mercoledì 14 dicembre 2011

Ti assale un tormentato bisogno di inesistenza. Veli di assenza. Come se essere di polvere, di vento o di agitati mulinelli, significasse inesistere. Vagare fino a sentire l'ostruzione di ogni difficoltà. E riallinearsi con la fine. Le ossa contro il pavimento a dare la misura del contatto, quasi dell'aderenza più disperata. Ho urlato, tra le vene, di non andare via. Poi mi sono arrotolata una ciocca sul dito indice e l'ho puntato verso il sud. Ho tre gocce di tormento e le conservo per le grandi occasioni. Distillato di purissima rabbia. Ho bisogno di leggere e dimenticare. E tutto rigorosamente bagnato da un pò di egoismo. Sembrava un'alba di cartone, quella del sole rosso, screziato di arancio. L'ho vista riflessa in una pozzanghera all'angolo, giù per strada. Ma non aveva piovuto e non so chi l'avesse messa là, come un effetto speciale. Forse un cane incontinente. La luna ha tremato su quel bordo e si è spostata. E un sole inopportuno ha dato inizio alle danze. Questo io non lo so. Mi sono limitata a pensarlo. A volte ti assale l'esigenza di soffrire, tiene impegnati mentre potresti fare altro. Le coperte contro la schiena e una mentina sotto il palato, prima di dimenticarti oggi.
Poi domani ti ricorderò ancora.
E fortunatamente sarà tardi.
Quasi una benedizione.
Appendersi ad un istante, e rinnegare tutti gli altri, per attenderlo è quasi morire.
La vita è più forte di tutto il resto.
Anche se nessuno ha mai pensato a brevettarla.

martedì 29 novembre 2011

E accadde mentre si lavava i capelli. Le accadde di capire, mentre tra lei ed il soffitto c'era solo acqua che le rigava, indulgente ed imprecisa, il cranio e separava, senza dividere; già acqua, acqua che non sarebbe tornata, e che giocava lenta ed implacabile sul suo capo. Una matassa di sogni spenti ed asciutti che ricominciava a strusciarle addosso. In uno di quei momenti in cui il corpo diventa un oggetto, tra gli oggetti. Come se fosse svuotato di ogni volontà. Il corpo è una cosa che si lascia vivere da noi. L'oggetto degli oggetti. Nel gioco della vita. Come se fosse un pulsante, un joystick, una lancia, uno sputacarezze, una ruspa o una pinza da insalata. E poi pian piano diventa sempre altro. Una specie di magazzino. Lei comprese, ne percepì una vaghissima sensazione, nulla di tattile, ma trattenne. Tenne per quale istante quella sensazione di essersi avvicinata alla verità. E che forse la verità non le interessava. Perchè la verità non era mai reale. Nè ferma. Era la non verità, senza diventare menzogna, che diventava solida, forma, carne e misura. E di riflesso ci dava la possibilità di cambiare strada. Ancora a raccogliere vita e voglia e desiderio. Per quello deviamo e ci rivoltiamo e continiamo a camminare. Contro ed oltre ogni apparente immobilità. Così slentò la sua corsa dietro a quel perchè. Lo sentì scivolare via con l'acqua. Come quando da bambini si capiva il trucco. Ed era solo imparare ed imparare a capire. Quella era una domanda che ne aveva precedute altre. Perchè domandare era un modo per smettere di rispondersi. Non aveva mai previsto che tentare di vivere fosse una possibilità. Una tra le tante. Senza che fosse neanche la migliore.
Solo che aveva il sapore del sole.
E forse una parola nuova da sciogliere sotto il palato.
Non voleva spiare il mondo.
Lei voleva guardarlo.
Ad occhi pieni.
Ed inspiegabilmente alternava un pensiero delicato ed uno brutale.
Quasi mangiarsi di baci e morsi.

martedì 8 novembre 2011

Mi piace scriverti sul collo. Dita e fiato. Pensieri invisibili. In una specie di pudore che si accumula fino ad esplodere in una cascata di impeto e delirio. Ti segno lentamente quei pensieri, e poi sempre di più. E ti racconto le mie fiabe e poi ancora e ti soffio le mie storie immonde e macabre. Tutte le paure di cui sono fatta e che sono diventate carne e desiderio e piacere e baci. Tu ti dimeni, ma io non smetto di raccontare. Di inventarle. Saliva e altri baci. E le mie labbra sulle tue vene. Come una zattera lungo un corso d'acqua. Non smettono di seguirne il sentiero. Perchè se lo lasciassero andare crederebbero di annegare. Non c'è lieto fine. Nè foce nè estuario. Nessuna cima da cui nascere per poi morire a valle. Solo autunni rossi e fragili. Io dentro una coperta. E il mio cuore sulla tua schiena. Mi sforzo di moderarne i battiti. Di dosarli, per non far rumore. Non voglio che tu ti accorga del demone che mi morde le viscere. E per non farti capire quanto io tu mi piaccia. E mi piaccia piacerti. Solo un poco. Lo confido solo al tuo lobo sinistro. Come se fosse di miele. Non mi resta che addormentarmi, in questo sogno. Con gli occhi addosso, su un palcoscenico senza regia. Mi addormento e ti lascio scivolare come un serpente spaventato, ti lascio volare come una colomba, o evaporare come neve al sole. Perchè tutto quello che serve e che mi serve è dentro di me. E' così che una donna si scompone e si ricompone, sogno dopo sogno. Come una matrioska di cartone. Basterebbe una pioggia per rimescolarne la carne e non ritrovare più i confini ed i limiti tra le sue parti. Dimenticare è un pò rinascere. Senza odio nè indifferenza. Altrimenti significa solo di sovrapporre. E inutilmente perdersi dentro di sè. Come in una foresta che diviene sconosciuta e nemica.
Questa foglia appena sotto la pelle è un segno di te.
Di quando mi hai resa principessa nel castello.
E mi hai pianto e riso e sorriso e baciata.
Tutto dentro gli occhi.
Come se fossi la cosa più bella che poteva capitarmi.
Per poco.
La misura dell'incanto.
Lasciarsi bastare la bellezza, senza pretenderla.
Altrimenti diviene dolore.

