giovedì 17 dicembre 2009

Ho smesso di raccogliere i pezzi. Di spezzare foglie. Per lasciare una scia. "Cercami". E' il gioco in cui mi perdo. E ho smesso di ascoltare. Voci come se fossero tulipani cigolanti. Voci di lama. E di aghi. Urla affamate di neve. Ho smesso. Di ricopiare impronte. Di levigarle. Di modellarle. Di dargli la forma del tutto. E del giusto. Il giusto è deforme. E informe. Spinto dai battiti. E spesso si scioglie davanti al fuoco. Ho smesso. Di mozzare pezzi ad albe. Di soffocare i suoi tremiti. Di amputare la rugiada dai fiori. E ricomporre. E conservare. Nella guerra degli spigoli. Dove non c'è sangue. Solo silenzio. E punge. Ho smesso. E forse no. Forse è la verità che mi appartiene. E mi solletica le vene. No. Non sto tremando.
Ma non smetto mai di smettere.
Non sento. Al centro di me un'arpa di carne sta rimestando pensieri e desideri e sogni. Una musica imperfetta. E meravigliosamente scomposta. Mi fa credere di essere vita. E mi spinge i battiti nel cuore.
Imperfetto cuore.
E di neve. E come neve. Brividi cadono sulla pelle. Indecenti e sconsiderati. E' il segreto che ci copriamo con i giorni. Come se fosse una maglia sulla pelle stordita. Una pioggia sconsiderata e invadente. A superare la distanza. Tra noi e il sogno. Il salto nel vuoto del divenire. E il nuovo giorno pizzica il sonno. E lo fa quasi gemere. Di un risveglio indotto. Senza coscienza. E mi ritrovo con il vento del passato che mi urta le reni e mi spinge. Fa male. E fa bene. Non fa quasi neanche differenza. Se penso al mondo penso ad un quadro. E ringrazio della magia. Della meraviglia e dell'incanto. Della regola delle regole. La bellezza che tutto tocca. Anche se noi noi non vogliamo. E ci induce a vivere. Anche se a volte diventa difficile. Quasi tormento a cubetti. Perchè secerne altra vita. E noi ci siamo creduti più furbi dell'errore. Abbiamo pensato che era tutto dietro l'angolo. E lo abbiamo svoltato come forsennati. Ma tutto torna. E le attese sono immensi corridoi. Fatti di muri e sangue. A volte. Altre battiti di ciglia. E carezze di aria. E dietro quell'angolo ve ne sono altri. Quello che ci turba è un orizzonte fatto di linee e di parole. Parole e linee. Se chiudo gli occhi il mio orizzonte ha un colore meraviglioso che ha innondato tutte le linee e tutte le parole. E' pieno di svabature. Come una enorme torta che ha superato il bordo. E invade senza paura. e Senza paura della paura. E senza far male. Ma non vi dico quale è. Non ci riesco.
Era un gioco bellissimo.
Così bello da non essere gioco.
Ma lo chiamavamo così.
Per dargli maggior senso.
Io chiudevo gli occhi e tu mi parlavi. E ti raccontavo dei colori che vedevo. E senza riaprirli tu continuavi a parlarmi. E tutto mi sembrava una sola parola. E i colori cambiavano sempre. Avrei continuato per sempre. A lasciarmi disegnare nuovi colori dalle tue parole.
Poi il gioco finì.
Ma non era un gioco.
Le mie promesse. Petali smangiati dal gelo. I suoi denti tra i pensieri. Senza dolore. Nell'attesa più pura. Con la speranza che ti rimbomba nelle vene. Non c'è sangue. Mi incanto e cerco di trovare il centro delle cose. Il punto esatto in cui l'acqua diviene ghiaccio. Toccare l'istante. E dopo sarà come mai. E mai più. E l'incanto dentro. La sottile nudità dell'anima. Incapace di sentire altro che non sia quel velo di distacco dal resto. La logica dell'amore è una scienza meravigliosamente inesatta. Petali minuscoli e gracili. Si schiudono e si richiudono. E negarsi una gioia blanda. Quasi serenità. Una corda intorno ai fianchi. Stringi e stringimi. Quando mi abbracciavi abbracciavi tutto. Anche le mie paure. Fino a lasciarle senza respiro. Distruggere. Per non ammettere. E distruggere ogni promessa. E poi distruggere tutto il resto. Per rinascere ancora. In un'altra pagina. Parole senza carne. Sembrano farfalle pazze. Annusano la luce. Colore senza anima. Non merito amore. E ogni volta mi perdo in uno specchio. A caccia dei miei occhi. Quelli che non hanno il coraggio di parlare. E si vestono di sguardi. E di segreti. E di sguardi segreti. I più sinceri possibile. E chiedono tra le ciglia. COme alito sul vetro. Con la loro voce muta implorano che qualcuno rubi le parole incastrate dentro. C'è rugiarda tra le ciglia. Segno che il nuovo giorno sta cominciando. Con la voglia di una comprensione silenziosa. Come il filo in una cruna. Fino al nodo. Ostento una fragilità. Ho freddo. Baciami gli occhi. E non chiedermi nulla. E dentro il fango. Modella. E invoca la pioggia. Ma la pioggia non cancella. E io non chiedo di cancellare. Ma di dissetare i miei fiori di fango. E poi di lasciarli andare via. Non per sempre. Ma fino a quando sarà.
Mi sento pozzanghera.
In cui sono colati a picco mughetti.
Con una immensa voglia di compattezza.
Basterebbe lasciarsi evaporare l'inverno.
Le cose cambiano. O meglio le cose rimangono. Perchè non si dimentica. L'oblio è un rigurgito della santa ignoranza. Di quel punto della pelle che è rimasto vergine ed incontaminato. Nessuna parola lo ha sfiorato. E' terra del tutto. Di un ignobile tutto. E poi diventare non significa cambiare. Non si tratta di un nuovo vestito per i propri giorni. Noi offriamo vestiti agli altri. E ci preserviamo e riserviamo purissima nudità. E quelle cose restano in quel punto. Preciso e carico di sè. Pregno di vita che fu. E delle sue aspettative immobili. Aborti di amore. Come un sorriso in una fotografia. E' il mondo che si è incastrato con il tempo. E un nuovo spazio prende le sue forme. E nuove cose lo riempiono. O sono le nuove cose che sono respirate dal nuovo spazio. L'amplesso tra il divenire e l'essere. Se solo fosse leggerezza. Forse lo è. In un mondo senza sbarre alle finestre.
E se noi cambiamo, il prima resta là.
Senza di noi.
Senza cassetto.
Noi siamo il cassetto della consapevolezza.
Senza maniglie.
Nessuno può aprirlo.
Si vede solo dall'interno.
Ho sognato che arrivassi là dentro.
Al centro di me.
Dove io non sono mai stata.
Ma era solo brezza leggera.
E il resto vaga. Si dondola. A zonzo. Nel prato dell'indifferenza. Un prato di fiori ammalati. Senza stelo. Corolle di sfacciata bellezza. Ladre di odori. E colori.
So solo secernere pensieri contorti.
E la mia luna ha sgozzato il cielo.
Dopo essersi donata.
Lo ha amato.
Disperata ed efferata.
E poi lo ha teneramente ucciso.
Non so più usare le parole giuste.
Le mie mani scavano in quel prato.
Non per cercare un seme.
Ma per donare uno stelo a quelle corolle pazze.
Vorrei saper scivolare tra le parole.
Accarezzarle.
E curarle.
Lasciarle vagare nella tenerezza.
La morbida nuvola della dolcezza.
Ma non ci riesco.
E le mie mani ancora scavano.
Diventai crudele. Bastò la corteccia di un albero. A strofinarmi la schiena. E il tuo corpo contro. Ero tra te e l'albero. Senza calcolare la distanza. E non respiravo. Per la paura e il desiderio. E non li distinguevo. Le luci delle macchine lontane mi ricoprivano le palpebre serrate. Compresse sui miei sogni. E mi ritrovai a tremarti addosso. Senza capire che era tutto diverso. Anche le pupille che mi avevi sputato dentro gli occhi. C'era qualcosa di te che non mi sarebbe mai appartenuto. Quella luce, per esempio.
A volte li rivedo i tuoi occhi.
Hanno il rumore del mare.
Incorniciati nell'abbaiare di un cane.
Diventai crudele e allora compresi.
Mentre la rabbia mi segò le vene.
Il "per sempre" dei miei sogni era stato ingoiato dalla tua bocca.
La mano tra i capelli.
E la tua presa maschia e ruvida lasciarono una scia.
E mi rotolò al centro della guancia.
Camuffata da lacrima.
Tu le baciavi le mie lacrime.
Mi bevevi e sorridevi.
E io tornavo crudele.
E mi raccontavo sempre la stessa storia.
Per addormentarmi.
Il latte sul comodino.
E la zanzara sotto il ginocchio.
L'odore del mare cancellava tutto.
E mi ritrovo a volte con un fardello di rabbia.
Sconosciuta.
Macchia.
E mi lascia senza forze.
Mi sbatte dentro un pozzo.
Vedo il mondo attraverso la sua bocca.
E sento con la sua pancia.
E a volte l'odore del mare non basta.
No.
Non basta.
E' che la nostra memoria si agita in un mare di sensi.
Ed ogni senso ha la sua memoria.
Sospesa in un giorno qualcunque. Non chiedo. Non guardo. Non ascolto. Neanche sento. Sembra la fiera delle negazioni. Il patrimonio di chi non ha nulla, o quasi, da dire. E si limita a dissentire. E ricorda. Perchè le cose hanno bisogno di decantare. Di adagiarsi sul fondo. E cospargerlo della lentezza. E dal fondo riemergere. La vita intorno ha una poesia che non so cogliere. E non è la goccia che si spacca nel lavabo. Massacra attimi con approssimata regolarità. E' nella vita. Nei suoi movimenti sordi. Fatti di sangue silenzioso e composto. Non c'è nulla che mi stupisca. E accolgo tutto. Anche il male. Anche il diprezzo. In qualche momento lontano, forse in un'altra vita, mi sono convinta di meritarlo. Come se fosse un attimo di gloria inversa. La celebrazione del non_ritorno. E ho incominciato a buttarmi nelle emozioni a capofitto. Senza percepire altro che l'urto dell'impatto. Emozioni immobili e circospette. Mi guardano con gli occhi sbarrati. E un certo disappunto.
Mi vesto di parole.
Mentre le tempie di esplodono.
Come se fossero la gabbia di farfalle in delirio.
Mi vesto di parole.
Ma non dico mai quello che voglio.
E' ancora sul fondo.
Nel mio presepe?
C'è una cartolina, un tappo di bottiglia, un'ape, una mela e un ragno.
Margherite che sghignazzano nel mio cielo oggi. Le sento ridere. Di una risata marcia. Perdono petali. E sciorinano polline. E i petali sfrangiati si scuotono nell'aria. Come criniere di gatti che si sentono leoni. Rugiscono con dei "maoooo" senza dignità. Persino Miscio ride a crepapelle. Tra uno sbadiglio e l'altro. Rischiando di guastarsi la messa in piega. E l'aria è tesa. Attraversata da frecce senza direzione. Reduci da una battaglia. Vinte. Da un muro di nuvole. E stupore. E delusione. Strati di gioia e dolore. Non voglio sentirne il tonfo. Ma non sono mie queste mani che mi coprono le orecchie. Sono mani senza padrone. Mi accarezzano il collo. Quasi a volerlo stringere. Come se ogni respiro finisse in un imbuto. E il mondo si è ribaltato. Affondo i piedi nelle nuvole. Un arcobaleno sfacciato le spacca come legna. Giusto un istante. Un colpo netto. Senza sbavature. Prima di essere ingoiato. Come il filo di un rocchetto. Serve a ricucire il cielo. E le ferite. Scorreva sangue. Adesso non più. Non ho più bisogno di spiegare. Non ho capito. E dovevo. Era tutto evidente. Ma ci costringiamo a dare alle cose la forma di un sogno. Non c'erano colori. Li ho immaginati. E continuano a colorarmi il mondo. A leccarne la superficie per scoprirne il gusto. E io non voglio. Non voglio colori. E non voglio parole. Sono le frecce del pentimento imploso. Mi sta tremando dentro. Dopo che mi hanno rubato tutti i brividi di cui ero capace. Sembra che le pupille siano cucite su questo maledetto incubo. E io sogno e risogno. E sogno di svegliarmi. Una vespa mi punge il lobo. No. Non è un morso.Ma solo il mio orecchino spezzato.
Confidavo i miei segreti ad una coccinella.
Ma poi le strappavo le ali.
Ogni volta custodisco dentro il desiderio di potermi mostrare come sono davvero. E mi tolgo i pezzi. Mi smonto. Con la voglia malvagia di fiducia. Di affetto. Perchè il mio è un sogno senza limiti. E senza regole. Mi smonto e rimonto. Ma incastro male i pezzi. E fa un male cane. Anzi un male gatto. Graffia e miagola a volontà.
Mi piacciono le parole quasi solide. Quelle che pesano. Con poca ombra. E un odore che sa di inchiostro. E di vino. Hanno sostanza. Strisciano e lasciano il segno. E te le ritrovi tra le mani. Come se fossero pane. E le tue mani fogli vergini. Panelle Con la corteccia dura ma non compatta. E se ci spingi il dito te la senti crollare tra le mani. In un fremito voluttuoso. Dentro e fuori. Prima e poi. Artifici di chi ha fame di vivere. E si ingozza di aspettative. Il tempo aiuta a vedere le cose. A vederle. E a vederle diversamente. E' successo a me. E' scivolato tra me e il passato. E il passato è divenuto una distesa di sabbia e fragole. Anche quello che credevo un dolore purulento. Con i colori del brivido viola. Si converte in un sorriso traballante. Senti fresco tra i denti. Fino ai polmoni. Sta portando a spasso il suo cane maldestro. Ma dolcissimo. E io vedo. E osservo. Ha braccia e occhi che sputano fuori il cuore. Sento. Come se fosse la prima volta. E quasi non mi importa che gli altri capiscano. E a volte c'è una durezza che prende la forma della autenticità. E ti accorgi di amare quello che credevi lontano. Il senso dell'impossibilità ti gonfia le vene e le stringe forte. Come se non volesse lasciarle mai. Avete mai sentito il cuore battervi dentro? Come un tamburo irregolare e prepotente. Come un tuono in gola. Come una mano dentro la pancia. Capace di spazzare via tutto. A volte capita. E la chiamano casualità, fame o diletto.
