martedì 25 marzo 2014

E poi un pugno al cielo...

Non ci sono favole senza sangue. O forse non le ricordiamo. Ci abituano ad una idea di sogno frammisto a carne, e quello poi lo rivoltiamo nella testa. Quello che scambiamo per pensieri è solo la vita che si frantuma e si ricompone. Nella sua sede più fervida, la mente. E sangue, goccia a goccia, ci ripassiamo a mente. Forse una dolce nenia. O una poesiola. Spasmi del cuore che lo contraggono me un piccolo ventaglio di carne. E i suoi battiti come fuochi di artificio. Piccoli tamburi irregolari, alla deriva. Eppure non lo sai quanto possa essere dolce il rumore dei miei battiti, vicino al tuo orecchio. Un suono che cola lento e se ti bagnasse non riusciresti a dimenticare, quasi come il respiro di una stella. Non sono romantica, ma so essere perdutamente oscena. A modo mio. Mi ha sempre terribilmente eccitato litigare con te; è una specie di orgasmo inverso, quasi a chiederti di scoparmi la testa.

Deve esserci da qualche parte un giorno perfetto per ognuno.
Se penso al mio passato le cose che raccoglierei si raccolgono in un pugno.
 
Il pregiudizio dell'incompiuto è una porta sbattuta sul naso. Io ci vedo un filo mai spezzato ed assaporo la modesta sensazione di piazzarci un dito sopra, in un punto qualsiasi, per renderlo senza presente e senza passato. Ed il suo futuro dal mio dito in poi, piccola artefice di piccoli domani, di prospettive ed aspettative. E gioco con le ombre, fino a dimenticarne la provenienza e mischiandomi alle loro sagome come vite ribaltate. Ci sono cose che mi piacerebbe raccontare, non perchè darebbero una idea meno vaga di me stessa, ma perchè le sento dentro.
E là le lascio.
Oltre ogni illusione, e nell'aurora che si perde nella luce
che a volte sa essere più crudele di una spada.
Mi sento attratta da una sempre più strana attitudine alla realtà.

ero io

Anche se...