lunedì 31 ottobre 2011

*

Non è uno di quei giorni in cui mi va di raccontare. E' raro che io lo faccia perchè adoro ascoltare, anche quando non riesco a smettere di parlare. Mi piace perdermi in quei corridoi che si spalancano nel contatto tra menti. Anche se non vedi fino in fondo e ti piace intuire. Qualcosa che si avvicina all'onestà mentale ma che spesso si ripiega, all'improvviso, come una spada sul fuoco e cerca solo carne da ferire. Io, in genere, scivolo su pareti. Come un ragno pigro e lento. E mi sporco di astratto pensare. Oggi mi va, invece, di pensare a voce alta, o meglio a dita strette. E forse anche ieri. In una lettera che vorrei far volare come un piccolo aeroplano di carta. O vorrei far navigare come una barchetta in un lago. Mi piace pensare, e questo vorrei, che fosse capace di scivolare e arrivare in un posto pieno di luminosa e leggera comprensione. Senza bisogno di nome. Chiamiamola condivisione, quasi per convenzione. Io la chiamo dono. Perchè tutti coloro che ho incrociato mi hanno donato qualcosa, in questo mare di pensiero e di pensare e di pensato nonchè di pensabile e forse di impensabile. Anche quando non ne avevano intenzione. C'è sempre uno scambio silenzioso, anche quando ci hanno portato via qualcosa. E paradossalmente ci hanno portato via qualcosa anche se non hanno portato via nulla. Nell'inconsapevolezza di cui siamo affetti noi uomini, nella circonferenza di cerchio morbido che si chiama vita, gli altri sono portatori, sani o insani, di doni. Un blog? Ne ho avuti tantissimi, e ci ho messo dentro pezzetti di anima sfusa, quasi rigurgiti di un'anima a tempo. Piccole e leziose cronache di morti annunciate. Malate di precarietà. Poi le trovavo diverse da me, da me mentre rileggevo, e stavo vivendo, dalla mia mente e dal mio respiro, in quel momento, e spesso, quasi sempre, ho cancellato. Era una specie di tentativo di ripulire le tracce di un percorso invisibile. Come la sosta breve di una gatta che si lecca il pelo per ripulirsi. Ma un blog? E' libera e sacrosanta manifestazione del pensiero e del sentire. E' l'incrocio tra lealtà e pensiero. Dentro una circonferenza che si chiama rispetto. Gli altri si affacciano a quel balcone. Qualcuno viene invitato ad entrare. E penso a tutti coloro che, a differenza di me, in una pagina ci hanno infilato pezzi della loro vita e pudore ed emozioni e tanto sentire, puro, come gli veniva dall'anima, ecco penso che posti come questo, grazie a loro, siano fogli istintivamente ed ugualmente preziosi. Un sentire precipitato dal proprio respiro. E hanno pensato e creduto, in maniera incauta, quasi da sprovveduti, di affidarlo a questo vento, che non sempre è portatore di giustizia e che spesso diventa capace di spezzare i lembi di quella circonferenza e di sporcare l'intimità di un pensiero.
Niente è più intimo di un pensiero.
Nel condividerlo c'è quasi religiosa bellezza.
Radici più profonde dell'amore.
Grondano di rispetto.
Devono.
E hanno una voglia pazzesca di lasciare esplodere i loro frutti.
Come al solito la mia matassa è andata alla deriva e la mia precaria linearità mi ha impedito di dire, o meglio di dire in maniera chiara e non equivoca, che mi dispiace ogni volta che la libertà del pensiero viene mordicchiata. Offesa, annegata, strappata. Sembra quasi di ritrovarsi in un giardino senza petali, senza fiori, pieno di steli orfani.
Ogni volta che si rinnega quella libertà si uccide un fiore.