Non so suonare la cetra nè alcuno strumento.
Ma se chiudo gli occhi la musica mi sconquassa la testa.
E mi morde le vene.
Da bimba intingevo il dito nel vino e lo cospargevo sulle labbra.
Come se fosse rossetto.
Ferita. Le sbarre sulla carne. Nessun cerbiatto nella gabbia. Sta sanguinando un cuore strappato. In una pozza di edera. Nessuno lo rivendica. E la belva sorride. I suoi denti luccicano. Non mangia cuori. Fa solo collezione del loro odore.
Il mio cuore profuma di mela.
Ma la bestia non lo sa.
Odora di mela e perdono e veleno.
Mi cerco.
E mi perdo.
In un punto inesatto.
Impreciso.
Di ritorno.
Delirio e fragilità.
E non è la stessa cosa.
Ma non posso dirlo.
Se tremo è solo per il freddo di una notte troppo ispida.
I suoi spigoli stanno roteando in qualche cielo.
Con la sola voglia di ribaltarlo.
E colano a picco lune.
E poi lune.
Le conto per addormentarmi.
La belva è sveglia.
Mi ha rubato sensi e dolore.
E non oso chiederli indietro.
Conto lune.
Per dimenticare.
Le riconto per ricordare.
Ho il ventre pieno zeppo di lune.
Prima poi esploderà.
Se io avessi un coltello ci darei un taglio.
"Passamelo".
E accartoccio i pianeti e le stelle che mi separano dal resto.
Fino a farne una pila incerta sul mio comodino.
Basterebbe un pò di vento per farla cadere.
Sono nodi quelli che uniscono le cose con le cose. A mischiarne i movimenti. A lisciarli e renderli stabili. O preservarli e inzupparli di apparente stabilità. O servono solo a dare compattezza ed aspirante inamovibilità al loro nucleo. Per farlo muovere poco. Incardinarlo all'incardinabile. E i ganci sono le parole. E preservarlo dai facili sobbalzi. Quelli che ti fanno respirare al contrario. Mentre il cuore ti scivola tra le ginocchia. Non le richiudi per timore di stringerlo. E ti fanno chiudere gli occhi. Con la sola voglia di riaprirli subito. Per vedere cosa sia accaduto. O solo per vedere se si è ancora in grado di vedere. Non so mai dare la risposta giusta e invece di tacere sorrido. E mi spalmo l'imbarazzo sull'inconsapevolezza. E' un nodo quello che mi unisce a quella parte di me che non comprendo. Ma che non butto via. Ma tengo stretta me. E in tutta la forza che ci metto ci sono occhi, mani e cuore. Una specie di vita pensata e rinnegata e ripensata ed afferrata.
C'è ancora il suo odore nei miei polpastrelli.
E non basta lavarsi le mani.
Fu quella prima sensazione. Un imprinting. Una forma lieve ma compatta. Tra le ossa. Tra il respiro e le costole. Fino a farle scricchiolare. Una scia sulla carne. Un solco invisibile su cui sarebbe scorso tutto il resto. Su cui si sarebbero accumulati rivoli di stupore e di battiti e di attesa. E la scia sarebbe divenuta fiume in piena e scampoli di delirio. Una sensazione capace di mordere l'istante. E poi schizzare addosso la eco di mille morsi. Al cuore. O alla sua sagoma beffarda. La pompa del divenire amore.
E diventare catena invisibile.
Una luce che scompare.
E tenti di afferrarla.
La fuga ti graffia le dita.
E poi la mente.
E stai ancora scappando.
Punto e a capo.
La luce della sera spinge l'ombra contro il soffitto.
La sbatte come il desiderio.
Mi sono sempre guardata dal di dentro.
Infinite volte.
Ci ho provato da fuori.
Una sola volta.
E ho visto.
Petali strappati.
Senza sangue.
Un fiore appassito che disperato urla.
La voce rubata alla terra.
Alle sue viscere.
Annego nel vuoto.
E mi perdo.
Senza radici.
Perchè la terra ama
attraverso le sue radici.
Immensamente.
E mi avvolgo nella tua idea. Sei il mio bosco. E ti respiro. E' quello che voglio. Il tuo profumo e il tuo rumore. Vicini. Alle mie spalle. E nelle orecchie. Mi piego nel tuo desiderio. E ti dono il mio desiderarti. Avvolgimi. E legami. Tu puoi. Scorrermi e percorrermi. E rigare di luce il mio buio. Io sono questo. Ombra affamata della luce. E non comprendo il limite. Quando il giorno si fa notte. E il giorno notte. Quale è il confine tra te e il desiderio di te. Perchè nei sogni ci sei. E sei mio. L'unica carne che vorrei essere. E poi riapro gli occhi e sei solo aria. Dolcissima aria. Nella mia mente. La nostra casa. Dove possiamo esserci immensamente dentro. Potessi descrivere quello che provo ora. Un nodo dentro.
Devo scrivere. E lo faccio. Per dimenticare ed accantonare. Il senso di errore. Di impudicizia. Vorrei violentare il tuo pudore. Scrivere è tuffarsi in un lago di oblio. Dalla realtà. Il tuo silenzio vibra di mille respiri. Vibra di sangue e di passione. Ne mordo un pezzetto. Lo trattengo tra le labbra. Così sei un pò mio. E io tua. Con pezzettini del tuo silenzio tra le labbra. Questo è l'ombra dell'appartanersi. Annegato nei sensi. Perchè se ti penso, dalle labbra mi coli a picco. Dentro. Come un antico galeone. La verità brucia ancora. E continuerà. E' uno spessore di ghiaccio. Incandescente. Nessun palliativo. Solo angoli di desiderio. Puro. E a volte impuro. Mi stai navigando ancora dentro. Sono il tuo mare.
Sembrava ieri ma era domani.
Tu dove eri?
Mi dormi sopra e non mi ascolti.
Dove si è perso il senso e la misura tra me e te?
Ti sussurro il mio bisogno ogni e ogni notte.
Lo soffio tra i tuoi occhi chiusi.
E le mie mani affondano nel tuo sonno.
Senza coraggio.
E forse senza viltà.
Ai margini. Nascoste dietro una tenda. Le mani si intrecciavano. Come spighe nel vento disperato. Strofinanandosi l'assenza contro. Fino a non sentirla. Sentivano solo la dimensione di mano. E le dita che si aprivano come fiori al mattino. Coppe di rugiada. A scavarsi d'ardore. Pudico. Le mani si osservavano. E osservavano il mondo. Sfiorandolo. In una rete di sogni. Leggera e morbida. E a dirlo già si fendeva. La trama cedeva al peso degli sguardi. Si sussurrava d'amore. Nel silenzio si sublimava la sua voglia. Mai vissuto. Fino in fondo. Libere di guardarsi tra le ciglia della notte. Le mani si dormivano addosso. Ed era semplice. Ma bellissimo. Da non volerlo lasciare finire mai.
Ho scavato in una terra dimenticata. E vi ho ritrovato pezzi del mio pudore perduto. Sminuzzato. Conservo pezzi di me. Per impedirmi di tornare a essere meno che quella. Un giro inutile. E si proclama l'ultimo. Mentre l'incanto e la meravigliosa stanno scorrendo altrove. E respirano forte. Da sembrare urla.
E' la stola con cui ricopro la mia nudità.
E non è la mia povertà.
Ma la mia unica ricchezza.
La mia pelle è la casa invisibile della mia anima.
Invisibile come me.
Sono una donna invisibile.
Con il cuore trasparente.
Nessuno lo vedo.
E non ne conosce le righe.
Non lascio traccia.
Ma ne conservo.
Tu non lo sai.
E ora che mi sono spaccata le ali
finalmente sento la terra sotto i piedi.
Le ho squarciate.
Perchè altro non so fare.
Distruggere mi fa pensare che un giorno
diventerò migliore.
Ma forse lo ero già.
E oggi è domani.
E di polvere e residui bellici scrivo pensieri.
Detriti organici della mia guerra fatta di carne.
E vita.
Perchè io ci rimetto pezzi.
Ogni volta.
E questa volta sto provando a trattenerli.
E sentirli miei finchè posso.
Perchè quando non ne riconoscerò l'odore
vorrà dire che sarò diversa.
Scrivo pensieri senza traccia.
Con una eco muta.
Ho un cuore invisibile e affamato.
Tu non lo sai.
E non sa resistere alle parole.
Lo puoi graffiare senza accorgertene.
Le mie dita di carne non riescono ad afferrarlo.
Ed è disperata la loro indegna presa.
Mi ritrovo farfalle furenti tra le mani.
E la mia bocca non sa leccare il suo sangue
immaginario
ed insolente.
Nessun volo.
Nessuna finzione.
Solo occhi smangiati dallo scorrere del giorno.
Con la luce che li percorre al contrario.
Ad inseguire il filo di un discorso.
E le parole mi tornano contro.
Tu non lo sai.
Come sono con gli altri.
Mentre con il fiato ti lascio ricamare il mio collo.
Ti svuoto la verità.
E mi riempio.
E ti lascio battere il cuore contro la mia schiena.
Fino a sentirlo mio.
Come se battesse al posto del mio cuore assente.
Non sai che so strisciare come una gatta affamata.
E contorcermi l'anima come se fosse un mantello.
Non lo sai che con te sono diversa.
Non lo sai.
E non lo devi sapere.
E devi pensarmi peggiore.
E' questo che voglio
Ho spento i miei colori. Li ho strisciato come mozziconi contro i muri. Lucida consapevolezza. Quasi follia. E il "quasi" mi urta sulle tempie. Rimbalza e scivola. Portando con sè tutto il resto. Ricama l'odore del mare. Sulle mie gote. Ecco cosa mancava. Era l'odore del mare a mancare. E la sua assenza fino agli angoli della bocca. Intrisi di quella assenza. Tanto pesante da saperli spingere in basso. Il mare reclama la sua riva. Ha fame. Ecco cosa mancava. Era la forza del mare. Capace di invadere e nascondere. E mangiare tutto. Mancava il suo senso di immenso. E la sua voglia di ricoprire tutto.
Mi sembra di sentire la sabbia tra le dita.
Come se fossi solo buio.
Sabbia e buio.
Annuso la salsedine che non c'è stata. E là mi disegno la forma delle parole. Come se fosse la pagina innocente di un libro.
Ma io li vedo i miei colori.
E' che sono gelosa della mia luce. E la impicco. Sono gelosa di tutto quello che mi sfiora. Di ogni conchiglia che si incastona sulla mia riva. E' maledetta debolezza questo orrore che mi stringe il cuore. Mi innietta il suo veleno nelle vene. E graffio la mia mente di paure. Quelle di sempre. Fatte un pò di vita e un pò no. L'antivita si insidia nei ricordi e li frantuma e te li infila sottopelle. Al posto sbagliato. E se ti muovi si infilano nei tuoi movimenti. La sabbia adesso è arrivata al cuore. Immobile. E' così che devo stare.
Ad ascoltare.
Le mie parole nude.
E le ascolto.
Ma non sento più.
Le vedo tremolanti e supplici.
Scivolano come lacrime mai piante.
E rotolano come i sorrisi che non ho saputo donare.
Spente tra i battiti del mio polso.
Ingoio parole.
E la loro forma.
Perchè le mie parole nude adesso tacciono.
Come se fossero vergogna.
E forse lo è.
E nuda è la mia bocca.
E nudo anche il cuore.
Mancano una, due, tre lune. Rotolano come perle della mia collana. Rotolano e srotolano. E si rifugiano. Silenziosa la scia. Mancano quattro e cinque lune. La sesta è incastrata tra stelle che la abbracciano. Così forte da toglierle il respiro. E la sua pelle di luna smette di splendere. Risplende dentro e si sorride. Sono in ritardo sulla mia vita di sette ore. Sette ore costanti. Fatte di schiuma e di erba molle. E di ventidue minuti. Arrivo ed è già compiuto. Tutto già avvenuto. Foglie secche e sparse ad accarezzarmi la più pura delle solitudini. E il ritardo mi tira per i capelli. E mi mordicchia il lobo. E io riprendo a correre. Al tempo che mi corre avanti e arrotola fatti. E fatti su fatti affondo nel fiatone, nella sorpresa ed in quel vuoto di luna. Pieno del troppo vuoto. Roteo il capo dentro una luna impiccata. E non fa male. E mancano ancora. Otto e nove lune dondolanti. Sotto un soffitto sconosciuto. E mi lascia bagnare da tutta la sincerità che mi scorre addosso. Tanto da volerne annegare.
Per lettera. E tra le lettere. Sfidò la legge di gravità. E sognò un volo. E si disegnò immense ali di carta. Per sfiorare il cielo. Le colorava. E ripuliva. Voleva solo toccarlo. Senza rubare nulla. Sapeva che inevitabilmente sarebbe affondata nel ritorno. Ma le sue ali avrebbero annusato il cielo. E sarebbero diventate brandelli e polvere di sogno. E a volte pece nera. Quella che cosparge di delusione. Ma le parole e tra le parole e nelle parole e dentro le parole si annida il germe del coraggio. Fu segreto secreto da un mostro che si nascondeva nella sua mente. Un guizzo di irragionevole sussulto che talvolta si avvolge intorno al collo. Dalla mente solca la carne e assedia il collo e i suoi movimenti. E decide del tuo respiro. E il gelo che senti è solo l'urlo del pavimento contro i tuoi piedi scalzi. E non tace neanche se glielo chiedi. Fino alla morte del mostro. E i tuoi piedi scalzi continuano a calpestare il suolo spento. E a sognare di affondare dentro erba fresca. Quella che ti fa dimenticare il freddo.
Guardavo i quadri tutti insieme.
Più che potevo.
Ogni volta me li lasciavo esplodere nella mente.
Accumulavo sensazioni.
E confondevo.
Finchè decisi.
Solo uno.
E non ho ancora smesso di guardarlo.
Perchè guardare è amare immensamente.
E prestarsi gli occhi.
Come se fosse una occasione.
Mentre è solo pura causalità.
Irregolare come il guizzo che ci morde il respiro.
Fino alla morte del mostro chiamato coraggio.

