mercoledì 8 dicembre 2010

Mi isolo in un non_posto dall'odore di mughetti. Quelli che a volte mi fioriscono sui polsi. Piccoli boschi di una ingenuità che si fa corda e gioiello. E frusta e lingua. E puntella e trafigge la pelle di nostalgica purezza. Come se i fiori fossero capaci di sputare le parole. E le parole dei fiori fossero petali di ingorda sincerità. Quella che tenta di afferrare uno specchio ed affondarci. E finalmente vedersi. Fosse anche per cancellare. E calpestare ogni impronta. E ricoprirla con nuove impronte. Mentre cerco di dimenticare. Senza posto. Senza direzione. Le orme hanno il profumo dell'oblio. Quello che impedisce di ricomporre le collane di fiori. Ghirlande da deporre ai piedi del futuro. Una e molte direzioni.

Fiore. Casa. Nuvole. Cielo. Sole. Amore. Fuoco. Fumo. Soffio.Petali. Fiore.

Un piccolo bracciale sulle mie dita morbidamente intrecciate.

Per siglarne la preghiera.

O la appartenenza.

Sincere come mai.

Ma non si capisce.

La sincerità è la nebbia che risucchia ogni direzione.

E spesso non sfocia nella verità.

Allacciami piano la verità sulle mani.

Piano.

Senza soffocarmi i brividi.

Non stringere.

Non so più resistere al dolore.

E poi lo confondo con il resto.

lunedì 6 dicembre 2010

Ho il cuore tra le mani.
Sembra un piccoolo sole che si spinge verso il vuoto.
Si contorce e si modella in archi di vuoto e di luce.
Tutta quella che non ha.
Prima di tuffarsi e stemperarsi in
linee di assenza
ed in mille ombre.
Quelle che ci raccolgono e ci adagiano.
Sul bordo.
Ci avvicinano al suolo.
Fino a renderci sue vene.
In avido ascolto.
Forse i nostri cuori sono le radici della terra.
I suoi vasi comunicanti.
Le radici di un fiore.
E come ombre silenziose affondano.
Si infilano sotto.
Nel resto del senza.
L'alcova del bisogno.
Fino a non lasciare traccia.
L'oblio del cuore è un labirinto.
Sotto la pioggia la terra è assolutamente nuda.
Quasi indifesa, si ascolta.
Fragile.
Ogni passo la riempie di crepe.
E quelle crepe a volte sono le uniche parole di cui siamo capaci.
E le soffia polvere.
La paura della terra.
Paura, quasi livido e scostante terrore.
Di ascoltare i sussulti che ci sono sotto.
Come un cuore lontano che batte.
E non ci sembra neanche più il nostro.
Il mio corpo è una terra da ascoltare.
In silenzio.
Perchè così ti accorgeresti che è la tana di una luna muta.
Lana spessa e grezza.
Impregna e si impregna.
E io mi parlo e mi parolo addosso.
Solo per nasconderne i battiti.
Ed inventarmi il silenzio.
Sgranocchio consapevolezza. Per renderla inconsistente. La sento prostrarsi e protendersi sotto i denti. Umida e sfuggente. Come un bacio. Forse l'ultimo. O il primo. Quello che sa ancora di lingua sconosciuta e straniera. E tu credevi fosse rugiada. E facevi le prove contro un vetro. E disegnavi le labbra con gli aloni. Per verificarne i contorni. Inconsistenza dell'esserci a modo proprio. E un pò il negarsi. Scuotersi i capelli nel vento. Come leoni erbivori. Astraggo tutti dal segno inverso che sento. Un pugnale che affonda. Gli altri sono solo occasioni. Di una ferita come una sacca. Nessun eroico appartenersi. E le promesse che scivolano come foglie a pancia in su. Mentre la lama compie un giro di non ritorno. Sarebbe così facile spiegare. Perchè avevo capito. Ma è nel silenzio che tutto ha la sua vera voce. Fatta di occhi. Perchè il senso del meditare è cercare di vedere. E si vede solo lasciandosi colare la voce addosso. Quella che la mente secerne come un veleno. O come un antidoto. E poi è lo stesso.
"I meditanti sanno da sempre di dover usare i loro occhi e il linguaggio del tempo a cui appartengono per esprimere la propria profonda comprensione".
E della incomprensione cosa ne facciamo?
Come la esprimo io questa immensa bolla di sapone?
Erba negli occhi e mordo vento.
Sentire e non saper spiegare.
Con la voglia di vomitare il cuore.
Come se fosse un punto goffo al centro.
La mente è il nostro vero occhio.
E pensarti è vederti e un pò amarti.
A modo mio.
E accarezzarti.
A mani sincere.
E poi all'improvviso ho sgozzato la mia bambola.
Perchè non voleva baciarmi.