mercoledì 26 ottobre 2011

Quel bisogno disperato, inutile e grondante di disillusa e asfittica gravità - come solo la disperazione sa e sa essere - all'improvviso, quasi ti schiaccia e ti spinge e ti costringe. A tornare indietro. Un passo ed un altro. Le ginocchia che si sfiorano. Le caviglie che si incrociano. Non è un ritorno nè una resa. Quasi si sovrappone senza diventare endiadi. L'orrore che si specchia con l'inutile. Senza guardarlo mai negli occhi. Ti riduce a farti nastro. A riavvolgerti. Insieme ai tuoi passi. I sogni sotto il braccio. Un vortice di donna e seta e dolore. Astratta. Come squarciare un velo, un lenzuolo o un nuvola. A disegnarti contro il muro. Sempre più astratta. Polvere, sangue, vertebre e respiro. Ed ogni respiro sentire graffi e carezze sulla schiena. In una alternanza iniqua. Ed una voce. Mai la stessa. E' disperato, ed urlato, morso e sputato, quel bisogno di dire tutto e di non lasciare nulla di non detto, di non provato, di non pensato. Di ripulire ogni traccia di pensiero con le parole. Di asciugarlo nel sole. Come se i pensieri fossero panni umidi desiderosi del calore e della luce. Di liberarsi da quell'olezzo maldestro e precario, quasi pungente. E tutto potesse prendere il suo senso ed il suo significato, solo se illuminato, nella luce giusta, inesatta, ma confortevole e buona, e solo se perfettamente asciutto, oltre ogni margine di umida titubanza. Al di là di ogni plausibile incertezza. Per quel bisogno, quella voglia, per quel delirio, mi sono persa. Sole dopo sole. Come una palla da calciare lontano. A sfondare il cielo, come una finestra. Mi sono stordita ed ebbra ho vagato nell'alternanza del buio denso e della luce invadente. E adesso continuo a dire, e ridirmi addosso, fino a vestirmi fitto di parole e solitudine lurida. Non sono mai stata più sola di questo adesso. Svuotata e vuota fino al fondo, come una bottiglia frantumata. Perchè ho provato l'euforia del gioco imperfetto. Quello che non finisce mai e nel quale tutti vincono e tutti perdono. E nel cercare qualcosa, qualsiasi cosa sia. Datemi quello che volete, anche la cattiveria, purchè sia vera.
E pettino la mia malinconia.
Infiniti colpi di spazzola.
Fino a rigarmi cranio e pensieri.
Ed è come rovistare i ricordi.
E spogliare le bambole.
Erano le prove tecniche del mio essere donna.
Le dita intrecciate, le labbra sopra il vetro.
Prima di posarle sopra un foglio e premerci una speranza, a stampo.
Destinazione paradiso.
Uno qualunque.
Magari piccolo e modesto.
Nulla di pretenzioso.
Non sono un angelo.

mercoledì 19 ottobre 2011

*

Vorrei descrivervi l'attimo dopo. Un rigurgito di quel mentre che ci inchioda a muri invisibili. Quell'istante che arriva immediatamente dopo il graffio. E ancora lo è. Trattiene la sua scia. Quando non riesci ancora a separare la ferita dalla carne, dalla pelle, dal sangue. E dalle ciglia piene di fango. E non sono neanche le due facce della stessa medaglia. Dell'errore e della verità. Non sono antitesi, anche se pensarlo fa bene. Come un sorso di acqua nell'arsura. Ne vorresti ancora. Come se il primo sorso non ci fosse mai stato. Righi dopo righi. E parole infilate là per caso. Perle di una collana spezzata. Come quando senti che devi proprio dire qualcosa, perchè tutto non vada perso. E ti lasci annegare in un precipizio pieno, troppo pieno, di parole. Le senti nella gola e poi scivolarti nelle viscere, senza divenire mai radici. Quando non senti per non sentire troppo. Ti spingi più lontano che puoi ad urlare contro le stelle. A scuoterle e a strappargli il posto.
Dopo quell'attimo non sei più la stessa.
Smetti di essere intera.
Di essere completamente felice o triste.
Resti ibrida.
Macchiata da ombre.
Ed ogni carezza fa male. Un male assurdo, e neanche sai che nome abbia quel dolore e fino a che punto ti sia braccio, mano o ginocchio. O solo gomito. O frammento di melodia. Un salmo antico. E' come se la pelle debba riabituarsi ad ogni alito che le si avvicini, al suo fruscio, al suo posto nell'aria, al suo rumore incauto, al suo calore ed alla forma che ti lascia e che prendi.
Ed ogni sussuro ti cade inerme in grembo. Come un insetto che ha urtato contro il vetro.E si ribalta con le sue piccole zampe all'aria. Una piccola morte che si accascia sulle gambe, prima di finire di morire altrove. Una biglia senza traettoria, e si scheggia senza rompersi mai. Avevo coccinelle nella mia scatola. E non capivo perchè volessero scappare. Credevo che una scatola fosse un piccolo mondo. E mi rifugiai nella mia. Per gioco. Perchè mi piaceva guardare il mondo dei suoi angoli. Mi aiutavano i giorni ed il tempo. E coloravano la vista del mondo, l'impatto e l'urto. Il mio mondo era la mia mano e io la sua coccinella, dentro la sua scatola.
Là non avrei sentito.
Nessuna prigione è peggiore di quella che siamo riusciti a costruirci.
Da soli.

lunedì 17 ottobre 2011

*

Nella assordante precarietà di cui mi bagno mi sforzo di cercare un senso. Precipito, solo per strofinarmi il cuore, tra strati di aria; forse per stupirmi. E spesso la vita fa da sè. Supera ogni previsione. E si strappa l'orlo nella più irragionevole delle previsioni.
E mi guardo vivere.
E vivermi.
Supplice carnefice.
Nel gioco soporifero ed indolente dell'impossibilità.
Chi vince perde. E sa che aveva già perso prima di tirare i dadi.
La sfida tra anima e cuore. E forse non vi è differenza. A volte mi consolo nel dirmelo. Nel modellarle. Nel farle l'una specchio dell'altra. O solo ombre reciproche, con il vezzo della forma. O di una prospettiva diversa. Di uno sguardo nuovo, o solo dimenticato. Come se avessimo tante voci con il medesimo timbro, ognuna fiera delle sue parole e prodiga di storie. Io adoro quella che mi racconta le favole. Quando fiorisce e si adagia mentre io ho persino dimenticato quel disperato bisogno, nascosto ed affondato in un dimenticato mio dove. Inespettata delizia si scioglie nei pressi del cuore e mi bacia, dolce e perversa, la schiena e poi le dita e senza fermarsi mi insegna a non avere freddo. Gioca con i miei brividi e li intreccia con fili d'erba. O forse con un abbraccio. In momenti come questi, sono oltre la pioggia. Oltre tutta la pioggia che mi è capitata, che mi ha scontrata, che mi è venuta addosso. Oltre le nuvole. Oltre ogni goccia disperata che si finge cielo e suo pianto. Sono qua, esattamente qua, nella mia pelle. E nel suo calore, precario e tenero, come una foglia nel vento. Quasi rifugiata in questa dimensione dove la mente si crede cuore e il cuore si lucida le scarpe per cancellare ogni alone. Ed ogni passo. Non c'è nessuna pioggia. Non più. Ma tornerà ed, anche se io non sarò ad attenderla, saprò accoglierla. Se potessi sostituirmi la mente con un pezzo di cielo sarebbe più semplice. E questo tormento, così irregolare, una spirale, o una linea pazza, o un puntino, una lama sottile, oppure un fiore pulsante, sarebbe forte, al punto da farla tremare, da farla piovere, da farla aurora o notte, da rivestirla di stelle, o di lasciarla nel buio.
Come se nulla fosse mai stato.
Un pieno, un troppo pieno.
Ingordo di vuoto.
E mi volto.
Solo per continuare a guardare.
O solo per aprire ancora gli occhi.