domenica 13 dicembre 2009

Come se per un albero potesse essere facile ricrearsi le foglie. Io le ritaglio e le incollo ai miei rami. E poi sono pensieri. E soffiarci dentro e contro non le riempirà di sangue. Attendono la luce. E tremano nel loro divenire pallidi domani. Qualcuno li chiama futuro. Altri addio.
Ogni volta mi ritrovo incastrata nel mio errore fatto di amore.
Anche adesso sta tremando sui polsi.
Mi lascio schizzare la pelle di brividi.
Fino a dimenticare il mio cuore.
"La bella lavanderina che lava i fazzoletti...".
E a volte l'attesa diventava lurido poi.
Basta chiudere gli occhi.
La pretesa macchiava i vetri della mia stanza. Fuori il mare sbranava la sabbia d'inverno e rubava terra agli agricoltori. L'odore del mare era aspro e selvaggio. Sembrava fatto di denti. E di proroghe inutili. E sul vapore della mia finestra scrivevo storie. E le cancellavo.
"Dai un bacio a chi vuoi tu..."
Cancellavo le mie impronte. E mi perdonavo. Di averti perdonato. E i tuoi baci sapevano di tradimento. E li stringevi al mio collo. E ti stringevi a me. Fino a rubarmi l'innocenza in un sorriso. Dimenticavo. Credevo. E questo significava solo che avrei conservato quella sensazione umida e appiccicosa. Donna a metà. Il resto è volato via. Mi piace pensare che sia diventata stella.
Ancora adesso se vedo vetri umidi
mi tremi dentro.
E devo spalancare le finestre.
Forse è da allora che ho imparato a non vergognarmi dell'amore.
Perchè le sento qua nella mia gola. Le parole che ho urlato. La loro ombra mi è rimasta attaccata dentro. Un filo sino al cuore. Ombre e polvere. Ombre di polvere. Tra le mie ciglia. Dove si è perso un sorriso. E un sogno. Tanto tempo fa. E a volte scintilla. Nuotando nelle mie pupille. L'ascensore per il dove. Precipito e mi ritrovo. Così. Negli angoli dimenticati. E trattengo le parole. E le spingo dentro. A urtare con il mio sterno. E a intrecciarsi. Come gramigna. Il tempo mi ha insegnato a trattenere ciò che fa male. E' l'unico modo per rendere utile l'inutile. Vomito nuvole. E pezzi di me. Senza distinzione. Nè ordine. Perchè solo distruggersi aiuta a ricostruirsi. E io sono fuoco. E di fuoco vivo e muio. Amo e odio. E poi di fuoco resisto ed esisto. Anche se è poco. Questa vita che mi soffia dentro ha l'odore dello zolfo. Lo senti nel silenzio. Quando i fiori dormono. E strappo i loro petali. I loro nomi. E le loro tracce.
E' la voce del fuoco che a volte mi parla dentro.
E mi costringe a tacere.
Non volevo nulla.
Non ho chiesto nulla.
Solo la verità.
E il fuoco me la ha data.
Prima di distruggerla.
Non ho equilibrio. Rido. Assolutamente scomposta. Rido ancora. Smorfie di sdegno. Spalanco gli occhietti. Inclino le ciglia per farci rimbalzare una lacrima. Esplode come un fuoco d'artificio. Alla festa del patrono. L'odore dello zucchero filato rovina lo sdegno.
Non ho equilibrio.
Mi fingo seria.
Occhi a gatta e bocca contratta.
Di notte mi manca la luce.
Di giorno mi manca il buio.
Devo assolutamente incastrarmi in un alba e un tramonto.
Sul loro bordo.
Nella tenerezza incerta ed inquieta del confine.
Ma non ci riesco.
Colpa del fuoco.
No.
Non ho equilibrio.
Ma è così bello lasciarsi pettinare dal vento.
Ci sono punti di domanda che si flettono come rami nel vento.
Hanno una immensa fame di aria.
Di aria morbida e sincera.
Come solo l'aria sa essere.
L'aria non mente.
Ho smesso di cercare le risposte negli oocchi degli altri.
E ho aperto i miei.
Ogni comodo segreto è stato avidamente deflorato.
Come se avessi ingoiato pietre.
Amo sentire le pietre.
La loro voce vergine.
Sono vergini con tante anime.
Ma una sola voce.
Amo cercarne le imperfezioni più intense.
Fatte di tempo.
La mia purezza fu un dono non richiesto.
Era nella mente.
La avevo spogliata di ogni difesa.
Sciogliendo ogni nodo.
E lasciandomi annusare i solchi.
Senza timore.
E non mi accorsi del vento che mi accartocciava.
E mi sfogliava senza interesse.
Scorreva nei miei solchi.
E ricominciava.
Rigandomi gli stomi.
Non ci fu urto.
Ma solo i suoi effetti.
Ad occhi chiusi percepisco il mondo.
Ma solo a volte.
E se li apro è perchè ho smesso.
La notte disegna un cielo di stelle.
Un pò è pure mio.
E mi rassicura sapere che c'è.
Anche se non lo vedo.
Io te lo vorrei descrivere il mare. Vorrei metterti le mani dentro la testa e disegnarci il mare. Modellarti con le dita ed il mio respiro l'onda che si stende sulla riva e le dona la sua forza. Quella vera che non ha timore a stemperarsi in fragilità su una tavolozza dal colore indefinito. Come se fosse bacio. E a perdersi nella fine più pura. Quella senza nome. E senza inizio. E rovescia conchiglie fino a farle rotolare e annegare nella sabbia. Come se fosse amore. Vorrei soffiarti dentro la mente l'odore vigoroso del mare. L'ho ascoltato tante volte nelle sere di inverno. E nei mattini d'estate. E gli ho consentito di mescolarmi i pensieri e giocare con il mio petto. E rapirmi frammenti di sogni e di pensieri. E mordermi il cuore. Fiato e mare. E qualche goccia di dolore. Fino ad intrecciarsi al mio respiro. In quei momenti ti senti il possente respiro del mondo dentro. Gradiva di vita. E cerchi una stella qualsiasi per annegarti dentro il suo oblio. Tutto l'oblio di cui è capace. Io vorrei descrivertelo. Come se fosse un dono. Ma non so farlo.
Raccoglimi e sgranami come chicchi di un melograno maturo ed irriverente. Rosso come un tramonto imbarazzato. Esplode sotto i denti. Zeppo della voglia di macchiare il mondo. E di scorrere su labbra avide. Pezzo per pezzo. Delinea il mio contorno. Fino a togliermi ogni forma. E rendermi foglia liscia. Coppa di rugiada in fuga dalla notte verso il giorno. Oggi ho ritrovato le mie mani. E sto scavando dentro la terra. E mi ubriaco del suo odore. A caccia di un seme puro. E affondo le mani. Fino a sentirmi le dita radici. Sono le radici di un futuro. Ruvido e sincero. Non chiedo frutti. Li ho già. Stanno pulsando nelle vene. Pregna del domani che mi sento dentro. E sorrido al mondo. Come se prima non sapessi farlo. Ho tinto le mie labbra di vermiglio. E tra i denti ho ancora il sangue del mondo. Ripeto il mio nome. E non è mai lo stesso. Ogni volta è nuovo. Quello che sembra. Ma è assolutamente uguale. Basteresse ascoltarne la voce. Sta scandendo la sua appartenza ad un corpo. E il corpo è perplesso. Risponde solo al suo battito. E a null'altro. La pentola e il suo rumore. Un gioco da donna. Frantumano il silenzio e riempiono la stanza di presenze antiche. E rivestono di energia e di movimenti semplici. Un gioco del tempo. Perchè la semplicità è l'atteggiarsi del respiro del mondo. Fluido scorrere senza artifici. Ed è così difficile da fermare. Sfugge. E le contorsioni quasi la soffocano.
Come se fosse tutto inutile.
Mentre è tutto assolutamente essenziale.
Raccoglimi e dammi un nuovo nome.
E' un gioco bellissimo.
Piena di nuvole. La mano stringe nuvole. Le afferra. Gli dà la caccia. E se le cosparge ovunque. Nuvole morbide. Umide al punto giusto. Secrete dalla mente. E poi sgozzate. Restano sotto le unghie. Grondano una irrealtà che avvolge come seta. Dentro ci scivoli. Abile nascondiglio. Da me stessa. E dall'altro da me. E a volte dentro quel lenzuolo trasformo la paura in orrore. Ha mille forme la paura. E sa fingersi coraggio. Ingoio e vomito nuvole. Bulimia di amore. Perchè amare troppo è come amare poco. E' non amore. Osserva le mie labbra e il loro contorno. Sono il confine delle cose non dette. Il limite tra la verità ed il suo opposto. La follia. Urto contro il limite. Mi comprime il cranio. E mi frusta la schiena all'improvviso. Senza pietà. E macchia. Come l'orgoglio. La macchia infida che è capace di aprire e chiudere i cancelli del cuore. Tubo infetto tra anima e mente. Pieno di ruggine. Una tonalità del rosso che si sfalda in macchie deformi. Imitano il sangue. Ma non sono capaci di pulsare. Ripeto errori e mi volto. Non so guardarli in faccia. E se li guardo mi rubano le ciglia.
La tenda del mio pudore.
Troppo vento.
Nessun cancello sa fermarlo.
Per caso ho attreversato la realtà. Ed il suo odore mi ha quasi spaventata. Il verde mi ha urlato contro tutta la fatica del vivere. Me la ha sbattuta in faccia. Prima di scivolare in un canale che si snodava come un serpente. E divideva la terra in due. Fino al profondo. E nel senso del profondo si diluisce tutta la voglia di leggerezza di cui siamo capaci. E inarrestabile scorre.
Apro gli occhi.
Tutte le ciglia al loro posto.
Posso rigare l'aria.
Aspetterò domani.