Lenzuola di brividi e timore e carne rivestono il mio pudore.
Pulsava di battito antico.
Lo avvolgono e lo soffocano.
Cianotico e asfittico baule è il corpo.
Ho chiuso la serratura e ho perso la chiave.
La mia pelle sente ma dimentica.
E dimentica se stessa.
Si perde nei giochi della mente.
Stinta la mappa di impronte fameliche.
Sembrava neve.
La raccolse.
Era meravigliosa malinconia.
Sparsa e colpevole.
E consapevole nel suo gelido candore.
Non la trattenne.
Non per tanto.
E i polpastrelli furono gli unici testimoni.
Muti.
Bambina con il riflesso ricamato dal fango. Con il bordo di desiderio. Accarezza la sua sagoma e la lecca. E cancella la solitudine. Come perdono negato e amore mai chiesto. Ma nato. Fiore selvaggio. Figlio del sole e del vento. Nutrito dalla pioggia. E dal caso. Sazio di periodiche probabilità. Provvide diseguaglianze.
Le sue mani offrivano supplici schegge di delirio e di sogni.
Puri e onesti. Erano petali. Di strani fiori. Nudi ed indifesi. Come il cuore al primo amore. Corolla umida di desiderio. Pudicamente assorto. Tagliuzzato ed intagliato dalla lama della superficialità. Ha perso tutto. Anche l'odore della speranza. Inebriante venticello. Sette giri di nastro rosso come il sangue intorno ai tuoi polsi. Dono innocente al vento. E le sue mani sempre più nude. Fragili come foglie. E gli occhi nelle mani. Vedeva con le mani. Sfiorava il mondo. A raccogliere sensi. E strisciarli su muri ignoti. Scavava desiderio dalla sua carne. E lo intrecciava ai suoi pensieri. Come pelle di vite sconosciute.
Pudore amputato e poi diluito in germogli di sogni mozzicati.
Dal tempo. Quello chiamato presente e quello chiamato futuro. E poi anche dal passato. La più immonda delle scie. Soffiata alla luna. Respingevano le stelle gli assalti della coscienza.
Bambina.
Un tempo lo fu.
E i suoi occhi erano sempre occhi.
E le sue mani comunque mani.
Sentiva con il cuore.
Senza annusare e percepire.
Fidandosi del rigoglioso senso dell'amore.
Dei palpiti e dei brividi.
Senza raccoglierli e trattenerli.
Bagnata e scivolata.
Fu donna e ancora bambina.
E poi nulla più.
Ora ascolta la pelle.
Lei insegna.
Anche a sbagliare.
...
Dopo.
Io e la notte e la pioggia. Rileggo. L'innocenza c'è ancora. E anche il senso dell'amore. Resta. Comunque. Anche se il corpo rinnega. E io sorrido al giorno a venire. Il tempo modella il mondo. Il mondo contorce il tempo. Smetto di rileggere. E di contemplare. A volte la vita è un fiume che scorre e i suoi affluenti si incontrano. Comunque. E non lo puoi evitare.
Osservo e mi faccio da parte.
E poi il resto pensalo tu.
Il non detto ha
la portentosa veste
dell'immenso.
Basta non smettere
di pensare
che possa esistere.
E poi le ore inseguono i rintocchi. Ad un passo del baratro della puntuale sorte. Non so spiegare, e non lo faccio. Mi immergo nel silenzio, perchè ha una sottile dignità. Se volti il foglio il resto è ciò che capita, caso abbigliato da vita. E un soffio intenso e sottile dentro. Come una fiamma esile e tenace che non si spegne. E ho la sconveniente sensazione di sentire poco, quasi nulla. E all'improvviso si scansa. Ed il sangue non tace. 
Basta non smettere di pensare che non abbia mai smesso di esistere.
Ed adagiarlo oltre la linea di orizzonti incerti.
Gli pulsa dentro solo la verità.
E nelle parole inciampiamo, goffi e affamati di pretese, e a volte di speranze. E nel delirio non le ricordiamo, come se fossero ombre. Ma non è forse l'ombra la scia più indolente della luce? La più timorosa di sperdersi nell'oblio del buio. Eppure io ho sempre pensato che in una certa oscurità possa esserci una dedizione ed una intimo contatto con noi stessi. Esattamente là dove la luce riusciamo a pensarla meglio. 
Basta non smettere.
Il resto è un dettaglio.
 
E poi dopo tanta resistenza, ti sciogli dentro. Un poco. Un pizzichino, e un tiepido calore. Forse qualche parola. Non sei lava, ma sangue di terra. E il mio, il mio sangue, ti accoglie. A volte il respiro inciampa ancora nella pretesa, nel timore, nel ricordo, in una impronta spersa, ma poi la mente accarezza, e come tu sai il suo tocco è una lusinga irresistibile. Non si può sedurre più ciò che non vuole. La conoscenza cancella i passi, nel percorso, e ci lascia esuli. Sulla mia pelle ci sono ombre sconosciute, e io ho paura a riconoscerne la forma e la provenienza. Ma non cancello e non le cancello. E non cancello neanche me stessa. Mi limito a raccogliermi, conchiglia, dopo conchiglia, sulla spiaggia dell'anima, quella che resta dopo un naufragio. Ancora e sempre nuova. Senza passi. Così ci si ritrova, alcune volte. Ma solo alcune. 
Lo ho sempre pensato che sia la vita, con il suo soffio provvido, a scegliere ed a sceglierci.
E non mi fa paura sentirti, perchè sei finalmente vita.
In momenti come questi brucia. E non puoi far altro che respirare. Senza aspettare, senza aspettarti. Il tempo è il filo sottile che ci slega e ci dipana su una matassa immensa, nella quale siamo destinati a sperderci, insieme, addosso, frammisti ad infiniti altri fili. E non voglio più riavvolgermi. Oggi ho bisogno di slentarmi, di sgualcirmi, di mescolarmi. Forse per dimenticarmi. Vorrei fare a meno, saper fare a meno, del dolore. Di quel pizzico che si insinua e che punge, si infila, scorre e si inabissa. Tu lo dimentichi, provi, e ci vivi addosso e ci vivi contro, dentro, di traverso, tra equilibri ed apnee. E non ti accorgi di quanto sappia isolarti. COprirti il mondo ed un poco anche il cuore. Ci pensavo, e mi dispiace, perchè tutto questo mi permea di una patina insopportabile, un velo impiastricciato di egoismo e tormento. La femmina imbavagliata in spire di tulle osceno, nel desiderio di mostrarsi e di nascondersi. E gli altri, tutti, sono sempre oltre. Non è un sipario questo sangue. Annusalo, ci sono dentro io e la mia vita. Ma dannazione, come si riesce a squarcialo quel velo? quella pelle che nessuno vorrebbe e che non vede? siamo farfalle implose che immaginiamo i colori, tutti quelli di cui siamo capaci. E non smettiamo di raccontarci l'amore. Si spegnerci orgasmi addosso, senza spezzare mai il limite. 
La mia voce non basta e neanche la mia carne.
E neppure le mie lacrime.
Le parole placano ma non svuotano.
E io vorrei essere devastata.
In una non esistenza pura ma concreta.
Spersa e diversa.
O forse basterebbe solo un vibrante vaffanculo.