mercoledì 26 gennaio 2011

Nel punto di non ritorno si intrecciano rive e foci. Sponde della medesima indifferenza. Figlia di una confusione sterile. Nessuno sa chi ne sia il padre. Qualcuno la chiamerebbe figlia di puttana. Se non ci fosse stato un milligrammo di amore. Forse un filo.
Lasciami raccontare.
Non ti chiedo di ascoltarmi.
Ma di lasciare snodare la mia voce in una storia.
Una come tante.
Come una matassa che si fa memoria e voce.
La storia di un fiume che si annodava.
In confidenza e fiducia.
Ancora lo fa.
E fa male.
Ha un letto profondo.
Sembra un solco.
Come questo.
Questo minuscolo segno tra le dita.
Una veretta invisibile.
Scavata nella carne.
Un patto.
Una promessa.
Una ferita.
Se mi stringessi le dita la scorgeresti tra le tue.
Fino a provarne orrore.
Una minuscola fessura.
O forse una porta.
Un precipizio verso l'incofessabile.
Senza la forma del peccato.
Ma di una stranezza senza cintola.
Per quello io tocco con gli occhi.
E con le mie ciglia scalze.
E non manco.
Io esisto.
Botola egocentrica verso un nulla con il mio odore.
Io profumo di mela.
Strani aloni. Assedi della realtà. Quella della mente. La più difficile da far capire. E da strapparsi dalla mente. Una pellicola sottile. Umida come il vetro d'inverno. Dove potevo disegnare i miei girasoli gocciolanti. Aloni e lividi. Ogni volta che ti appoggi. Immoli la tua ingenuità in uno spigolo. E sei un pò di meno. O un pò di più. Neanche lo sai. Malefica opacità. La nebbia dell'anima. Anche le perle lasciano graffi. E ritracciarne il percorso ancora di più. Oggi vorrei una consistenza fragile. Forse un abbraccio. O forse un sogno. Dove sono le tue braccia? La cappa della favola. La mappa del tesoro. Il tetto di un inferno rosso e tiepido. Dove ti scotti la mente. Ma il corpo resta integro. Quello che non sopporto sono le tracce. Le scie di cui mi riempio. Le baratto in giudizi. Approssimati. Per un frammento di redenzione.
C'era una soffitta.
Ed una gatta.
Sola.
In attesa di una magia.
Lei sapeva che annusarsi è un atto di amore.
Strofinarsi il pelo è già riconoscersi.
Lasciarsi contaminare.
Per ritrovarsi.
O ritrovare solo un pezzo.
Quasi un ricordo.E' l'inizio di uno sfiorarsi senza regole.
Nella tela del ragno, io danzo. Attenta a non spezzarla.Tela invisibile e crudele.Donami parole crude. Più crude del sangue che mi sta scorrendo sotto. Non puoi vederlo ma se mi appoggi le mani sul cuore puoi sentirne tutta la forza. Parole capaci di infrangere il velo.Sono una gatta prigioniera in una soffitta. A caccia di calore. E neanche lo conosco il freddo. So che esiste. La paura impicca la conoscenza e dona un caldo asfittico.
E' facile confondere le lettere d'amore da quelle per l'amore.
Sono nidi di parole.
In attesa della musica.
Vorrei amarti come un'aria della Traviata.
Ed essere amata come tozzo di pane caldo.
Essere la provocazione sulla pelle che non resiste.
E la materia fatta diventare la perfezione capace di errare.
Di perdonare.
Di chiedere scusa.
Ecco le parole sono l'inchiostro di questa mente. Sono le unghie di questa gatta.
E poi vorrei smettere di detestare mentre sto ancora amando.
E siete un pò carne e luce. E forse dovrei dirvi che siete più reali della realtà. E siete nella mente. Quasi a ridosso del cuore. Qualcuno lo buca. E magari non lo sa. Oltre ogni logica. Oltre ogni zolla di terra. Oltre ogni seme che si schiude. Oltre questo cielo pieno di nuvole. E a volte le immaginiamo solo noi. Perchè il cielo è assolutamente terso. Siete qua. Piccole goccioline dei miei giorni. Siete qua. Nel battito. E nelle lacrime. E nel pensiero. Dovrei dirvelo. Siete nelle parole e nell'istante prima quando scorrono lente. Dovrei dirlo. Ma non ve lo dico. Perchè da alcuni ho imparato a resistere. E reagire. A tornare. Ad andare ancora. Ma c'è una verità che va oltre ogni lucida apparenza. E io mi sforzo di sentire le cose fino in fondo. Fino a sentirmi cosa tra le cose. E' il mio modo di capire. O solo di tentare. Io vi dono un pezzetto di me. Senza artifici. Ed è così che vi abbraccio. A cuore nudo.
P.
Vorrei sapere e avere le parole giuste. Forse per spezzare l'oscillante mimetismo dei concetti. Perchè la fame la indichi meglio con il pane. E pensando al morso. Al pieno. Più che al vuoto. Senza pensare al deserto del cuore. Vorrei saper scambiare cose. Quelle che chiamiamo sensazioni. Intinte nella realtà, ma così lontane. Forse nascoste sotto la pelle. La rete del delirio. Dove c'è tutta la fragilità di cui siamo capaci. Sotto. Nel groviglio di sangue e carne in cui qualcuno ha iniziato a modellarci. E poi ci ha lasciati a metà dell'opera. A volte lo dimentichiamo e lo scambiamo per immortale divinità. Mentre siamo piccoli frammenti di dei solo con l'anima. E' quella l'unica dannazione che ci è concessa. Perchè le parole sono ponti. Sono ami. Sono uncini. Se tiri troppo forte strappano e ti lasciano sanguinare. E allora sanno diventare fili. Capaci di far avvicinare senza unire i due lembi di una ferita. Come se fossero un'unica pelle.
