venerdì 8 maggio 2015

La solitudine fa una strana compagnia, quasi goffa, dalle mille forme tentacolari. Ed è diversa dal  silenzio. Ha una voce, e mille voci e non è mai quella giusta. Una voce e troppe parole, tutte confuse, capaci di azzannarsi, di sbocconcellarsi, di mozzarsi. Pezzi di parole che non avranno mai la dignità di farsi frasi, ed in quell'incompiuto si celebra il trionfo quotidiano della superficialità. Parole tutte sbagliate, come petali spezzati, che non comporranno più la corolla, nella sua vergine integrità. Resta violata, come una promessa, come un sogno infranto, un desiderio propondo mai espresso, non importa di chi sia. Siamo occasioni nelle vite in cui ci impattiamo, e occhi e pelle, e anima e mente. Occasioni in quell'esatto istante in cui il contatto ci sfiora. E nessuna indifferenza può levigare quel tocco, solo altre impronte su di noi lo spingeranno più a fondo. Perchè non bisogna mai abbandonare il coraggio di farsi toccare dalla vita che capita. Oltre ogni logica, ogni sospiro, ogni istante sbagliato. Perchè dopo ve ne sarà uno ancora più sbagliato, o proprio quello imperfetto capace di farci gioire. La felicità è una responsabilità molto seria, in fondo. Sono solo sensazioni sminuzzate dentro di me, e strisciate su questo foglio, ed io ne ho bisogno per farmi chiarezza, una chiarezza apparente, che non sa di bilancio, ma di piccola barchetta in un mare troppo grosso, in cui a volte l'acqua sa essere terribilmente amara, mentre altre si mescola al vento e ti consente di accarezzare il bordo.
Oggi si mangia pane e fragole.
E così ti ritrovo tra le mie dita, acqua, acqua di mare, tenera e fragile, sincera eco del tempo. Freschi ricordi tra le dita, sotto le unghie, segnano, quasi tagliano, graffiano e fanno giri immensi. Cuore - dita, dita - vene, vene - mente, mente - fiato, fiato-fiato-fiato, da non poterne più. E così tra la sabbia ed il tuo rumore mi ritrovo sempre bambina. Stano quella parte di me, fatta di ricordi caldi, immersi in un tepore che è capace di farci schiacciare il cuore come un'ostia. Con la salsedine che tira la pelle, l'odore atroce del sole sui muri, il sapore della frutta e il vento che tutto lega e scompone. E soffia, soffia, soffia. Fiato-ancora cuore, sempre di più. Io, nascosta tra le pagine di un libro, nei pomeriggi lunghi e spettinati, tra parole e sogni e slanci verso il dopo, mentre mi annodavo i desideri come palloncini colorati. Ondeggiavo sui tacchi di mia zia. E le serate, così leggere da sembrare immense, lenzuola di cielo, e stelle, con i piedi penzolanti verso un vuoto che non spaventava mai; intere notti immerse in un disco, come in un fodero, e che si sgraffiava puntualmente nella parte della canzone che ti piaceva di meno, fino a quando le sue note indolenti ci stordivano tra gerani e zanzare. Sabbia tra i denti, sotto i piedi, sabbia nelle lenzuola, sabbia ovunque, e le grida di mia madre che rimbalzavano nel corridoio, perchè le rovinavamo il pavimento;  e io e mio padre a guardare le stelle infarcite di anguria e dei suoi racconti di bambino. Basta poco, poca acqua sulle dita e la vita si riavvolge come quel nastro furioso che è pronto a ripartire ed ogni volta si interrompe nel punto che più gli piace, lasciandoci la memoria come un campo di mine inesplose. Io ero quello e quello sarò sempre, e con tempo, la bestia nera, mi rendo conto che nessuno entra davvero dentro di te. Spia, resta sull'uscio, raccoglie e scappa. Frammenti sparsi, e l'immagine non è mai integra. Sei buona o cattiva, a secondo dei pezzi. Mai una, voluta, desiderata, tutta, nel bene e nel male. Ma va bene così. Anzi benissimo.
Mi schermisco per difendermi.
E piovono rose, solo perché non so smettere di contemplare il cielo, dopo averlo capovolto. Un cielo ribaltato, e noi con lui, con il cuore sempre al centro, maledettamente equidistante, in equilibrio precario, da qualsiasi periferia sappiamo concepire la distanza. La poesia del sangue che scorre e non si ferma ha una crudeltà ed una sua illogica bellezza, selvaggia e violenta, che pare celebrare dentro di noi infinite piccole albe. E sì, piovo rose, perché è così che la vita prosegue, immaginandocela nel modo più dolce e lieve possibile, ancorata a quel filo che sa di speranza, imbrattato dall’amarezza che ci è stata schizzata maldestramente dall’incalzare dei giorni, dal loro inseguirsi, dalla paura di vivere, e spezzata dal gancio verso il futuro, che a volte si annoda intorno ai polsi e quasi  li stritola. Un promemoria. Passi incerti e speranza, oltre ogni coltre, ogni nebbia, bucata dalla voglia di domani, a chiazze, che ci colora il mondo.
Anche quando chiudiamo gli occhi, e là restiamo nascosti.
Sotto le nostra palpebre.
Gomitoli dentro il nostro respiro.
Ho una saggezza precaria che scivola presto, prima ancora, senza indugio alcuno, nella follia. Altalena di mente e di anima, una alternanza goffa ed inesatta, fino a precipitare tra le radici, a strappare piante ubriache, con una crudeltà inaspettata. Quasi un indulto di vita e di desiderio, di voglia e di rimorsi, come corde di linfa, fruste di gioia e tristezza. Mendicanti di parole, di brandelli scomposti, siamo i nostri sogni, il filo segreto tra le stelle e la mente, la loro scia sui nostri pensieri. Ed all'inverso, la loro impronta immemore. Io sogno poco e male ma se lo faccio avviene con ingordigia. Di sogni maldestri e sfacciati. Mi piace riderti nelle orecchie, come se fosse acqua che scorre, zampilli ad intermittenza, tra le mie malinconie fitte, e sentirti senza toccarti, come se tutto fosse la eco dei sensi, la loro estensione segreta. Sulla soglie di parole mai dette.
Così ho scritto sulla tua pelle infinite storie.
Traccia, dopo traccia.
Poche immagini e confuse. La voglia immonda di pane e petali. E un sole nero dentro che mi sporca le vene. Ed è facile farmi del male. Perchè io lo faccio a me stessa per prima, lascio la impronta e la scia, perchè così so che l'urto successivo farà meno male. Prevengo il dolore con altro dolore, e lo antepongo a ciò che sarà. Come se la circonferenza fosse sempre esatta ed io al centro ne conto i singoli punti, senza arrivare mai alla fine; solo perchè non so da dove sono partita e dove devo arrivare. Non ho messaggi per nessuno, e neanche per me stessa, forse per il vento. E perchè un giorno ritrovando le mie parole io possa capire quanto sia stato facile errare. 
Sì, ho fame di pane e fiori.