E' che la realtà è morbida e strana. Soffice come una torta. Dalle mille forme. E a volte diventano tentacoli. E a volte delusione. La ampolla dei sogni dilatati e bucati. Schizzano luci come bolle di sapone al patibolo. Ho il cuore che mi batte nella pancia. E la sua musica è tormento. Dammi la mano e ascolta. E' quasi affascinante. Seguire la musica che ti conduce al centro di me. Ma non lasciare la mano. Poi ti farà paura. Nel mio bosco nessuno ti restituirà la tua forma. E la mia mano ti eviterà di guardare ancora se non vorrai. Basterà lasciarla e io non sarò mai esistita. Sarò polvere di rose. Ricorderai solo il mio odore. Nessuno merita di soffrire. E se potessi riavvolgerei tutto il dolore. Tutto quello che posso aver provocato. Lo avvolgerei intorno al mio dito. Il rocchetto del non ritorno. Leccherei tutti gli sbagli che ho commesso. Per cancellare ogni traccia. Non chiedo perdono. Chiedo oblio. Più molle della realtà. Non è uno scambio. Io tengo il mio. Tutto quello che ho e ho avuto. E non baratto nulla. E' il prezzo della libertà. La mia. E lo farei non per allontanare il dolore che svolazza come uno sciame di api cieche e pazze. Ma per ritrovare i miei occhi nello specchio della mia anima.
Un giorno siamo fondo.
Un giorno cielo.
E tutto cambia e noi cambiamo tutto.
Dove è finito il vento?
Ha scompigliato i mie capelli ed è fuggito.
Io rispetto ogni nuova forma
che la vita mia ha disegnato
intorno.
Da lontano.
Ho perso il segno.
E mi tocca ricominciare a leggere.
E tra le foglie. Nascosta. Ad osservare le stelle. E il cielo per cappello. Perchè mostrarsi è un pò donarsi. Nascosta e nascosta la mente. Perchè la mente mente. E se non mente ruba sorrisi. Li stana e li strappa dall'anima. Ne ho calpestati tanti. E mi hanno graffiata. E tra le foglie nascosta e nascosto il cuore. Sta tremando. Se poi lo raccolgo si lascia accarezzare. E raccontare favole. Come un cucciolo selvaggio. E abbandonato. Quello che conosce è la separazione. Gli ha tinto il cielo viola. E non la distingue dalla solitudine. Tra ombra e luce si intreccia al cielo. Fino a leccare le stelle. E ricama di malinconia la balaustra del silenzio. Con i suoi occhi. Sul vetro della notte. A cancellare le orme. Di un percorso fatto di carne e alito. E fame immonda. Io la conosco l'ira. Arriva subito dopo. E con i sorrisi calpesti anche le stelle. E ti stritoli le vene. Fino a negarti il sangue. E non so spiegarne le ragioni. Perchè ragioni non ce ne sono. Dilata le vene e urta contro la mente. E se la mente mente piove aria e il cielo la morde. Fino a non avere più fame.
L'altra mi osserva. Non riusciva a credere. Nulla era cambiato. Anche se era cambiato tutto.
"Non cambi mai. Sei una ladra di arance. Ma butti la corteccia. Ne potresti fare bracciali. E riempirci cuscini.".
Rubavo arance. E ne mordevo la buccia. Deliziandomi nell'amaro del loro sapore. Fino a schiacciarmelo sotto i denti. A comprimermi la loro malinconia arancio in corpo. E a farmi bruciare il palato. E il pendolo riempiva l'aria dell'odore di mia nonna. E le bucce sorridevano sui caloriferi. Prima di infestarci di tristezza la casa. Ma bastava la sua carezza. E il pettine tra i capelli. E il sorriso tornava. E se i capelli erano troppo corti. Bastava un bacio. E il suo profumo di cipria. E il mondo si dilatava in un abbraccio.
"Non cambi mai. Anche se sei cambiata. Hai gli occhi come specchi di tristezza. E ti cuci le lacrime addosso. Sembra neve. Sei una sputaneve. E continui a rubare arance. Non so neanche a chi. E dove tu le prenda le tue arance."
Qualcosa era cambiato. Non le rubavo più. A volte le elemosinavo. I palmi a fare da coppa al cielo. Gli schizzi dell'acqua. E tu mi osservavi divertito. Il mare in inverno. E senza arance. Solo una passione azzurra come un forcone nella pancia. E quell'odore nella mente.
"La tua pelle è come quella di una bimba".
Forse perchè ero una bimba. E la sua barba adulta contro il collo mi sembrava il solco provvido del contadino sulla terra. L'arancia divaricata in spicchi immemori. Niente più buccia. Persa in cambio della innocenza.
Non è cambiato nulla.
Anche se è cambiato tutto.
Tutto è cambiato.
Adesso pago le arance che compro.
E anche quelle che non compro.
Nulla mi fa più paura della dolcezza. Io l'ho incontrata e si è spogliata ed è diventata crudeltà. Con i denti fatti di parole. E ho iniziato a temerla. Ad osservarla come una rosa. Concentrandomi sul suo stelo. Quasi dimenticandomi dei petali. Del suo profumo. Della morbida eleganza della sua corolla. Del suo altero profilo.
Mi sono addormentata tra le spine.
E non so svegliarmi.
Ostinata. Tra briciole e zanzare. Raccolgo e poi conservo. La mia collezione di briciole. Dorate al primo sole. E le metto in fila. E le nascondo in ologrammi immensamente profondi. Tane dell'avvicendarsi del tutto e nulla. E ripulisco. Sempre lo stesso posto. Strofino la mia incostanza in quel punto esatto. Fino a far sanguinare la pietra. Ma le mie nocchia sono integre. In alcuni giorni il cuore è muto. E non serve che io bisbigli formule di incantemi. Mi grana gli occhi e sorride. "Oggi, no. Forse, domani. Oggi nessun esperimento. Lasciami riposare." E mi sbadiglia in faccia nuvolette di noia. E' un cuore screanzato. Ma in fondo gli perdono tutto. "Ma se non sai perdonare. Se tu lo sapessi fare smetteresti di ripulire sempre lo stesso istante. E ti lasceresti scorrere adosso la pioggia". Non temo la pioggia. Detesto gli ombrelli. Ma nessuno sa quello che succede dopo. Dopo fa immensamente freddo. Un freddo che arriva alle ossa. E tu non puoi nemmeno permetterti di tremare. Trema solo il cuore. Quello è un gran cafone.
E non mi ci ritrovo in questa pelle. Non mi riconosco. E' un vestito sconosciuto e bugiardo. Mi sento sconfinare. Troppo o poco. Mai il giusto. Dove sono? Me la sto scandendo dentro la mia assenza. Questo è lo specchio della menzogna. Ma assolutamente fedele. Come una battona pentita. Come la conversione di un cigno. E le piume mi svolazzano nella mente. Una pioggia di piume. Solleticano il naso e asfissiano. E l'anatroccolo fugge. Nessun lamento. Dove sono? Le conto sul cuscino e ci traccio la via. Andata e ritorno. Con un dito. Come se avessi mani sconosciute. Fingo che siano ali. E i polpastrelli sulla mia bocca. A suggere aria. Ripenso al povero anatroccolo. Voleva cambiare le regole. E ha perso le penne. E saltella lontano. COn una identità obliqua. E mi riscopro anonima. Ignoto l'istante in cui mi staccai da me stessa. E presi a non vivermi. Dove sono? Chi popola la mia mente? E mi osservo lavarmi ogni ricordo. Strofinarmi via il pentimento e il sogno. E lavare il presente come se fosse già futuro. Strizzarlo da ogni sogno. Ed impedire alla pelle di toccarmi l'anima.
Acqua.
Morbida forma del cambiamento.
Senza pretese.
Nessun rimpianto.
Scorre e arriva ovunque.
Ma a me non arriva nulla.
Perchè io non ci sono.
Dove sono?
Mordevi il cuore.
Mentre eri convinto di mordermi la carne.
Mi hai scopato l'anima.
Credo possa bastare.
Dove sono?
Nessuna piuma ad incarmi la via.
Nella prossima vita voglio rinascere sincera.
ome se per un albero potesse essere facile ricrearsi le foglie. Io le ritaglio e le incollo ai miei rami. E poi sono pensieri. E soffiarci dentro e contro non le riempirà di sangue. Attendono la luce. E tremano nel loro divenire pallidi domani. Qualcuno li chiama futuro. Altri addio.
Ogni volta mi ritrovo incastrata nel mio errore fatto di amore.
Anche adesso sta tremando sui polsi.
Mi lascio schizzare la pelle di brividi.
Fino a dimenticare il mio cuore.
"La bella lavanderina che lava i fazzoletti...".
E a volte l'attesa diventava lurido poi.
Basta chiudere gli occhi.
La pretesa macchiava i vetri della mia stanza. Fuori il mare sbranava la sabbia d'inverno e rubava terra agli agricoltori. L'odore del mare era aspro e selvaggio. Sembrava fatto di denti. E di proroghe inutili. E sul vapore della mia finestra scrivevo storie. E le cancellavo.
"Dai un bacio a chi vuoi tu..."
Cancellavo le mie impronte. E mi perdonavo. Di averti perdonato. E i tuoi baci sapevano di tradimento. E li stringevi al mio collo. E ti stringevi a me. Fino a rubarmi l'innocenza in un sorriso. Dimenticavo. Credevo. E questo significava solo che avrei conservato quella sensazione umida e appiccicosa. Donna a metà. Il resto è volato via. Mi piace pensare che sia diventata stella.
Ancora adesso se vedo vetri umidi
mi tremi dentro.
E devo spalancare le finestre.
Forse è da allora che ho imparato a non vergognarmi dell'amore.
Perchè le sento qua nella mia gola. Le parole che ho urlato. La loro ombra mi è rimasta attaccata dentro. Un filo sino al cuore. Ombre e polvere. Ombre di polvere. Tra le mie ciglia. Dove si è perso un sorriso. E un sogno. Tanto tempo fa. E a volte scintilla. Nuotando nelle mie pupille. L'ascensore per il dove. Precipito e mi ritrovo. Così. Negli angoli dimenticati. E trattengo le parole. E le spingo dentro. A urtare con il mio sterno. E a intrecciarsi. Come gramigna. Il tempo mi ha insegnato a trattenere ciò che fa male. E' l'unico modo per rendere utile l'inutile. Vomito nuvole. E pezzi di me. Senza distinzione. Nè ordine. Perchè solo distruggersi aiuta a ricostruirsi. E io sono fuoco. E di fuoco vivo e muio. Amo e odio. E poi di fuoco resisto ed esisto. Anche se è poco. Questa vita che mi soffia dentro ha l'odore dello zolfo. Lo senti nel silenzio. Quando i fiori dormono. E strappo i loro petali. I loro nomi. E le loro tracce.
E' la voce del fuoco che a volte mi parla dentro.
E mi costringe a tacere.
Non volevo nulla.
Non ho chiesto nulla.
Solo la verità.
E il fuoco me la ha data.
Prima di distruggerla.
Non ho equilibrio. Rido. Assolutamente scomposta. Rido ancora. Smorfie di sdegno. Spalanco gli occhietti. Inclino le ciglia per farci rimbalzare una lacrima. Esplode come un fuoco d'artificio. Alla festa del patrono. L'odore dello zucchero filato rovina lo sdegno.
Non ho equilibrio.
Mi fingo seria.
Occhi a gatta e bocca contratta.
Di notte mi manca la luce.
Di giorno mi manca il buio.
Devo assolutamente incastrarmi in un alba e un tramonto.
Sul loro bordo.
Nella tenerezza incerta ed inquieta del confine.
Ma non ci riesco.
Colpa del fuoco.
No.
Non ho equilibrio.
Ma è così bello lasciarsi pettinare dal vento.
Ai margini. Nascoste dietro una tenda. Le mani si intrecciavano. Strofinanandosi l'assenza contro. Fino a non sentirla. A scavarsi d'ardore. Pudico. Le mani si osservavano. E osservavano il mondo. In una rete di sogni. Leggera e morbida. E a dirlo già si fendeva. Si sussurrava d'amore. Nel silenzio si sublimava la sua voglia. Mai vissuto. Fino in fondo. Libere di guardarsi tra le ciglia della notte. Le mani si dormivano addosso. Ed era semplice. Ma bellissimo. Da non volerlo lasciare finire mai
Devo scrivere. E lo faccio. Per dimenticare ed accantonare. Il senso di errore. Di impudicizia. Vorrei violentare il tuo pudore. Scrivere è tuffarsi in un lago di oblio. Dalla realtà. Il tuo silenzio vibra di mille respiri. Vibra di sangue e di passione. Ne mordo un pezzetto. Lo trattengo tra le labbra. Così sei un pò mio. E io tua. Con pezzettini del tuo silenzio tra le labbra. Questo è l'ombra dell'appartanersi. Annegato nei sensi. Perchè se ti penso, dalle labbra mi coli a picco. Dentro. Come un antico galeone. La verità brucia ancora. E continuerà. E' uno spessore di ghiaccio. Incandescente. Nessun palliativo. Solo angoli di desiderio. Puro. E a volte impuro. Mi stai navigando ancora dentro. Sono il tuo mare.
E mi avvolgo nella tua idea. Sei il mio bosco. E ti respiro. E' quello che voglio. Il tuo profumo e il tuo rumore. Vicini. Alle mie spalle. E nelle orecchie. Mi piego nel tuo desiderio. E ti dono il mio desiderarti. Avvolgimi. E legami. Tu puoi. Scorrermi e percorrermi. E rigare di luce il mio buio. Io sono questo. Ombra affamata della luce. E non comprendo il limite. Quando il giorno si fa notte. E il giorno notte. Quale è il confine tra te e il desiderio di te. Perchè nei sogni ci sei. E sei mio. L'unica carne che vorrei essere. E poi riapro gli occhi e sei solo aria. Dolcissima aria. Nella mia mente. La nostra casa. Dove possiamo esserci immensamente dentro. Potessi descrivere quello che provo ora. Un nodo dentro.
Ho smesso di raccogliere i pezzi. Di spezzare foglie. Per lasciare una scia. "Cercami". E' il gioco in cui mi perdo. E ho smesso di ascoltare. Voci come se fossero tulipani cigolanti. Voci di lama. E di aghi. Urla affamate di neve. Ho smesso. Di ricopiare impronte. Di levigarle. Di modellarle. Di dargli la forma del tutto. E del giusto. Il giusto è deforme. E informe. Spinto dai battiti. E spesso si scioglie davanti al fuoco. Ho smesso. Di mozzare pezzi ad albe. Di soffocare i suoi tremiti. Di amputare la rugiada dai fiori. E ricomporre. E conservare. Nella guerra degli spigoli. Dove non c'è sangue. Solo silenzio. E punge. Ho smesso. E forse no. Forse è la verità che mi appartiene. E mi solletica le vene. No. Non sto tremando.
Ma non smetto mai di smettere.
Non sento. Al centro di me un'arpa di carne sta rimestando pensieri e desideri e sogni. Una musica imperfetta. E meravigliosamente scomposta. Mi fa credere di essere vita. E mi spinge i battiti nel cuore.
Imperfetto cuore.