A volte basta pensare al buio per iniziare a cambiare.
Il vuoto di luce dove riuscire a sentire tutti i cuori che abbiamo.
Anche quello nero come la pece.
Ed i suoi schizzi.
Al buio possiamo tracciare linee con le stelle.
E disegnarci ogni domanda.
Come se fosse una speranza.
O un coltello senza lama.
E il cuore resta tutto uno. Non si scalfisce. Non si graffia. E non perde pezzi. Anche se ci sembra. Capita che gli si adagino ruvidi strati. E ci allontanino dalla sua capacità di farsi sentire nostro. Ed è questo che ci fa male. Il sentire noi lontani da noi. Senza una parte. Ma quella parte non si è mai spostata. E' rimasta là. Sotto gli strati o troppo scoperta. E se ci capita, per caso o per difetto, di amare, amiamo con un cuore che non ha mai smesso di starci in corpo e di dimenarsi e sbatterci il petto. Di sciogliersi nelle vene. Non per diluirsi. Ma per arrivare ovunque. Come una campana stonata. E una canzone che sentiamo nella testa ma non sappiamo cantare. Amiamo con tutto l'amore che ci ha attraversato e che si è accumulato. E che preme. Forse un pò malato. Ma non per questo meno intenso. Meno forte. E riversiamo sugli altri tutto quello che il nostro cuore ha saputo provare nel tempo e nei suoi strati. Gli amori che ha saputo sdradicare come alberi o che gli sono tracimati dentro.
Fosse anche per un istante.
Non siamo fogli bianchi.
Ma assolutamente contaminati.
Dove per scrivere non occorre spostare le parole.
Ma trovare uno spazio.
E scriversi addosso.
Anche dove tutto sembra già scritto.
Padrona del mio piacere. Il desiderio scivola dalla gabbia del mio corpo. Si schiaccia su battiti leggeri. E i brividi mi colano dalla mente. Come se fossero ali invisibili. Di farfalle segrete che barattano l'aria con piccole vertigini per schiantarsi lievi. Quando la leggerezza è l'insensata ebrezza del silenzio. Padrona e schiava e poi mi prostro. E striscio dal mio trono di cartone. Fino a toccar la terra. Ad intrecciarmi all'erba e alla rugiada. A farmi corda e colla. Per ricomporre o solo per tenere avvinti. Segmenti pudichi e arditi sentieri. Dove non mi raggiungo mai. E cercare è il mondo per nascondere il mio corpo alla mia mente. Il teatro di ogni logico delirio.
E perderne l'idea.
Non smettere di cercarsi.
E non trovarsi mai.
E' quello il delirio incontenibile e soffuso.
Fragore di un'onda contro uno scoglio.
Di spigoli di luna che colano a picco.
Dentro.
Mangiano strada.
Rendono gravidi di sogni piccoli.
Sogni istantanei.
Capaci di durare quanto schizzi di corolle nel vento.
Padrona, supplice della mia carne.
Mi ripiego come un ventaglio.
E nelle pieghe segreti di polvere.
Ed una macchia freme.
Non chiamatela ricordo.
E' che vorrei svegliarmi con una poesia cruda e vorace sul cuore.
Annuso strati di coscienza. Non è un odore. Non lo ritrovi nella carne. Strisciato sulla pelle. Ma nella mente. Nitido come un'alba. E come uno spicchio di luna. Incastrata nel cielo. Asfittica coperta fatta di un blu inafferabile. Ha strali sottili e flessibili l'orgoglio. E il tempo lo rincorre e lo maschera da prevedibile rimorso. Si riflette nella mia lacrima. Come uno specchio che rotola via. Agli angoli della mia bocca. Dove mi bevi. Ho sette chiavi e nessuna e tutte aprono la porta della mia sincerità. Nel lieve segno sui miei polsi. Hai deposto un minuscolo bacio a forma di foglia. E io ne seguo i contorni e le radici. Alito sul seme che è scivolato nel groviglio dei miei dubbi. Li lascio fremere sotto le dita. Perchè ho imparato che la pelle rorida di desiderio si tende e si protende. E senza segni si offre vergine, liscia come una mela, in attesa del primo morso. O di una serie infinita di baci. Come formiche che esplorano, senza direzione, nè destinazione. Nessun segno.
Solo il ricordo di essere stati attraversati.
Annuso i miei polsi e il calco delle tue labbra risucchia le mie.
L'incanto della mente è solo il riflesso di stelle sconosciute.
Sperse e disperse.
Ed i ricordi sono questo.
La voce di stelle precipitateci nel sangue e desiderose di fuggire.
Anche io fugggo quando sento i tuoi occhi su di me.
E odio il mio riflesso mentre maldestra inciampo nella dolcezza.