Ho pochi etti di delirio da slinguare. Un minuscolo cartoccio. A forma di cielo. Delirio morbido e caldo. Pochi frammenti, liquidi e sparsi, da lasciarmi colare nella gola. Siamo imbuti con un orlo variabile. Come una preghiera. E pregare come se ci fossero altari di demoni con le ali. Pensare che esista un dio capace di volare mi fa sembrare tutto leggero. Ali languide a spengermi l'idea. Perchè la annegano nell'aria. Quella che rubano. E io rubo a loro. Per dare un senso alle preghiere. E poi è solo solitudine bastarda. "Osa cazzo". E mi sorridevi dentro. Avevi già osato. Mille volte. Mi avevi cosparso gli occhi di gentilezza. Non sospetta. Nè aspettata. Quella a cui non sapevo resistere. Come le fragole di inverno. Forse una specie di sogno. Da rana triste. E una tekila ad allagarci il cuore. E a slargarci i lembi. Un vero dio sa anche strisciare. Ed aspettavo il suo solco. E poi la fragilità non è debolezza. E' più debole chi fa del male che chi lo riceve. E assecondarsi il cuore è un rischio non calcolato. Seguirlo nelle sue ripide. Come se fosse un tronco su un torrente. Mentre è solo un filo d'erba. Di un prato sfacciatamente esteso. Da proteggere. Mentre si urla al mondo, e lui sa solo tremare. Non sa difenderti. E trema delle paura sua e tua. Ma di nascosto. E forse avere poco e sentirlo immenso. E forse avere tanto e non saperlo afferrare. Come in un pagliaio.
C'era l'estate nei tuoi occhi e schizzi di fragole acerbe.
E sotto il palato io mi scioglievo il tuo nome.
Come una zolletta.
Ma fuori era inverno.
Era troppo inverno.