domenica 22 novembre 2009

Rosa è l'involucro di queste ore. Ed il pugno che si schiude. Si sporge una pretesa rosa. Nel buio. E lascia libera una farfalla furiosa. Nella trappola della notte e nelle sue sbarre di aria. Quasi tagliente. E respirarla è respirare il proprio sangue.
Per questo fa paura.
Rosa è la verità.
Nella sua dilaniata innocenza.
Ho appena rubato un improbabile tramonto rosa. Macchiato di incertezza e di dolcezza. Fa male agli occhi. Come le parole che mi lisciano la mente e galleggiano in questa zuppa inconsistente. Rosa è il mio pensiero. E ruvide le spine. E non le evito. Mi aiuta a restare a galla. Il dolore. O forse solo malinconia assorta. E non sentire le mie tempie e il loro battito spingersi fino all'orecchio. E riempirlo.
Se non fosse delirio sarebbe orrore.
O solo eroica distrazione.
Incastrato al mio angolo rosa.
Se chiudo gli occhi un prato immenso mi sorride.
E io li tengo chiusi.
Perchè il prato è la mia pelle.
Ai suoi piedi c'era una distesa. La osservava incerta. Non la stava studiando. Solo beffardamente ignorando. Avrebbe solo voluto capire, senza comprendere, se fosse lo stesso percorso. Non le sarebbe dispiaciuto. Solo voleva sapere.
E sapere di aver saputo.
Senza prevedere.
Solo dare una parvenza.
Affondare nei passi l'assenza.
Sentirne il risucchio e il fendersi dell'acqua.
Ripulire ogni traccia del passaggio.
Fino ad annusare l'odore.
Si sorrise dentro.
E sentii calore.
Come sotto una coperta.
Sulla nuca contro il cuscino.
E tra le labbra contro un muro di respiro.
Abbiamo una luce dentro di noi.
E ci riscalda anche nel gelo.
Ci riempie di piccole fitte di calore.
Piccoli pizzichi di vita.
E le sbattiamo in faccia le palpebre.
Strappiamo le pupille.
E le nascondiamo nel buio.
In fondo la vita è un gioco tra luce e buio.
Ho afferrato un raggio e lo sto intrecciando alle dita.
Non so più spiegare.
Urlo al mondo cose senza senso.
Astratte.
E tengo i dettagli dentro.
Fa male.
Perchè spiegare è donare spigoli.
E' levigare l'identità.
E poi ti punge dentro
vedere i tuoi pezzetti
svolazzare.
Come coriadoli strappati.
Non ci sono colpe. Non ci sono verità. Non ci sono sconfitte. Non ci sono mancanze. Non c'è null'altro che pezzi che si incastrano.
O il tentativo di incastrare pezzi non incastrabili.
E non so se fa più male l'urto.
Lo stridore dell'incastro imperfetto.
O il restare mancante di una parte.
E tremo di lucida incoscienza.
Erano sette le primavere che esplosero nel cielo.
E una pioggia di petali.
Nudi come parole.
Non c'era danza.
Solo pensiero.
E adesso sono scorsi trenta inverni.
Pregni e incostanti.
Non parlo per farmi capire.
Ma per non dire.
Non voglio che gli altri trovino le briciole delle mie mani di pane.
E della mia voglia di abbracci.
Di dolcezza cruda e sincera.
Se potessi parlerei con i fiori.
E' il silenzio il più bel fiore.
Ci sono punti di domanda che si flettono come rami nel vento.
Hanno una immensa fame di aria.
Di aria morbida e sincera.
Come solo l'aria sa essere.
L'aria non mente.
Ho smesso di cercare le risposte negli oocchi degli altri.
E ho aperto i miei.
Ogni comodo segreto è stato avidamente deflorato.
Come se avessi ingoiato pietre.
Amo sentire le pietre.
La loro voce vergine.
Sono vergini con tante anime.
Ma una sola voce.
Amo cercarne le imperfezioni più intense.
Fatte di tempo.
La mia purezza fu un dono non richiesto.
Era nella mente.
La avevo spogliata di ogni difesa.
Sciogliendo ogni nodo.
E lasciandomi annusare i solchi.
Senza timore.
E non mi accorsi del vento che mi accartocciava.
E mi sfogliava senza interesse.
Scorreva nei miei solchi.
E ricominciava.
Rigandomi gli stomi.
Non ci fu urto.
Ma solo i suoi effetti.
Ad occhi chiusi percepisco il mondo.
Ma solo a volte.
E se li apro è perchè ho smesso.
La notte disegna un cielo di stelle.
Un pò è pure mio.
E mi rassicura sapere che c'è.
Anche se non lo vedo.
Io te lo vorrei descrivere il mare. Vorrei metterti le mani dentro la testa e disegnarci il mare. Modellarti con le dita ed il mio respiro l'onda che si stende sulla riva e le dona la sua forza. Quella vera che non ha timore a stemperarsi in fragilità su una tavolozza dal colore indefinito. Come se fosse bacio. E a perdersi nella fine più pura. Quella senza nome. E senza inizio. E rovescia conchiglie fino a farle rotolare e annegare nella sabbia. Come se fosse amore. Vorrei soffiarti dentro la mente l'odore vigoroso del mare. L'ho ascoltato tante volte nelle sere di inverno. E nei mattini d'estate. E gli ho consentito di mescolarmi i pensieri e giocare con il mio petto. E rapirmi frammenti di sogni e di pensieri. E mordermi il cuore. Fiato e mare. E qualche goccia di dolore. Fino ad intrecciarsi al mio respiro. In quei momenti ti senti il possente respiro del mondo dentro. Gravida di vita. E cerchi una stella qualsiasi per annegarti dentro il suo oblio. Tutto l'oblio di cui è capace. Io vorrei descrivertelo. Come se fosse un dono. Ma non so farlo.
Esercizi di morbida follia
E' la stola con cui ricopro la mia nudità.
E non è la mia povertà.
Ma la mia unica ricchezza.
La mia pelle è la casa invisibile della mia anima.
Invisibile come me.
Sono una donna invisibile.
Con il cuore trasparente.
Nessuno lo vedo.
E non ne conosce le righe.
Non lascio traccia.
Ma ne conservo.
Tu non lo sai.
E ora che mi sono spaccata le ali
finalmente sento la terra sotto i piedi.
Le ho squarciate.
Perchè altro non so fare.
Distruggere mi fa pensare che un giorno
diventerò migliore.
Ma forse lo ero già.
E oggi è domani.
E di polvere e residui bellici scrivo pensieri.
Detriti organici della mia guerra fatta di carne.
E vita.
Perchè io ci rimetto pezzi.
Ogni volta.
E questa volta sto provando a trattenerli.
E sentirli miei finchè posso.
Perchè quando non ne riconoscerò l'odore
vorrà dire che sarò diversa.
Scrivo pensieri senza traccia.
Con una eco muta.
Ho un cuore invisibile e affamato.
Tu non lo sai.
E non sa resistere alle parole.
Lo puoi graffiare senza accorgertene.
Le mie dita di carne non riescono ad afferrarlo.
Ed è disperata la loro indegna presa.
Mi ritrovo farfalle furenti tra le mani.
E la mia bocca non sa leccare il suo sangue
immaginario
ed insolente.
Nessun volo.
Nessuna finzione.
Solo occhi smangiati dallo scorrere del giorno.
Con la luce che li percorre al contrario.
Ad inseguire il filo di un discorso.
E le parole mi tornano contro.
Tu non lo sai.
Come sono con gli altri.
Mentre con il fiato ti lascio ricamare il mio collo.
Ti svuoto la verità.
E mi riempio.
E ti lascio battere il cuore contro la mia schiena.
Fino a sentirlo mio.
Come se battesse al posto del mio cuore assente.
Non sai che so strisciare come una gatta affamata.
E contorcermi l'anima come se fosse un mantello.
Non lo sai che con te sono diversa.
Non lo sai.
E non lo devi sapere.
E devi pensarmi peggiore.
E' questo che voglio.

sabato 14 novembre 2009

Strano modo di cumulare la distanza.
Con i numeri.
Raffiche di numeri.
Appesi alle mie labbra.
Mi colano sulle dita.
Mi leccano il mento.
Mi graffiano la schiena.
E riempiono la pancia.
Come un bignè famelico.
Tutto confuso.
E questo rende tutto assolutamente esatto.
Dilatano il tratto che mi separa dalla fine.
Una fine qualsiasi.
Tra me e me.
Io sono la fine e l'inizio di me stessa.
Non è un proclama.
Una semilucida trasposizione.
Spezzare fili.
E non riuscire mai a disfarsene completamente.
Resta il segno.
Il mi minuscolo segmento scolpito sulla carne.
E a volte si spinge più giù.
Fino a farti sentire un canale.
Lanciavo numeri in un burrone.
Affinchè lo colmasse.
Lo soffocasse.
E riaffiorasse il bordo.
E mi aiutasse a perdermi.
Senza nessuna voglia di trovarmi.
Quella me avrebbe dovuto scomparire.
E anche altre.
E li contavo.
E me li ricontavo.
Numeri affamati di altri numeri.
Come una favola antica.
Senza fine.
Ho cosparso di numeri la mia mente.
E sto ancora contando.
Senza sosta.
Quello che temo sono le pause.

venerdì 13 novembre 2009

C'è un cielo avaro di stelle. Come se le avessero raschiate da là. E lasciate cadere alla rinfusa. Fino a capitombolare nella terra.