Finisce qui questo strano viaggio e per una volta ne lascio le tracce. Del bene e del male e dei sorrisi e dell'affetto e dell'impeto e della rabbia e della gioia dopo la rabbia e della serenità. Alcune cose non deveno avere bisogno di parole. Perchè quando si sono, sono più forti di ogni danza di parole. E spiegare non si può. Non ci riesco. Neanche a me stessa. Si può dire grazie. E deve stringersi in cuore in un pugno e continuare. Questa è una carezza o un pizzicotto o un leggero contatto con le dita. O forse uno schiaffetto. Chi lo sa? Io no, non so questa e tante altre cose. E mi preparo il mio fazzoletto e la valigia di cartone per continuare il mio viaggio....un pò lontano ma con il ricordo di voi e di me con voi. Sì, con voi che siate più reali di ogni realtà. Qui dentro il cuore o dentro quello che chiamiamo così e che a volte batte.
A volte, come questa.
Non ci sono nomi, perchè le persone che per me contano lo sanno, o almeno dovrebbero, sì dovrebbero proprio, perchè io esprimo spesso e male quello che provo, forse esagerando, e spesso commettendo degli errori.
Ma anche in quelli ci sono per davvero io.
P.
E se mi chiamassi Angela? Avrei ali da sprimacciare ogni mattina e chicchi da sgranare nascondendo il peccato alle mie ginocchia. No, non spalancherei le mie gambe e poi potrei amarti suffiandoti incenso nelle orecchie prima di risucchiarti preghiere dal collo. Divina rugiada. No. Non mi chiamo Angela. E neanche Devota. Mi chiamo Elena? Forse ci ho pensato alcune volte ed altre l'ho gridato. E poi ho collezionato mele. E non ero nemmeno Biancaneve. Neanche la strega. A volte un pò Pisolo con picchi da Mammolo. Ma poi l'orgoglio femminile mi induceva ad oscillare su tacchi vertiginosi. Ero meno nano e più Alice sopra i trampoli. E mi facevo prestare le ciglia dalle farfalle. Solo per confonderti meglio. Perchè il mio sogno era di essere Cappuccetto. E di scoparti in una casetta di cioccolata. E se poi mi chiamassi Sabrina? Vorrei stelle da piazzare al posto degli occhi e fissare la notte lasciandomi scorrere una musica tra le vene. Sarei la musica che mi slingua il sangue. Il mio ed il tuo. Come in ogni amplesso che si rispetti.
E se mi chiamassi Sara?
Ma io sono Sara.
Mille volte Sara.
Più o meno.
E la parte che mi riesce meglio è la fine e l'inizio. Con gravi lacune nel mezzo.
Si applica ma si distrae e poi si crede una principessa nana su tacchi alti, la regina di una favola antica, che si spalma farfalle sulle ciglia.
Sara, piantala di fissarmi nello specchio.
E' tempo di tornare a casa.
Dammi la mano.
E non molestare le povere farfalle.
Non c'è un tempo. Solo del tempo sparso. E senza tempo e senza voglia di tempo integro mi colloco nella tua tasca. E tra le monetine tintinno. Non si può smettere di aspirare all'immenso e solo attraverso le viscere, toccando, strisciando, annusando cenere, sopportando la luce, anche quando è troppo forte, senza peso, ci spingeremo addosso. Attraverso questo corpo ci è concesso di essere vento. Solo attraverso questo corpo. Attraverso gli esempi che cercano di spiegare ma restano pezzi isolati. E lasciano la desolazione di un solo pezzo. E l'idea del resto.
Riempiti le mani del mio vento.
Non so essere fiamma, solo vento tiepido.
Non so fare del male.
Anche se a volte mi piacerebbe lasciare un segno.
Incidere in un punto dove la lama non affonda e disegnare con il sangue.
L'indefinito frammenta il tempo.
Senza nessuna voglia di ricomporlo.
Puoi succhiarne un pezzetto per volta.
Come una gelatina.
Ho mutuato battiti dal mio orologio. O forse da quello della torre. E dentro mi batte e tu con lui. E quando me ne accorgo, smetto di respirare, dall'improvviso e spicco apnee senza regole. In cui il pesce insegue l'onda e l'onda il pesce. E ognuno cerca di resistere che forse è un esistere con più voglia. E' quando non ti limiti a vivere ma mordi la vita. Io resisto ed esisto nel modo in cui tento di resistere. E mi fingo orologio anche io. E mi lascio schioccare i battiti sotto il palato. Come un pendolo inverso. Sui miei fianchi troverai tutto il tempo dimenticato. Mi piace pensare che qualcuno lo ha nascosto per noi. E per macchiare il mio vestito bianco. Di pensieri ruvidi ed impuri. Come la voglia. Capace di incastrarsi ad una lampo. Come tra due braccia. Prima di sprofondarsi.
Il mondo filtrato dai tuoi occhi ha una logica morbida.
Come un abbraccio.
Strappami il vestitino bianco.
E vestimi di luna.
La mia pelle è il muro della mia anima. E' il campo in cui nascondo i miei frutti. E ogni volta che ti invito a mordere la mia terra e a cospargerti della mia indecenza la mia anima trema. E' come sentirsi crollare e costruirsi un nuovo muro, uno sempre più alto. Con il desiderio che crolli ancora. Una specie di scalata immaginaria. Un assedio. Un percorrersi e rincorrersi con dentro la carezza della idea. Del ritrovarsi. Per liberarsi per davvero. E tutto il vuoto che sentiamo è solo una errata gestione del pieno. Di una fame che ci impedisce di sentirci davvero dentro. Di aspettarci. Perchè viviamo per riempirci fino all'orlo. Con la voglia di esplodere come piccoli soli infetti. E provare lo svuotamento più crudo. Come se l'anima avesse bisogno di continui orgasmi. Forse perchè abbiamo perso la bellezza della lentezza. E della rarità. E tutta la forza e la capacità di percepire la preziosità. Come se fossimo il tempio. E questo ci gratifica come piccole Gomorra in divenire.