Trackback: 0 - Scrivi Commento - Commenti: 51

Alcune musiche hanno dentro mille lame e mille medicamenti. E mille mani capaci di accarezzare e poi di trovare il punto esatto, il piccolo pozzo in cui entrare dentro e calarsi diventa possibile, e così infilarsi nelle vene. I quei cunicoli che se segui la corrente giusta portano al cuore. Soffiarci dentro e lasciarsi trasportare. Quelle musiche sminuzzano e frammentano ogni spaziotempo, anche quello che ci aderisce addosso. Il vestito delle nostre ore. E riescono a costruire torri e ponti e a lasciarci ondeggiare nella mente fiumi, contenuti e contenibili, entro adeguate sponde, con le loro barchette a solcarli, e il riflesso di una luna tremula, ma integra, a marchiarli. E neanche riesci a sollevare gli occhi, tanto sai che c'è, con la sua sfacciata certezza tonda. Con il suo giro completo, da cui non fuoriesce nulla. E non puoi guardarla perchè i sogni nascono per essere incerti contenitori espandibili. Ed ogni concretezza non potrà che renderli un pò meno sogni ma più grondanti di sangue. E dove c'è il sangue prima o poi si soffre. Ma quelle musiche neanche di danno il tempo di capire. E non capendo tutto è più leggero.
In quegli specchi io e te ci abbracciavamo.
Come se ci fosse la musica.
E sembrava che ci abbracciassimo infinite volte.
E che fossimo infiniti.
Infiniti te e infinite me.
Se ci pensi sembra un orrore.
Il doversi scomporsi per darsi all'altro.
Come se l'amore fosse la capacità e la forza
di raccogliere ogni frammento.
Proprio e dell'altro.
Senza perderne neanche uno.
Per riporlo nel posto giusto.
E' quasi assurdo
perchè a volte basta
una carezza
per ricomporci.
Oggi mi andrebbe di dire un sacco di cose bislacche. Variegate al pistacchio. Senza scandirle. Ma inpilandole le une sulle altre. Ma non come quelle che già dico. Un pò diverse. Strane e in un modo diverso. E senza logica. Perchè in quelle che in genere dico una logica c'è. Ed è tutta mia. Ma non riesco a spiegarla. Ho sempre voglia di dire tutto. Come se una volta svuotata e ritrovandomi assolutamente vuota, oltre il limite, poi essere riempita ancora, come un'otre umida, sia più facile. E riesca, comunque, a dare la misura della giusta misura e del suo divenire. Perchè la giusta misura è un crescendo. Come una marea. E queste cose dirle tutte di seguito. Senza sentimento. Con la serietà del ripensamento. O del troppo ed assortito pensare. In un serpentone deragliato. E avvolgerle tutte nella foglia di vite. Avvolgere tutte le cose sconclusionate. Con delica accortezza. E lasciargli fondere addosso minuscoli tocchetti di burro. Così alla rinfusa. Poi infornarle. E sentirmi la regina del mulinobiancoverdechenonc'è. Con il cuore che batte perchè è arrivato il momento dello sbarco clandestino. E dell'atterraggio di qualche spicchio di sana astinenza. La follia è la ripetizione costante ma irregolare delle stesse azioni. Ed il delirio è l'attesa e l'aspettativa di un risultato diverso. Come se in quel restare sospesi ci fosse un miracolo in nuce. La potenza del delirio fosse capace di slargare le maglie del divenire e soffiare l'infuso magico di una perfezione che non ci serve. Perchè siamo meravigliosamente imperfetti. Basta sapercelo dire. E perdonando l'imperfezione altrui ci solleviamo in volo come piccole divinità. O aspiranti saltinbanco. Un piccolo volo destinato a finire.
Il tempo non si arresta.
Si asseconda.
Ho provato a declinare il cuore.
Ma sbaglio sempre.
Sembra assolutamente poco declinabile.
E' là, dentro la notte, ci siamo sfiorati.
Come nella placenta calda di una gestante indecisa.
Dove la nudità non era freddo ma sopravvivenza.
Ti ho detto "Inseguimi. Quando saremo fuori di qua. Corri a perdifiato. Dietro quell'angolo ci sono sette estati, un ramo fiorito e tre ciliege".
Ed è così che sono nata poi con la voglia di essere cercata.
Stupita.
Inseguita.
Sorpresa.
Come un piccolo virgulto di solitudine e di delusione.

Siamo ammalati di passato. Nelle mie orecchie la tua voce. E già mi sfiori. Mi giri intorno. Fino al collo. E le tue parole sono perle di una collana. Pronte a scivolare giù. E ti rivivo attraverso le idee. E ti fai fiore e frusta. Non c'è perversione. Quella si infila. Come la luce tra le imposte. E' uno spiraglio. E quando chiudi la porta si spezza in segmenti. Siamo quello che vogliamo quando varchiamo la soglia principale. Ed usciamo ed entriamo dalla stessa porta. Senza deviazioni.
E' strano dover comprendere come un nuovo mondo di idee si schiuda. Come un seme nella terra. Lo sperma del cielo. L'amore che si fa zolla. Prima la spacchi e poi lo ricopri. Nella sua culla. Il seme. Nella sua culla di terra. Nessuno ci pensa alla sua paura. E piano piano diventa voglia. Di vivere. E iniziare ancora. Senza aver finito. E senza aver mai iniziato davvero. C'è il culto della parola che si finge carne. E inizia a sanguinare di un sangue che sembra finto. Un sangue di parole. Ma non lo è. No. Sono gocce.
E a volte fili.E senti tutto il bene che ti ha avvolto. E non puoi ignorarlo. Come una coperta che ti avvolge le spalle. Una rete di bene. Dalle maglie fitte e lente. Perchè il male tenta di smangiarle. Ma nessun male potrà lasciarci morire di freddo. E unire i rettangoli di solitudini lontane. E' un puzzle fatto di vite. Mani che si sfiorano e non si toccheranno mai. E i dolori che si sciolgono in lievi ma profonde empatie. Sangui estranei e stranieri che per istanti ci lasciamo scorrere dentro. Mentre le storie ci scorrono dalle labbra alle orecchie fino alla pelle. E ascolti verità che nessuno ha il diritto di negare. Perchè ogni anima è mondo e tempio. E spesso le nostre preghiere sono sconosciuti rami che bruciano. Al fuoco di un dio piccolo ma potente. Immensamente potente. E neanche lo sa. Nella misura in cui la sua forza ci stritola le vene e ci lascia espodere il cuore.
Ad ogni nuova alba.
Nessuna novità.Poi capita.
Solo un nuovo ramo che si lascia sbocciare i fiori addosso.
Stufo di dover ardere.Perchè è così che può accarezzare il cielo.Sei nelle mie parole perchè sei nella mia mente.