E ci illuminiamo di riflessi rubati.

E li intrecciamo alle immagini. Come più ci aggrada. E alla pallida parvenza dei sogni. Quasi si abbracciano. E si spingono le unghie nella carne. E riluciamo del fiato nascosto. Trattenuto e sputato. Evirato di rabbia e di orgoglio. E legato in vita. Come il cilicio di mille colpe da scontare. Da farti sollevare le spalle. E fregartene alla grande. E' tutto così irrilevante. La misura del mondo ha mani immense. E ali che devastano. Ansima a volte l'ansia nel mio petto. E mi riempie di crepe. Sembra non contenermi. E filtro e mi filtra. E quello che sono e non sono si mescolano. Fino a lasciarmi esangue. Mi illumino e mi spengo in un pensiero. Fatto di respiro e di muro. E di ellissi e di lana.E fili incastrati nel caos. Di un tutto che è morbido e dolce. Immensamente dolce. Dormo con le mani sotto il cuscino. Perchè nessuno deve toccarle. E' là che si annida il segreto. Il segreto di giorni appena fioriti come ciclamini. Il gelo sta arrivando. Mi immergo nella voglia di cancellare. Di voltare pagina. O forse solo di arrivare in fondo. Alla fine della storia. E cancellare le parole. E impedirgli di dare e trovare un senso. Le dita come avidi falchi hanno raccolto e devasto raccolto e percorso. E mi ritrovo sola. A tremare in questa pelle. E a farmi lisciare brividi dal caso. Il gelo è sempre più vicino. Ti lascio una rosa. O solo un petalo. O solo una spina. Quella che nessuno ha voluto. E un senso lo aveva. E' sul vetro che ho scritto il segreto. Quello con l'odore dell'ardore. E del peccato. Annusato migliaia di volte prima di essere fatto scorrere. E poi l'ho nascosto con il mio fiato. Quello rubato alle stelle. Ma il gelo ha incastrato anche quello in un quadro.

L'incoerenza è una dote che curo con devoto affetto.

In attesa che dia frutti.

C'è una strana luce. Un tramonto che urta dolcemente contro la notte. Le divarica le mani fino a dargli la forma di un abbraccio. Morbido. Spontaneo. E lo riempie di luce. Così immensa da far scomparire ogni limite. E il confine diventa dentro e poi oltre. E ripenso a tutte le volte che ho camminato per il mondo ignorando l'aria. E scansando la luce. E non ho guardato gli occhi di mio nonno. La carezza più dolce del mondo. Fatta di velluto scuro e pane profumato. Plasmata. Scorre come ricordo. E ogni volta diventa purissima nostaglia. E voglia di riavvolgere il tempo. Scorre. E si sedimenta. Nel cassetto del cuore. Dove ripongo le perle e i battiti che ho vissuto. Con la mente e con il cuore. E i pezzi di pelle che ho saputo conservare. Perchè conservare fa diventare per sempre. Non lo sapevi? La mia testa mi ha suggerito questo gioco. Superato l'istante del distacco. I margini della ferita come bordi di un lago che fagocita il tempo. Ho negato sorrisi. E non ho afferrato quelli che il mondo mi sbatteva addosso. Come se la gioia non fosse un diritto. Ho sempre scelto l'amore e sbattuto l'orgoglio al muro. E lui mi ha impresso l'ombra contro. E un pezzo in meno. Ogni volta. L'amore leviga ogni errore. Ne sono convinta e dilata il tempo. Basta che soffi.

Adesso è buio.

L'abbraccio si è dileguato nella notte.

Ma arriverà ancora la luce.

Se potessi strapperei la distanza tra il tempo e quel tempo.

Ma ho imparato che la superficie di un nuovo giorno

è un pianeta nuovo da scoprire.

Non ho più buoni sentimenti. Non li trovo. E non riesco a scuoterli alla finestra. Insieme al nuovo giorno. Come cuscini indolenti e bugiardi. Gonfi di abitudini. E lenzuola consumate dalla notte. Non ho più neve da accarezzare. Dove nascondere le ciglia. E guardare il cuore dal di dentro. Senza sentire dolore. Non ho seta sui gomiti. Per stringere intorno a me un pò di pudore.

E non ho più voglia.

Goccia.

E la voglia di avere voglia è piena di crepe.

E quello che cola è veleno per topi.

Non ho voce per sputare parole.

E sigilli per fermare il sangue.

Goccia.

Un'altra.

La bimba sta raccontando una storia alla femmina. Le fa le carezze e le ricopre il viso di baci. E' sempre lei. La madre di sua madre. E le struscia addosso sorrisi di velluto. La piccola è piena di forza. Come quella di uno stelo nella tempesta. E la femmina si assolge di quelle minuscole carezze di pesca. E ricuce le sue ferite. Vorrebbe donare al sonno la sua coscienza.

Non so quello che non ho.

Ma neppure quello che ho.

Oggi è davvero un giorno fragile.

Non ha forma la mia tristezza. Ha occhi rubati. Labbra corrucciate. E tanti nomi. A volte la chiamo amore. Un nome tremante. Per l'imbarazzo. O per la sua divisa stretta. E la chiamo poi immenso disordine. Ruota i fianchi senza guardarti. Altre piccolo fiore che urla. Dai petali rubati. O solo dimenticati tra qualche foglio. Senza odore. E colore. E' il nome che preferisco. Quasi pizzica il cuore. E' stata dimenticata come un inutile petalo. Strappato da una corolla angosciata ed orgogliosa. Dalla chioma spavalda. Seducente e morbida come una gonna che si avvolge dentro un perdono. E ammicca. Una parola masticata che ne insegue altre. Le imbavaglia. E si staglia tra cielo e terra. Pronunciata per rispetto. Per tremito. O per dovere. Stampigliata nel nulla come un purulento senso di colpa. Come uno sputo in pieno viso. La sagoma di vento e molliche a disegnare il profilo. La sagoma di parole dette e ritirate. Velocemente riavvolte contro il rocchetto della coscienza. Ancora stordite dalla ebrezza della loro forma. Dal profumo che hanno lasciato. E non si chiama scia. Ma rimedio. Ballano come barcarole alla deriva. E danno voce al buio. O rivestono di buio voci di luna. Di tante lune interrotte. E spaccate. Di lune mozzate. E ripiantate in cielo sconosciuti. Non più sinceri. La sincerità è stata avvolta di bisogno.

Ma non sono io.

Il petalo è la voce che mi vive e muore dentro.

E mi rinasce mille e una volta.

Ogni volta come se fosse la prima.

E ogni volta uccido.

Con la disperazione che affonda i denti nella mente.

Come se fosse l'ultima.

E resto carcassa delle mie paure febbricitanti.

Imbottite di gioia.

Pura ma effimera.

...

lunedì 9 novembre 2009

C'è una solitudine quasi fluida. In cui la luce gioca con i colori. Fino a sfaldarli in ombre. E scaglie di idee. E ti fa credere di aver pensato tanto e bene. Mentre sei stata solo a ruotare il capo nell'aria. E a ricamarla. Come se fosse la pagina di un libro mai scritto. Con gli spazi avidi di inchiostro. E di sudore.
E ci scriviamo la vita addosso.
La mia pelle non è più un lenzuolo candido.
E il tempo ci ha striato contro le sue pretese.
La mia è incisa qua.
Sulle mie tempie.
E gioca con il mio battito.
Batte. Non batte. Batte. Batte. Non batte.
Quasi esplode.
Siamo oggetti di carne. In cui è rimasta incastrata una anima. Il contenitore del tempo che ci è dato. E a volte tenta di sfondarlo. Non è desiderio.
E' possibilità.
L'odore della pioggia si insinua nei pensieri e scivola guardingo tra le ciglia.
Ogni volta che chiudi gli occhi.
E ti tuffi indietro.
Quello che voglio è un istante immobile.
In cui lasciarsi infilarzare dalla luce.
E sentire tutto.
E sentire niente.
E poi è lo stesso involucro.
E dentro ci siamo noi.
Sto rimbombando dentro la mia testa. E la mia testa rimbomba dentro questa stanza. O forse altrove. E non ho cose sufficientemente esatte da dire. Potrei recitare numeri.
E sarà il tempo a rendere immobile questo momento.
Immobile e molle.
Vibriamo sospesi nelle risatine e nelle lacrime. Io ci vivo bene dentro la mia astrazione. Imperfetta ed inconcludente. Scorre intorno. Veloce come una matita intorno alle labbra. Ne segue prima il contorno. Lo definisce. E poi le colora. Dilata e colora avidamente. Ma a volte mi assale una voglia acre ed aspra di realtà. Scindo l'indifferenza per le cose in una miriade di utilità represse. Le trovo quasi interessanti. Talvolta importanti. E così immedesimandomi negli oggetti mi ritrovo come cosa vivente. Come cosa piena di sangue.
Dicono che si ami con il cuore.
Ma non è vero.
Si ama con tutto.
Con ogni parte.
E' per quello che il mio cuore precipita a picco nel mio ventre.
E la solitudine diventa solida.
Quasi una lama.
E lentamente fende.
La chiamano attesa.
E mi avvolgo nella tua idea. Sei il mio bosco. E ti respiro. E' quello che voglio. Il tuo profumo e il tuo rumore. Vicini. Alle mie spalle. E nelle orecchie. Mi piego nel tuo desiderio. E ti dono il mio desiderarti. Avvolgimi. E legami. Tu puoi. Scorrermi e percorrermi. E rigare di luce il mio buio. Io sono questo. Ombra affamata della luce. E non comprendo il limite. Quando il giorno si fa notte. E il giorno notte. Quale è il confine tra te e il desiderio di te. Perchè nei sogni ci sei. E sei mio. L'unica carne che vorrei essere. E poi riapro gli occhi e sei solo aria. Dolcissima aria. Nella mia mente. La nostra casa. Dove possiamo esserci immensamente dentro. Potessi descrivere quello che provo ora.
Un nodo dentro.


Devo scrivere. E lo faccio. Per dimenticare ed accantonare. Il senso di errore. Di impudicizia. Vorrei violentare il tuo pudore. Scrivere è tuffarsi in un lago di oblio. Dalla realtà. Il tuo silenzio vibra di mille respiri. Vibra di sangue e di passione. Ne mordo un pezzetto. Lo trattengo tra le labbra. Così sei un pò mio. E io tua. Con pezzettini del tuo silenzio tra le labbra. Questo è l'ombra dell'appartanersi. Annegato nei sensi. Perchè se ti penso, dalle labbra mi coli a picco. Dentro. Come un antico galeone. La verità brucia ancora. E continuerà. E' uno spessore di ghiaccio. Incandescente. Nessun palliativo. Solo angoli di desiderio. Puro. E a volte impuro. Mi stai navigando ancora dentro. Sono il tuo mare.
Sembrava ieri ma era domani.
Tu dove eri?
Mi dormi sopra e non mi ascolti.
Dove si è perso il senso e la misura tra me e te?
Ti sussurro il mio bisogno ogni e ogni notte.
Lo soffio tra i tuoi occhi chiusi.
E le mie mani affondano nel tuo sonno.
Senza coraggio.
E forse senza viltà.
Ai margini. Nascoste dietro una tenda. Le mani si intrecciavano. Come spighe nel vento disperato. Strofinanandosi l'assenza contro. Fino a non sentirla. Sentivano solo la dimensione di mano. E le dita che si aprivano come fiori al mattino. Coppe di rugiada. A scavarsi d'ardore. Pudico. Le mani si osservavano. E osservavano il mondo. Sfiorandolo. In una rete di sogni. Leggera e morbida. E a dirlo già si fendeva. La trama cedeva al peso degli sguardi. Si sussurrava d'amore. Nel silenzio si sublimava la sua voglia. Mai vissuto. Fino in fondo. Libere di guardarsi tra le ciglia della notte. Le mani si dormivano addosso. Ed era semplice. Ma bellissimo. Da non volerlo lasciare finire mai.
Ho scavato in una terra dimenticata. E vi ho ritrovato pezzi del mio pudore perduto. Sminuzzato. Conservo pezzi di me. Per impedirmi di tornare a essere meno che quella. Un giro inutile. E si proclama l'ultimo. Mentre l'incanto e la meravigliosa stanno scorrendo altrove. E respirano forte. Da sembrare urla.
Destrutturata.
La testa fra le mani.
Una luna sporca.
Le tappo la bocca e poi la guardo.
Ha chiuso gli occhi.
E rotolano come due perle.
Destrutturata.
I pezzi alla rinfusa.
E i piedi nell'erba.
Gelida.
E gelidi affondano passi.
Taglia.
Che giorno è?
Avvolgo pensieri su pensieri.
Scalzi ma veloci.
La scia è di ghiaccio.
E di ghiaccio le ali di farfalle stanche.
E strati di coscienza indifferente.
Da nuotarci dentro.
Fino ad annegarci.