Oggi mi sento una pietra isolata di un tempio mai costruito nè distrutto.
E oscenamente percepisco tutto il prato sotto di me.
L'odore dell'erba bagnata mi rende rugiada.
Sento tutti i fremiti dell'attesa.
Tutte le pieghe della terra.
E il suo lisciarsi.
E la sua forza silenziosa.
Mentre l'ombra si bacia con un raggio di sole.
Fino a sentirmi felice.
Un gioco assurdo. Quello delle aspettative. Ruvido e pieno di spigoli. E della voce della solitudine. Quella che ci fa smembrare tutto. Come molliche nel vento. Convinti che nel pezzo ci sia l'essenza. Mentre quella è nel tutto. Non nel pezzo. Ma nel frammento. Nell'essersi finalmente mescolati alle cose, fino a divenire cosa capace di percepire il resto. E' allora che senti. Così, senza un motivo. La nostra funzione vegetale è quella più ricca di anima. perchè la linfa ha percorso tutto il sentiero e si è donata. Ed in quel gioco assurdo di pelle che insegue il cuore e di anima che sfugge e saltella e di orgoglio e di dignità e di occhi che si sbarrano su infiniti homemade, io sorrido. E mi perdo. Di incastri che ritardano a spingersi contro. E nello spazio tra l'urto ed il dopo e l'assestamento ci siamo noi. E ci perdiamo. Vogliamo solo quello. Restiamo in quell'attimo mentre il mondo è andato oltre e non era il mondo giusto. Perchè ciò che è giusto è solo ciò che facilmente ci si attacca addosso. E non ti porta mai la voglia di strappartelo via. Diventa la tua pelle. Una pelle strana. E nessuno toccandoti comprende davvero dove sei tu. In quale parte di te sei riuscita a finire. Perchè magari tu sei nelle tue mani e nessuno pensa di cercarti là. Magari un ricordo ti ha trascinato sulla tua nuca e qualcuno ti cerca negli occhi. O a volte ti sei nascosta nel tuo ombelico per farti da madre. per cullarti. E non farti mai trovare. In fondo non volevi scegliere, ma essere scelta. Non volevi essere pane ma avido morso. Meraviglioso soggetto passivo dell'incanto. Travolta dal divenire. E dalla sua spinta. In un avvertito incanto. Così con l'aspettativa infranta l'incanto svanisce in rivoli rossi. Solo colori, senza sangue.
Siamo giostre di carne.
E a volte il vento che le fa girare.
Altre la musichetta che le accompagna.
Senza smettere mai.
Ossessiva ossessione. Circola come fumo pazzo. E non ha carne. Nè faccia. Torna su di sè come una scia pentita. Ossessione. Si spezza dove c'è il sole. E poi è una stella. Ed ogni istante nascono milioni di stelle. E altre muoiono. Altre non nasceranno mai. Come un fiume di esistenza. E noi minuscoli frammenti. Nel vento e nella luce. Si spezza e ci lecchiamo le ferite. Piano. Senza messaggi per nessuno. Ci baciamo il nostro dolore. E lasciamo libere le mani. Per toccare ancora. Magari per sapergli dare ancora la forma di una carezza. Perchè a volte le dita sono gli occhi del cuore. Leggimi. E leggimi la bocca. Vicino. Vicinissimo. Perchè la distanza è la pelle del distacco. Vicini per impedire al tempo e allo spazio di rubarci istanti e pensieri.
Il gelo è la tana dell'attesa.
Ho l'anima tra i gomiti.
Ripiegata come un ventaglio.
Se mi abbracci potrai sentirla.
Come un pizzico.
Perchè al tuo calore il ventaglio si apre.
E lievemente ti soffio.
Ti soffio l'anima.
Se mi stringi la stringerai con me.
Prendimi l'anima tra le mani.
Ogni volta che mi ribalto contro il cielo,
io impicco la paura.
E ti lascio calare dentro.
Come la fune che mi frusta e mi segna.
Come un equilibrista che ondeggia sulla corda.
Custode del vento.
E poi il tempo abbraccia il tempo.
E ancora.
Abbraccia me e le mie parole.
La tua voce è la carezza che mi sveglia.
E mi culla.
Come il graffio di un angelo.
O il bacio di un diavolo.
Anche se non riesco a dirtelo.
All'improvviso ho voglia di chiudere gli occhi.
E nascondere al mondo le stelle che vedo.