*

Post n°24 pubblicato il 24 Febbraio 2014 da dialogoimperfetto
Mi piace lasciare andare le parole. Senza trattenerle più. Non più di tanto. E sentirne appena la esistenza, la dimensione rarefatta, accorgermene, assaporarne la appartenenza, fino a saperne gioire, per poco, un tantino, l'attimo di un sospiro, quel tanto da invertirlo, come se fosse un pizzico, lieve e desiderato. In fondo quando ti concentri troppo sulle parole è solo perchè non sono pensieri, ed il contenuto non ha una rilevanza ed un peso tale da poterli rendere fili sottili, quelli che uniscono e svaniscono, più leggeri di farfalle, della loro scia, del sogno che sanno disegnare. E senza bilanciare, senza valutare, senza limitare, esistere come scorrere e sentire che la volontà ed il desiderio, o meglio la capacità di desiderare, si sfiorano e pericolosamente si intrecciano. Parole come petali di aria, in una strana poesia che colpisce come un buffetto, forse vento, per lisciare, curvare, appena accennare un movimento. E ripartire immemore. Senza direzione e senza un verso preciso.
E poi ho paura che questo smetta.
O solo che abbia ad iniziare.
E non sopporto, non più, quella solennità di chi finge di nascondersi, perchè il pudore ed il rispetto scorrono come l'acqua.
Quella stessa che non sa ripercorrersi a ritroso.
E non torna mai indietro.
E adesso vorrei urlarti addosso le cose peggiori, le più moleste, le più crudeli.
E so che sarebbe inutile.
Eppure ho un bisogno disperato di inutilità.