Ad un tratto il mare si era spento.
Non lo sapevo.
Cercavo le sue onde.
Per infilarci conchiglie pregne.
Le ha calpestate.
Non pulsa l'ira.
E io nemmeno.
Ho compreso.
Compreso fino a non capirci più nulla.
Ho solo voglia di dare calci al vento.
Dopo avergli raccontato.
Cristalli frantumati stanno tentando di luccicare.
E io racconto.
Ma gli hanno rubato la luce.
E lo imploro di ascoltarmi.
Ma lui è muto.
E ascoltare è inutile.
Se non fosse notte li scambierei per occhi.
Ma notte non è
e mi faccio cieca.
Basta una benda.
E qualche goccia di coraggio.
Ripulisco i bordi. Le sbavature degli sforzi. Guizzi di muscoli che si credono gesta. E al loro interno i lacci della identità. La mente che si contorce nel cuore. Come onde invisibili. Il cuore che pizzica la carne. La carne che si sporge nella mente. E la fa sussultare con i suoi tuffi. Tutto che si proclama tutto. E reclama la sua razione. Non riavvolgo. Ed isolo. Insofferenza cruda. Dopo strati e strati di sensibilità accumulata e stropicciata. Aghi su un prato senza semi. Su cui hanno ballato formiche solerti e silenziose. Ho steso il velo della insofferenza. Una indifferenza rossa e densa. Porta ad accovacciarsi a caccia di calore vero. Dall'odore buono. E a farsi ventre di una madre bimba. Nella chiocciola di una lumaca. Spogliarsi della insana bontà. E dello scarso coraggio. Amarsi è scegliere di non amare. E separera il frutto dalla buccia. Sigillare le vene. Cucirsi le parole al petto. Come ciondoli. Le cose possono dirsi in tanti modi. Uno solo è quello giusto. Quello che centra le parole come al tirassegno. E monetina dopo monetina ti ritrovi più povero ma più forte. Quelle parole che quasi mai gli altri riescono a mirare. E senti di non averne avute mai o mai abbastanza. Osservi le cose e ti stupisci perchè non ti toccano. Non arrivano alla tua carne.
Annusi l'aria.
E sai che sta per piovere.
Ma continui a camminare.
Perchè ne hai voglia.
La pioggia non può che farti bene.
In fondo piove da millenni.
E ha già bagnato vite e vite prima.
Crediamo di provare i sentimenti più puri ed intensi del mondo.
Solo perchè il nostro mondo siamo noi.
Se solo riuscissimo a prestarci i mondi.
O forse solo gli occhi.

giovedì 5 novembre 2009

Come se per un albero potesse essere facile ricrearsi le foglie. Io le ritaglio e le incollo ai miei rami. E poi sono pensieri. E soffiarci dentro e contro non le riempirà di sangue. Attendono la luce. E tremano nel loro divenire pallidi domani. Qualcuno li chiama futuro. Altri addio.
Ogni volta mi ritrovo incastrata nel mio errore fatto di amore.
Anche adesso sta tremando sui polsi.
Mi lascio schizzare la pelle di brividi.
Fino a dimenticare il mio cuore.
"La bella lavanderina che lava i fazzoletti...".
E a volte l'attesa diventava lurido poi.
Basta chiudere gli occhi.
La pretesa macchiava i vetri della mia stanza. Fuori il mare sbranava la sabbia d'inverno e rubava terra agli agricoltori. L'odore del mare era aspro e selvaggio. Sembrava fatto di denti. E di proroghe inutili. E sul vapore della mia finestra scrivevo storie. E le cancellavo.
"Dai un bacio a chi vuoi tu..."
Cancellavo le mie impronte. E mi perdonavo. Di averti perdonato. E i tuoi baci sapevano di tradimento. E li stringevi al mio collo. E ti stringevi a me. Fino a rubarmi l'innocenza in un sorriso. Dimenticavo. Credevo. E questo significava solo che avrei conservato quella sensazione umida e appiccicosa. Donna a metà. Il resto è volato via. Mi piace pensare che sia diventata stella.
Ancora adesso se vedo vetri umidi
mi tremi dentro.
E devo spalancare le finestre.
Forse è da allora che ho imparato a non vergognarmi dell'amore.
Come biglie sul pavimento. Hanno assediato la polvere. Una pioggia di luce. Ho sdraiato il fuoco per terra. E l'ho osservato bruciarmi. E fare cenere delle mie parole. In alcune c'era sangue. E' rimasto polline e poi cera. Non ho saputo inciderci nulla.
Io lo ricordo come attendevo le parole.
Il fiato si incastrava nel respiro e nell'istante.
In quello prima.
E in quello dopo sentivo caldo il cuore.
Una carezza liquida.
Fino alle viscere.
Qualcuno lo chiama delirio.
E si schiudeva in sorriso.
Fatto di porpora e giacinti.
Parole e luci.
Ami di dolcezza.
Strappavano il velo della realtà.
La realtà è la pelle del mondo.
Ho smesso di giocare a palla con il cuore.
L'ho lanciato lontano.
E dentro mi batte la sua eco.
Lurida e prepotente.
Ma fa tanta compagnia.
Ho cercato nei tuoi occhi il Dio che è in te.
Tremava.
Imperfetto e fragile.
Con i contorni leggeri.
Con un mantello di aghi di pino.
E lacrime croccanti come il pane.
Ho vagato nei tuoi occhi.
Devota come una ancella.
Vedevo senza guardare.
E mi lasciavo scivolare dentro i tuoi battiti.
Perchè dentro di te io cercavo me.
Adesso mi lascio accarezzare dalla gioia. Quasi mi fa paura. Goccia dopo goccia. Amare richiede impegno. Non è abitudine. Bisogna rieducarsi alla gioia. Piccoli sorsi. Poco per volta. Tenerla addosso anche quando graffia come una gatta cieca. E respirarla come in un barattolo. Senza una forma.
E mentre ti parlavo mi sembrava di sfilarti la maglietta.
E che tu sfilassi la mia.
E che sopra di noi di fosse solo il cielo.
Nudi di fronte al cielo.
Ad annusare nuvole.
Con una fame immensa dentro.
Dentro di te non ho trovato me.
Io sono qua.
E sono mia.

martedì 3 novembre 2009

Perchè le sento qua nella mia gola. Le parole che ho urlato. La loro ombra mi è rimasta attaccata dentro. Un filo sino al cuore. Ombre e polvere. Ombre di polvere. Tra le mie ciglia. Dove si è perso un sorriso. E un sogno. Tanto tempo fa. E a volte scintilla. Nuotando nelle mie pupille. L'ascensore per il dove. Precipito e mi ritrovo. Così. Negli angoli dimenticati. E trattengo le parole. E le spingo dentro. A urtare con il mio sterno. E a intrecciarsi. Come gramigna. Il tempo mi ha insegnato a trattenere ciò che fa male. E' l'unico modo per rendere utile l'inutile. Vomito nuvole. E pezzi di me. Senza distinzione. Nè ordine. Perchè solo distruggersi aiuta a ricostruirsi. E io sono fuoco. E di fuoco vivo e muio. Amo e odio. E poi di fuoco resisto ed esisto. Anche se è poco. Questa vita che mi soffia dentro ha l'odore dello zolfo. Lo senti nel silenzio. Quando i fiori dormono. E strappo i loro petali. I loro nomi. E le loro tracce.
E' la voce del fuoco che a volte mi parla dentro.
E mi costringe a tacere.
Non volevo nulla.
Non ho chiesto nulla.
Solo la verità.
E il fuoco me la ha data.
Prima di distruggerla.
Non ho equilibrio. Rido. Assolutamente scomposta. Rido ancora. Smorfie di sdegno. Spalanco gli occhietti. Inclino le ciglia per farci rimbalzare una lacrima. Esplode come un fuoco d'artificio. Alla festa del patrono. L'odore dello zucchero filato rovina lo sdegno.
Non ho equilibrio.
Mi fingo seria.
Occhi a gatta e bocca contratta.
Di notte mi manca la luce.
Di giorno mi manca il buio.
Devo assolutamente incastrarmi in un alba e un tramonto.
Sul loro bordo.
Nella tenerezza incerta ed inquieta del confine.
Ma non ci riesco.
Colpa del fuoco.
No.
Non ho equilibrio.
Ma è così bello lasciarsi pettinare dal vento.

lunedì 2 novembre 2009

Scompongo questa solitudine non apparente. Sei sul mio collo. E prima nella mente. Scivoli ovunque. Le tue anche avvolte da me. E' la mia carne che ti abbraccia. Fino a farti precipitare dentro di me. Sorrido ad un mondo composto e lontano. Mentre non chiedo e nel mio respiro pulsa l'assenza. E l'indifferenza. Sole, le mie vene continuano a premere una vita strana. Ma assolutamente mia. Affondo le mie dita tra aria e pane. E nel suo odore caldo e forte nella notte mi addormento. Come se fosse incanto. E' l'incanto di una realtà nella quale oscillo. Per poi strappare istanti al mio mondo assurdo. Ma l'assurdità ha l'odore delle rose. E la loro voce. Sarebbe peccato se non fosse giusto. E sul mio collo non ci sei più. Solo il tuo disappunto caldo e silenzioso. Quasi inesistente. Come la follia che nascondo. E mi freme nella pancia. Ti amo come la terra ama la pioggia. E sento, nella mente, le tue dita sporche di fango porsarsi sui miei fianchi. E rendermi segretamente e candidamente femmina. L'odore della terra mi avvolge i seni. Supplici fiori contro un cielo sconosciuto. Ti amo come il cielo ama la luna e se la cosparge sulla sua pelle silenziosa. Anche se nessuno lo sa.
E la mia solitudine sempre più latente gocciola di futuro lontano.
Di attesa impiccata.
Come ogni notte impiccata dall'alba in divenire.
Non riesco a spiegarlo.
Tutto questo.
Come sempre.