Lo senti l'odore del mio cuore mentre si piove addosso? Resiste e si lascia gocciolare. E beve le sue lacrime. E lecca sale. Chicchi imperfetti ed impuri. Li lascia sciogliere sotto il palato. Fino a sentirlo bruciare. Poi trema e poi si scrolla il suo manto zuppo come una preghiera recitata male. Di una fede inversa. O forse come un gattino sperso nella pioggia. Continua a bere anche se non ha più sete. Prego con i pugni stretti e senza parole. Muovo le labbra come se fossi muta. A mordere aria o a baciarla. E a invocarla. E ho una paura immensa della luce. Vivo nel buio. Come una gatta. E annuso l'aria prima di riempirla di me. Il mio cuore, quando smette di tremare, odora di terra bagnata da una pioggia sconosciuta. Senza germogli nè promesse, ma solo con la voglia di non avere mai sete. Nè fame. Morsi di terra umida, quella è la mia preghiera, e poco freddo. Il freddo non fa paura. Ci si alita addosso. Come a non bastarsi mai. Ed è una sensazione in cui si perde la misura tra il bene e il male ed il bisogno ed il desiderio. La benda con la quale corriamo ed il tempo è solo un ostacolo. Io amo da gatta nel buio e riempio di graffi. E curo i miei leccandomeli in silenzio, prima di addormentarmi, ronfando lenta e morbida. Detesto il bisogno e vivo solo sentendo. Più che posso. Fino a dimenticarmi di ciò che voglio. Del pudore e della vergogna.
E dei chicchi di sale che sgrano come rosari.
Forse della parvenza di dignità.
Quella vera è la autentica spinta del cuore.
L'unica che rende puro anche il più osceno degli atti.
Ed è per caso che mi è fiorita una margherita minuscola e tremula sul cuore.
Forse è un graffio.
O uno schizzo della pioggia.
Da farmi venire voglia di ripararmi.
Mentre mi piovevi tra le gambe, pensandoti.
E poi lasciare andare quello che non resta. Quello che non diventa noi. Si appoggia e poi vola via. Come una farfalla ubriaca. Spontaneamente noi. Negli eccessi c'è la verità. Il suo meraviglioso palpito. Quello autentico. Quello che nessuna parola e nessuna malinconia può nascondere. Nessun atteggiamento e nessuna posa. Quante volte il dolore è una abitudine. Perchè là dentro è più facile ritrovarci. E' un pò come sentirci a casa. Avvolti nella nostra coperta preferita. La verità ed i suoi frammenti sdegnosamente fremono. E la capacità di abbandonare il nostro sogno migliore. E poi è un incubo ribaltato. E gli altri passano attraverso la nostra lente. E la chiamiamo anima. E' solo un colabrodo traballante. Ci coliamo gli altri addosso solo per non mangiarli e non lasciare mangiare noi. Mantenere tutti i pezzi saldi ed in ordine è l'imperativo. E' il pentimento ed il rimpianto di cannibali di atmofera. Rinnegatisi. Perchè mangiarsi lentamente e assaporandosi, senza morsi, è la condivisione più pura che ci sia.
Io a volte, mi spingo in pretese, come una molla, e mi impediscono di capire dove sia quello che voglio.
Nella forza della spinta o nel suo punto di arrivo.
O solo nel pretendersi ignoto dell'elastico.
E alla fine tutto torna uguale.
E' solo un elastico, quasi un giro di giostra.
E' strano ho aperto le mie mani, ho sciolto i miei pugni, senza diluirli, perchè non voglio mezze misure, voglio acidi sulle mani, e vi ho ritrovato solitudine sparsa.
A pezzi.
Tanto rumore per nulla.
Eppure io lo credevo silenzio.
Ed io resto con la mia solitudine barbara e cannibale.
E' davvero strano come ciò che io sento a volte si confonda con ciò che io non sento. Ed è comunque un pò di bava di me. La ipotetica sovrapposizione trasborda nella incomprensione del punto di partenza o di arrivo. Nel fiume relativo delle emozioni tutto è certezza nella misura in cui non gli viene dato un nome. Io combatto con quello che posso diventare perchè non mi piace. E non mi piace dirlo. Vorrei essere un puntino da inseguire. E questo controllo sulla possibilità di dilatarsi della mia anima, come a tenerla tra le dita, sentendola battere come un'allodola ferita, lo detesto. Detesto quel battito e il suo lamento. E le mie dita che premono per mettere a tacere quel pulsare. So che se le libererò dalla pressione e dalla sua utilità ed utile modulazione e parca moderazione io non sarei comunque libera. Sentirei il peso di tutta quella voglia e volontà irregolare. Perchè la libertà è nella vaga leggerezza, senza morsi, nè dita che tentano, che mi nego. Perchè si ha la sensazione che sfiorando le cose non le si possegga ed è il possesso che ci dà una parvenza di consistenza. Tutto per colpa o per effetto, o per entrambi - piccoli bastardi come i rintocchi di una campana - del non bastarsi. Nel piccolo deserto che ci coltiviamo con cura e dovizia. Attenti ad estirpare ogni fiore. E a sopprimere con cautela ogni seme. E di quel seme ci resta solo la polvere tra le dita. Perchè quel deserto non esiste. Siamo paludi che si rinnegano l'acqua ed il fango. Con la voglia di sprofondare inversi, contro il cielo.
E colo a picco.
Lentamente annego.
Sentendo tutta la labile inconsistenza che mi avvolge.
Scivolo in basso.
Come se fosse un cielo obliquo.
E berlo mi fa sentire un pò angelo.
Quasi una bestia sacra.
Divina come una puttana inviolata.
Con la mente avvolta da una nudità sconosciuta.
Ho rubato all'albero tre gocce di rugiada.
Le ho strappate con la mia bocca vorace.
Non per berle.
Ma per comprendere quanto potessi resistere.
Senza ingoiarle.
Forse per sentire le mie vene tremare.
E contargli i brividi.
E' che volevo sentirmi supplice come una foglia.