Bagnarsi di cose nuove, senza avere mai troppa voglia di trattenerle. Un lieve contatto che si sfalda nell'incalzare del divenire. E la paura di farle mie, quelle cose, di sentirle davvero, di raccoglierne una traccia. Vivere strisciando addosso al sangue. Contro l'aria, come se cielo e vene fossero i confini che mi sono stati concessi. Ho avuto notti zeppe di nostalgia, ma al risveglio il sole mi ha sempre legata alle ore che scorrono, nella verosimile ipotesi di smettere di esistere con la mente e nella mente, con una fame di realtà che a tratti diventa disperata, quasi sfuggendo alla poesia, perchè ci persuade, anche se non vogliamo, e scioglie l'amaro in struggente malinconia. Mentre io voglio attimi serrati e fecondi e cose, non necessariamente migliori, purchè abbiano i bordi comprensibili. Tutto cambia e nulla cambia, se non cambiamo noi. Ed è così che restiamo afferrati ad un pugno di terra, ad annusarne la forza e la libertà, intrinseche e sfacciatamente sincere. E come se fosse il mondo quello, mentre magari il mondo è altrove. Chi può saperlo? Distante, più o meno. Roba di battiti sparsi ed impuri, soldati alla deriva in una guerra mal combattuta. Ho visto un fiume abbracciato dalla vita, ed ho avuto la sensazione che le cose le disegnasse intorno il flusso della gente, e l'avvicendarsi di voci ed istanti, separati, destinati a mescolarsi, quasi a dimenticarsi.
Quasi...
Vorrei non dimenticare ma non so neanche più cosa io debba ricordare.
E annodo il senso della vita, per poterlo poi sciogliere all'occorrenza.
Qualcuno lo chiama bellezza, e oggi tutti la masticano, la descrivono, la spiegano, mentre a me è bastato intuirla, nel mistero di una divinità che si fa pietra e noia, e intuisce nel disappunto e nell'ingolfante monotonia di un salto qualunque.
E poi non smette.
Nè cambia.
Basterebbe averla percepita, per credere che ci appartenga, in fondo.
Pulsa il tempo, pulsa come nubi dentro il cielo, sopra le mie tempie e miete aria e dolore, forse presagio o facile distrazione. Quale stupore nello schiudersi della notte su di noi, erranbonda e con i palmi rivolti al cielo, a supplicare lacrime di stelle. Sangue di sorella, io ti ho sentito e ti ho interrogato, fino a sentire l'errore nelle mie vene, e la nenia ossessiva del mio essere sbagliata, del non sapere essere importante, del non contare. In quella solidarietà che spesso è solo parola, io ti afferro e non ti lascio, e ti conservo e ti trattengo e ti soffio, nell'eco di un'appartenenza che ci scavalca e ci sovrasta, come se avessi inciso il tuo nome vicino vicino al mio, in quale faglia, laggiù nel profondo, dove io non ricordo di essere mai scesa. Mi sfaldo, come margherita, tra petali di aria, perchè chi tace percepisce tutto il mio tormento, quello che all'improvviso mi divora e mi stordisce. Mi piace attraversare la scia della logica e ritrovarmi dal lato opposto, sempre quello sbagliato, o solo non quello giusto. Sono inesatta come una somma a cui mancano i pezzi precisi, avvolti dentro battiti che si sono rincorsi, quasi come parole su un foglio e che ti lasciano, esattamente là.
Nel suo centro.
Fragile e sola.
O no.
E la voce nella testa.
Quella voce.
Chiamala desiderio.
Diventa sempre più difficile esprimere, e neanche si trattiene, ci si lascia scorrere da impeti, flutti di emozioni, dopo che se ne è avvertita appena la profonda leggerezza che può infilarsi in noi e terribilmente espandersi. E nella logica ci diluiamo, convinti di avere in un pugno la nostra vita, qualche filo che gocciola e si dipana in estuari sperduti e quasi storditi. Resta la bellezza, nonostante noi, come quel guizzo che senza permearci si espande dalla mente alle vene verticosamente. Fino al cuore e ancora, avanti ed indietro, senza placarsi, solo rallentando fino ad averci colonizzato e resi terre di mezzo. Perchè ci sono voli ai quali non si può resistere, voli di anima e mente, dita dentro quadri, tra le tracce indefinite di pennelli, nel senso di opere che intuiamo senza capire mai fino in fondo, quasi che in ciò si celasse la meraviglia di alcuni misteri. La forza dell'arte non può che renderci migliori, perchè nell'arte c'è una istintiva condivisione, impulsi e sensazioni.