C'è poi la dignità dei sentimenti. Senza la voce dei violini. Con la danza muta di una candela. A volte sembra spegnersi. Altre divampare in furia. E rotolare. Fino ad ardere e devastare ogni ombra. La voce dei sentimenti scivola in vicoli tortuosi e sconosciuti. Fino a rubarne ogni vaga ombra. E farla divenire un sole inverso. Mille soli implosi. Capaci di rubare e seppellire mille luci. Come asce.
Un lampione trema nella notte, ma non si spegne.
Fino all'alba.
E anche oltre.
Diversa è la dignità delle parole.
Quella che smargina poco e bene.
E poco e bene si adatta.
Come la pelle alla ferita.
O è la ferita che si converte in pelle nuova.
Resta sempre una invisibile cicatrice.
Il confine tra il bene ed il male.
Come se potessimo toccarci fino ad un punto.
Oltre c'è solo un mare sconosciuto.


Solo questione di prospettiva.
E io riesco solo a guardare il mondo da dentro.
Nella voce delle cose.
E non so spiegare.
Perchè spiegando mi incastrerei nei limiti.
In tutti i limiti.
Anche quelli che creo io.
Poi ho sciolto le mie trecce dentro un rumore nuovo.
Forse indifferenza.
E ho bevuto silenzio livido.
Ad occhi chiusi vedo il cuore battersi addosso.
Come se non fosse mio.
E non è tormento.
Il tempo scorre sempre uguale.
Ma non è vero.
E il dolore lo scompone.
E lo spalma in inerarrabili pause.
Io non la voglio l'attesa.
E mordo l'istante.
E affondo dentro.
Senza rabbia.
Disegno pensieri con le dita.
E ci soffio dentro.
Niente più astrazione.
La penna è sul tavolo. La lampada si riscalda nella sua stessa luce. Fuori il vento piega un tronco e gli ruba le foglie. Il pane non profuma più. Il mio the verde è sempre più giallo. L'orlo della gonna è scucito. Il mio rimmel mi macchia gli occhi. Ma non ho pianto. Ma non ci giurerei.
Ma che importa?
La vera vita è quella nella testa.
E il mondo fuori gira e gira e gira.
Non sarà il mio tacco ad infilzarlo per costringerlo ad un mezzo giro di valzer.
Ad una genuflessione.
O ad una preghiera sincera.
La misura della sincerità è la astrazione
imperfetta che consumiamo
nella nostra gola.
Mentre deglutiamo pentimento.
Assolutamente astratto.
Solo il peccato sa essere concreto.
E tu la conosci la mia perversa dolcezza.
Indecente come una calza smagliata.
Una riga che poi non lascia segni.
Nè traccia confini.
Nè margini.
Sì.
Oggi sono smarginata.
Come un succo di arancia rovesciato sul vassoio.
Mai negare l'ultimo desiderio ad un condannato.

