, come se ci fosse un coraggio nuovo nella voglia di vita che sente  e che infila nelle cose. Senza bisogno, questa volta, di essere compresa; forse quella era di ieri, ed oggi pulsa nelle tempie, e sui suoi polsi, dove qualcuno disegnò un tempo dei mughetti. Ed è un giorno zuppo di sole. Come quando devi uscire nella luce e devi sprovarci nel lasciarti mezze verità alle spalle. Oggi niente ombra, perchè la voglia di bene puro mi sta colorando le ciglia e quasi mi intacca le idiri. E così mi allontano, senza essermi mai avvicinata, senza alcuna impronta e nè alone, mi allontano e non raccolgo i miei passi. Nè i baci sognati e strusciati nella mente. Io c'ero, del resto me ne frego. Oltre ogni pretesto e ogni ragione. Io non voglio sapere.

 

E l'azzurro

              
E non era cielo, ma inferno terribilmente azzurro, quello dell'ora blu, di quell'ora di mezzo, sospesa tra il momento in cui il sole fa capolino e la luna stenta a sporgersi. Nessun astro, solo un blu imbarazzante, nella sua bellezza, e poi un sospiro, più di uno, ed una serie di pensieri, uno dietro l'altro, una raffica impietosa. Io ti ho violato, tu mi hai violata. Ed è forse questo? In questo si sostanzia l'essere assurdamente sbagliati. Il macchiarsi la carne solo perchè la mente incalza sul corpo, mentre il cuore è un astro nell'ora blu. Azzurro e muto. Assente ingiustificato. O forse impietosamente vivo altrove. Ma la vita che senso ha se tutto deve avere il suo senso? Ed i minuti devono incastrarsi necessariamente tutti per avere una loro dignità? Non sono ammesse pause e deroghe a questo tempo senza tregua. Certo, ora la so. Io violo, ma solo me stessa. Errore, dopo errore. Non cercatevi nelle mie parole. Là ci sono solo io.

 

Indiscreta come una falena nella notte

              
Non sapevi, non dovevi. Avevo percezioni con lembi rigonfi di piacere, ma non osavo confidarlo. E ricercavo nei sogni la sagoma della realtà. Mi raggiungevi ad ogni alba, tra rivoli di rugiada, mentre mi ribaltavo in un orgasmo rosa, sfuso e confuso, ed al risveglio restavo immobile, a dimenticare tutto con precisione, nell'odore della terra. Non lo ricordo più tutto quell'amore rubato. Lo avevo estorto, masticato, risputato, e lo ricomponevo nel silenzio della notte, per imbrattarmi di te, prima del risveglio, quando i sogni dicono siano più vicini alla realtà. Ma chi lo dice mente. E anche io mentre scrivo, non so smettere di mentire. Perchè la verità è troppo preziosa per essere letta, come capita. Nella mia alba, te la ho sussurrata ancora, sillaba per sillaba. Sono sincera. Questa volta, forse...

Come per incanto

              
Non mi volto mai. Non più. Perché i giorni sono solo assemblati di ore, figli di una regola provvida e finta, di una rete che incatena il tempo e con lui i nostri battiti, piccoli eroi incuranti che incedono nel sorso dell'esistenza, spersi nell'esercito del sangue e delle mille albe spezzate. Là la mia mente si adagia ed oscilla, come una luna su un fianco. Ogni carezza potrebbe lasciarle perdere il suo equilibrio, più di ogni schiaffo. In momenti come questi mi piace sentire lo sguardo sulla mia nuca e farlo scivolare, lento sulla schiena, come una lama, raccogliendo brividi come perle di una collana da spezzare all'improvviso, più di  mille sguardi annegati nelle iridi. E non chiudo più gli occhi perchè io sono padrona delle mie ciglia. E guardo il mondo ad occhi aperti. In momenti come questi ho bisogno di stordirmi con la più indegna oscenità, nella contorsione tra la donna e la sua anima, e frapporre tra me e gli altri distanza, una distanza immensa, fatta di rose nere e frammenti di parole; parole capaci di sembrare storie ma abili solo a puntellare la solitudine di un muro nudo. E di disegnare radici sui miei palmi, come se fossero alberi inversi. Con l'insopprimibile voglia di una comprensione diversa e profonda, senza eco. E con sillabe distinte. "E adesso entrami dentro e fammi molto male. Quello che cerco è la devastazione mia e di ogni limite, perchè così smetterò di aver paura". Nessuna favola liscerà l'alone di quel terrore. E poi non so più ascoltarle, nè voglio sentirle.

Cigliaalcioccolato

               
E non so quanto io sia stata mai più lontana di adesso da me stessa. Nè me lo chiedo. Gli uccelli cinguettano voracemente, e non c'è calura che tenga e che ne sfiati il canto. E il vento, tiepido e quasi denso, con la sua eco di pioggia lontana, fa cigolare il cancello, e sento che il mio mondo è qua, nel mio rettangolo di vita e di tempo e poi di anima e di carne e saliva. Ed è esattamente qua, nella mie vene verdi e blu, screziate di viola, che dal polso, come rami lievi, si sperdono nelle mie braccia, e annegano nella mia carne, e forse sfiorano l'anima, e poi non so dove si inabissino, nè se lo fanno. Io sono qua e nella vita che scorre, mentre il cane del vicino non smette di abbaiare, e la palma ondeggia davanti alla mia finestra. E sto nella fioritura della mia lavanda, nelle mie scarpe nuove, nella mia caviglia dolorante, e nelle ciliege che mi macchiano le labbra e poi ancora sono nel film che è appena finito, nei suoi titoli di coda. Cosa divento? Cosa ero? Non ho poesia oltre le frange di questa mente. Non ho altro che questa mia anima slabbrata che lascia sempre un pezzo scoperto. Quasi a morir di freddo. La neve sul cuore, io lo so cosa è. E lo so, ne sono certa, perchè altro non può essere, che questa notte basterà per cancellarti, per farlo per sempre. Ci sono quasi riuscita, e mi manca qualche schizzo ancora di stelle, per dimenticare. Per levigarmi la mente, come un foglio candido, che candido non torna più e questo mi strazia. E a volte mi piace ed altre no. Adesso non saprei. E così facile passare dall'immenso al nulla. Un'altra ciliegia ancora, il suo succo dolce, e poi ci ripensiamo.