Mi piacerebbe un giorno risvegliarmi fiore. 
Eppure oltre il senso di impotenza ed inutilità in cui siamo soliti crogiolarci è impossibile che non ci sia altro; deve esserci, quasi che il senso della vita si infili come una lumachina dentro il suo guscio, con il timore di lasciare la sua casina, di perderla, di sentire tutto il vuoto sopra di sè. E quel senso è più fragile di un filo e si tende come un arco verso il cielo. Giusto il sorriso che non si liscia prima di spalancarci, e poi quello che ci riempie la mente di sole, anche quando piove, e poi sa infonderci una consolante tenerezza verso di noi ed i nostri frammenti, quasi a raccoglierci. Pezzi di noi vicini. Senza mescolarci. Identità nette e coraggiose. Fino alle viscere. Della terra. 
Disegnami gelsomini sulla schiena.
Saprò resistere. 
Perchè è quello che voglio.
E nella imperfezione si annida il segreto dell'amore. Sono imprecisa, assolutamente sporca, e sporche le mie iridi, l'ho visto appena oggi. Ma tu raccogli la purezza delle mie lacrime, come chicci di gelo, spicchi di grandine, caduti dall'inferno di cui a volte sono capace e di cui mi avvolgo, fino a puzzicarmi il respiro, sempre più a ritroso, fino a simulare l'anima e la sua eco. Aiutami, aiutami ad amare le mie dita, come se fossero radici immerse nell'infeconda stasi del divenire, mentre l'aria le ruba il sangue. E liberale, e me con loro, come se fossi una serie di suoni, esattamente quelli della notte, che intimoriscono ma spesso sono i più sinceri, perchè il buio lascia libere le coscienze. E verità si fa oscuro sentire. Ed è proprio là, nel grumo imperfetto che mi raccoglie che io voglio tu mi veda, e mi compreda, quasi a raccogliermi, foglia, dopo foglia, senza conoscerne il ramo. Io sono la foglia spersa senza fiore, nè frutto. Ecco io vorrei essere la polvere da soffiare lontano, perchè poi resterebbe solo il bene e quello è irresistibile. E forse già mi ami e non lo sai. L'ho letto nei tuoi occhi mentre mi risucchiavano ogni paura. E sono rimasta proprio in quel punto, a tremarti dentro. E ancora non smetto. 
Scorrono come vene di fiume, sensazioni, o solo la loro bava, scia del destino. Dammi le linee giuste, intrecciale con edera e vite. Ho bisogno dell'odore della terra e del mare. Hai mai sentito la sabbia calda tra le dita, tra i suono del mare e della tua mente che si svuota e si riempie come mille maree? Se ti è successo, raggiungimi e parlamene. Mi succedeva da bambina, o forse è solo un racconto, una fiaba, una nenia, nell'incanto della inconsapevolezza di una bellezza troppo grande per essere spiegata che sctriscia l'anima e affonda nella mente, ma non chiamarla ricordo, perderebbe il sangue che la sottende come un arco. Adesso su quella spiaggia quella bambina, proprio quella, continua ad afferrare sabbia e amore e a lisciarlo in torri destinate a crollare lente all'incedere del mare, aviddo e sognatore, anch'egli. E a sentirsi l'acqua sulla schiena e la luce del sole che si schiude in rifrazioni mentre riaffiora e ritorna a respirare. Lei nuota fino a sfiorare il braccio di suo padre, perchè così si sente protetta. Anche nei sogni, o solo in apnee. E ha una voglia dannata di immergersi ancora. Vorrei essere più semplice o solo più complicata. E vorrei sapermi amputare dell'io pensante che mi anima fino a tentare di sostituirsi al cuore. Io lo seguo solo per perdermi, per dimenticarmi. In una maglia di stelle, quelle che ogni notte mi riducono il cielo in rettangoli, mentre il mio respiro si frammenta in assenze e giochi di mancanze, somme senza risultato ma in fondo che conta? Perchè al di sotto di quella amarezza ingombrante, io resto come un filo, a scorrere furtivo come una retta, verso un infinito ignoto, e un poco mi piace e per il resto mi spaventa. E non mi guardo più nei pezzi che perdo, come corsi e ricorsi inversi. Io sono qua, con questo pulsare di vita, incasinata e confusa ma viva e vera, nonostante tutto. E non posso che bastarmi.