Quando pensai che piovevano rose io immaginai una primavera, ma una primavera effimera. Aveva perso il suo profumo. Quelle del risveglio delle foglie. Senza il canto degli uccellini. E la vita a popolare i loro nidi. E non c'erano le calle ad inneggiare al cielo nel mio giardino. Solo una ostinata e temprata gerbera. Indifferente al gelo. Come a volte sento i miei gomiti.
Forse fu colpa di un ciao.
E il mondo sorrise.
Non so dove sia finito.
Forse neanche è mai esistito.
Piccoli aeroplani di carta sono le emozioni. Sfidano il vento e non sempre resistono. Tutta la furia in cui si imbattono le rendone coriandoli. Poi altro è la gioia. Della primavera vera. Quella più vera ed autentica che possa capitarci. Quando l'odore delle stelle, come una mano, buca la notte e ti arriva dritto alle nari.
Una birra ghiacciata. A sfidare il mare. E il tuo maglione. Io spensi lo stereo. E ti sussurravo nelle orecchie. L'unica musica dovevo essere io che mi affidavo a te. Come uno strappo. Una lampo. In una vita diversa. E ti parlavo e ti ridevo, mirando al cuore. Non so se al tuo o al mio. Hai mai pensato che i miei baci fossero ami di una verità crudele? Il corpo non mente. E ti bendavo. Perchè così avrei potuto cercarmi le risposte sulla tua carne. Le mie le conoscevo già. Ed io posso mettere in dubbio tutto, ma al mio cuore concedo sempre una seconda possibilità. Lo ascolto e riascolto. E poi se sbaglia non posso che perdonarlo.
Tu non lo sai.
Me lo dissero le stelle ormai sbronze.
E io omisi.
E mi presi le mie risposte mai chieste.
Mentre ti dondolavo un ciao.
Ecco, sì.
Fu detto.
Ma forse non era quello.
Non quello di prima, intendo.
A volte vorrei raccoglierti tra le braccia e raccontarti tutto. Tutto quello che non hai voluto mai ascoltare. Forse mi avresti scorta un pò simile a te. E chi ci è troppo simile non si può amare. Perchè l'amore non è una sovrapposizione. Ma il timido e impetuoso mescolarsi. Quello che ti racconterei non è una favola, ma quello che ero prima di te. Quello che mi hanno fatto. Quello che mi sono fatta. Persino quello che mi sono fatta fare.
Saresti il mio scrigno.
Delle mie verità.

Come nessuno mai.


Trackback: 0 - Scrivi Commento - Commenti: 3
Sparami. Sparami dentro la bocca. E uccidi il mio vestito d'argento. La mia gonna di stagnola. Distruggimi gli alberi di natale e la stella cometa arancio. Sparaci dentro l'amore e l'odio. Voglio la poesia del tuo fiato. Il poema elettrico del tuo desiderio. Come una serie intermittente. Capace di fulminarsi come estremo atto di eroismo. E sentirmi le sue scosse, lenti e ravvicinate, nei polsi. Non preoccuparti non voglio abbracciarti. Ma solo sporcarmi della tua saliva. Il tuo fiume. Il gancio verso l'inferno delle mie viscere. Dove annego. E dove torno come una donna pesce. E là sei rimasto incastrato. Mentre io ti gattonavo davanti pudica come una lupa che si dirige al suo pasto. Una lupa sazia e crudele. Con brandelli di parole nelle fauci.
So essere peggio di quanto tu possa credere.
So essere l'incrocio tra un angelo caldo ed un demone gelido.
E tu lo devi sapere.
E devi sapere che so essere un animale.
E lo sono.
Ma solo quando voglio.
E adesso vattene se ci riesci.
Non sono il tuo peccato.
Io sono il mio.
Un peccato verticale.
Come la bava di una stella.
E' strano. Era un sogno strano. Uno di quei sogni che sembrano veri. Veri perchè non hai la percezione della confusione in cui ti aggiri. Quella che poi ti assale al risveglio. E ti resta quel senso di confusione che avresti dovuto capire ma forse non potevi. E forse quello faceva sembrare tutto un pò vero o solo un pò reale. Come una nebbia al contrario. E le cose faticano a prendere il loro posto. Era un sogno proprio così. E qualcuno ci ha ficcato dentro la mia bimba. La figlia che non ho. E sembrava non finire mai. E' stato bellissimo sentirmi ovunque istanti da madre. Quasi vera. E' stato il sogno più felice che avessi mai sognato. Di quelli che vorresti davvero fossero veri. E quando ti svegni ti lascia una speranza amara. Come una mandorla.