sabato 31 ottobre 2009

Niente si interrompe. Tutto si intreccia. Ha ali voraci. Strappano cielo. E tutto diviene ancora. E altro.
Come se il grande tronco fosse là ad attenderci.
Per abbracciarci le mani.
Come edera selvaggia ed incolta.
E ricoprirci le dita di baci e dubbi.
Non era conferma. Me lo sono chiesto. Era la culla per le mie mani affamate. E i loro morsi di paura. Graffiavano contro muri di aria. E passione sotterranea. Adesso rapiscono istanti. E li seminano agli angoli della bocca. Seguendo il contorno delle mie labbra tremule.
Come sorpresa. E come desiderio. E desiderio della sorpresa. E sorpresa del desiderio. Dimenticato come una promessa. Nel sangue. Fino in fondo. Essere peggiori serve per essere migliori.
L'indecenza di un fiore che si schiude.
Timoroso della luce.
E il desiderio folle del tuo odore.
Nella mente.
Mille volte disegnato e cancellato.
E altre volte si chiuderà ancora.
Quel fiore.
E ogni volta sarà quella giusta.
Per riaprirsi.
Poi.
Nel posto riservatoci dal tempo.
Siamo collane di respiri.
In sequela.
Questo è il primo.
Ascoltalo fino in fondo.
Tra gli spazi bianchi nascondo i miei mille dubbi. Dopo averli rigirati tra le dita immobili. E silenti. In ascolto. L'attesa della pioggia. All'improvviso mi hai scavato dentro un pensiero a forma di indecente desiderio. E il bianco ha slinguato ogni tremito. Era tra i denti che ho fermato le parole. Prima che divenissero peccato e poi perdono. E incastrata dentro ho pulsato nella voglia che non finisse mai. Adesso è bianco il senso di immenso. L'infinito vuoto della bellezza. Il sorriso della possibilità di riempire ogni meandro di futuro e possibilità. E dargli forme. Senza paure. Plasmarle sulle tue labbre per comprenderne il signficato.
Ti penso e ti penso di stelle.
Fino a non poterne più.
E a sentirti terra possente e profumata.
Bagnata da un pioggia segreta nella notte.
L'orgasmo del mondo.
Il segreto più bello.
E sconcio.
Puro come il peccato sincero.
Se ti mentissi ora sarebbe per amore.
....
Strana come la neve d'estate. Incanta come le magie. E come tenera follia appartiene alla mente e non al corpo. Zucchero che non placa. Quasi disseta la mia voglia di dolcezza. Molliche da una tasca sconosciuta. Dove ripongo il mio cuore. E lo ribalto. E mi brucia fino in gola. Questa dolcezza. La voglia delle braccia di una mamma. Dove nessuno può giudicarti. La coperta della serenità più aspra. Prostro i miei occhi davanti ad ore e a solitudine. La luna la sminuzza. In riflessi. Dal palmo in poi. Grondano le mie mani. E sui miei fianchi spalmano il nodo del passato.
C'era la notte e io con lei.
Vorrei spiegare quello che si prova.
Ci ho provato tante volte.
A rivestirmi di coraggio.
In un barattolo fatto di notte.
A scrutarmi il cuore.
Il tuo grido scrive una storia di fiato.
Soffiato contro il vetro freddo.
Non si può capire.
E se lo spiegano gli altri si spaventano.
Una storia silenziosa.
Come le lacrime che non puoi permetterti.
Fiumi guardinghi impregnati di rimmel.
Dagli occhi al mento.
I tuoi occhi scrutano tra la mia carne. E si chiudono davanti al peccato. Serri le palpebre. Mentre io vorrei spalancarli e condurli dentro di me. Affinchè tutto veda tutto. Vorrei infilarmi i tuoi occhi nel cuore. E farti vedere che a volte posso essere diversa. E il mio tormento ha un odore di mughetti e di stelle. Si è diluito con il cielo.
Anche se macchia i passi verso la luce.
E la rifugge.
Ho dei sorrisi conservati e dimenticati.
E uno è per te.
Solo per te.
Quella di me osserva.Nel mio segreto. C'è un albero. E le sue fronde. Per lei non è un segreto ma è pelle. E poi cuore. E brivido. Le labbra cercano la corteccia. Fino a taglliarsi. E sussurrano del segreto. Diventerà linfa. E il sangue sul tronco attesterà che lei c'era. C'era nella solitudine del vento. Quella che sembra un abbraccio. Ma lei oscilla. Quella di me. Ha un pezzo in meno. E un pò si accarezza il cuore e un pò lo pizzica. E la spezzetta. Adesso non sa più quanto ne rimanga. Quella di me. Che annusa l'indecennza e riempie l'aria di fantasie. Polvere dell'anima. E poi ce ne sono altre. Altre di me. Sconosciute e sincere. Quasi violente. Hanno voglia di osservare ma guardano poco.
Spesso le mie dita ti cercano.
E se mi perdo nei petali di un fiore e ne contemplo la bellezza. La trattengo dentro. E spero che tu stia bene. E che possa sentire la semplicità e bellezza di quel fiore.

mercoledì 28 ottobre 2009

Distante. E osservo il mondo. E la distanza incalza il respiro. E il respiro segna la distanza. E precede il pensiero. osservo e percorro. Con gli occhi chiusi. Lo guardo dentro di me. E gli dò la mia forma. E' per questo che sprofondo in sogni e deliri. E tormento il mio cuore. Per dargli la forma giusta.

Ho perso tutto.

Anche il mio respiro.

E lo ricostruisco.

Questa volta non per tenerlo stretto.

Ma per lasciarlo volare il più lontano possibile.

E forse per possederlo realmente.

Ostento sempre una forza che non ho.

E una fragilità che ne è lo specchietto.

E le tante me che mi percuotono si ribaltano le une sulle altre.

Distante.

Ho smesso di osservare il mondo.

E ho iniziato a toccarlo.

Ero incompleta.

Mi mancava questo pezzo di dolore.

E quando lo avrò tenuto dentro senza dimenarmi sino a farlo arrivare ovunque,

avrò vinto senza aver combattuto.

E il mio respiro sarà tornato al posto giusto.

Nel sole.

lunedì 26 ottobre 2009

Ho rubato una stella. Sono una ladra di stelle. I fiori del cielo. L’ho nascosta e tenuta tra le mani. Fino a sentirne dolore e percepire tutta la sua forza. La sua forza pulsante ed invasiva di piccola stella. L’ho nascosta sotto al cuscino. Perché il cielo non se ne avesse a male. A volte sa essere geloso e furioso. Nessuno doveva stanarla dalla tana della mia anima. E l’ho infilata nel cuore. Fino a sentirla battere al suo posto. Un amplesso di luce. Il cielo mi ha sorriso. E ho compreso. Gli ho guardato gli occhi. Fino a non poterne più. Fino a sentirli dilatare dentro di me. E poi gli ho reso il suo fiore di cielo. Sdradicandolo. Una e più volte. Da dentro di me.
Affinché il nuovo giorno lo potesse ritrovare intatto.
Al suo posto.
E la stella potesse portare un pezzo di cielo.
A te.
Un pezzetto di cielo solo per te.
Senza più nuvole.
Chi non arriva alla nostra pelle è destinato a scorrerci nel sangue.
E a perdersi dentro di noi.
Forse un giorno ci ritroveremo.
Auguri.
A modo mio.
Cancellare. Voltarsi. Raccogliere. Cancellare. Accarezzare. Spegnere. Cancellare. Baciare. Irritarsi. Cancellare. Devestare. Chiedere scusa. Cancellare. Dolore. Cancellare. Spugna. Treccia. Cancellare. Telefono. Lampeggia. Cancellare. Io. Nessuno. Cancellare. Fine. Cancellare. Menzogna. Incontro. Cancellare. Gelosia. Cancellare. Amicizia. Cancellare. Fiducia. Dolore. Dolore. Cancellare.
Cancellare e cancellarsi.
Una aspirazione al bianco.
Nel tunnel della purezza rinnegata.
Quella che strappa il sangue direttamente al cuore.
Fino a farlo diventare violaceo.
Ali di farfalle dimenticate.
A rovistare polline immaginario.
Cancellare.
E non è dimenticare.
Solo strappare e sminuzzare.
Emozioni.
Renderle polvere e cipria.
Erba.
E senso della terra.
Diamo il potere agli istanti.
E sono già scorsi.
Non hanno potere.
Sono gigantografie delle ombre che scorrono dentro.
Destinate a sbriciolarsi al primo sole.
Basterebbe guardare in faccia il mondo.
E smetterlo di inseguirlo.
Tanto gira lo stesso.
E' quello che ci consente di creare spazio.
Nel gioco perfido della comprensione degli altri.
Perdiamo pezzi di noi.
E ne troviamo altri.
Inaspettati.
Amebe di periferie.
Spiaccichiamo l'anima contro il vetro. Per vedere e lasciar vedere cosa ci sia dentro. Le sue rughe. I suoi nei. Le sue pieghe. E le sue piaghe. E chiamiamo questo esame con un nome banale. Comprensione. Glielo urliamo nelle orecchie. Mentre è solo egoismo. E pretesa purolenta. La pretesa della comprensione impicca ogni condivisione.
Chi ha voglia di capire. Lo fa a occhi chiusi. Rubandoti il respiro nel modo più dolce. E respirandoti dentro. Senza chiedere nè rispondere. Perchè ha scelto il silenzio. Quello vero perchè è sincero.
Non ho più voglia di spiegare.
Vorrei solo essere conservata come una foglia.
Tra le pagine di un libro.
In attesa di essere letto.
E forse mischiarmi alle sue parole.
La voce della pioggia. Si insinua nei buchi scavati dalla malinconia. Quando l'anima assedia la carne. Fino alla resa più vigliacca. Gorgoglia nella pancia. E sbatte le vene. Le intreccia per scriverci una parola. Sei in una goccia. E in mille. E non è attesa. Ma voglia che finisca. Desiderio che tutto lavi tutto. Quasi a strappare la corda al cielo. E far scendere un velo asciutto. Una gonna immensa che tutto copra e restituisca al mondo. Lucido e asciutto. La voce della pioggia mastica fango e te lo spinge sotto pelle. E abbracci mille e una volta. Goccia per goccia. Tutto quello che trovi. Ti sembra di non farti toccare. E di asciugarti l'anima. Prima dell'innondazione.
Se chiudo gli occhi sento il suo odore sconosciuto e lontano.
Come se quella voce lo avesse sparso sul mio petto.
Quasi un assedio del cuore.
Del pezzetto che resta asciutto.
E non è terra.
E' cielo.
La voce della pioggia riempie di voce le cose.
Anche quelle dimenticate.
Basta riaprire gli occhi.
E buttare l'ombrello.
Mi sono svegliata nel bel mezzo di una primavera indesiderata. Timidi virgulti persi nella danza di un sole sfacciato e bugiardo. Mente per sicumera. Mente tra i raggi che gli fanno il solletico. Mente e mi scioglie l'inverno che ho tra le ossa. E io scorro dentro. E sorrido fuori. Sembrerebbe il pianto del risveglio. Di un sonno interrotto. Cantavo sempre la ninna nanna alla bimba che mi dormiva dentro. Ma lei mi spalancava gli occhi sul cuore e mi ricordava che voleva fiabe. E mi mordeva l'anima. Lentamente. Io mi spingevo con la mia voce a farle le carezze. E a slentare i fili di una solitudine incipiente. Annunciata. A farsi capanna sotto il caschetto biondo. Tra le ciglia inaspettatamente nere. Ibrida. Come la diversità che le ha rivestito il cuore. Strato per strato. Ibrida come l'assenza di coraggio di ammetterla. Galleggiava nella notte e si scopriva. Per osservare il freddo. Anche quando lasciò scivolare il piede sotto la sedia. Per contemplare il dolore. E segnarselo sulla carne. Era una sfida. Era una seduzione quasi ipnotica.
La voglia di dimostrare che le regole non servono.
E non aveva paura.
Neanche di una severità tutta annunciata.
E' questa l'unica regola.
Nel momento della separazione ci ritroviamo in ogni pezzo.
Anche quello dimenticato.
E che non ha mai smesso di parlarci.
E' che ascoltarla richiede tanta luce.
E io sono nella mia tana.
A immaginarla.
Cammino sul filo. E scivolo nell'ovvio. Come se fosse aria. La carezza che ignoriamo. E a volte disprezziamo. Affondo le mie dita nel nulla. E lo cospargo di profumo. Così illudendomi di averlo sedotto. E' là che affondo i miei occhi disperati. Fino a sentirli galleggiare. E impossessarsi e impossessarmi. Oscillo e sorrido. Un filo che avvolgo e riavvolgo. Un filo cosparso di aria. E di respiri ignari e silenziosi. Io lo osservo e lo rivesto di paura. E poi lo spoglio. Nulla è più nuda della paura. E lo soffoco con la forza del tentativo. Ho smesso di cercarmi il cuore. E' perso in un groviglio. Tessuto nel tentativo del tentativo di trovare un punto. Una parola che abbia la voce giusta. E che sappia esprimere tutto il suo senso. E lo lasci con timida incoscienza scivolare e rimbalzare sui petali di un fiore mai raccolto. Come un segreto o una bugia. Tremo. E poi raccolgo . Un fiore. Credo che ogni petalo ci possa rendere migliore. Come se fosse cibo e la cura dell’anima. Mentre forse una cura non c'era. E non c'è. A volte sembra che la mente umana non riesca. E mi dilato nel tentativo di conservare intatto un ricordo, nell’integrità del suo contenuto originale e del suo palpito. Oggi non mi riesce proprio. Mi basta immaginare un domani a forma di fiore. Senza strapparlo. No. Oggi non lo strapperò il mio fiore. Non ho più paura. Ma a volte mento.
E mi lascio scorrere come acqua disperata. E dimentico. E mi spreco. Distruggo la forma delle mie domande. Come ombre nella luce. I miei fianchi segnano l'aria. La invadono e disegnano cerchi di sangue e desiderio. Dondola il bicchiere tra la mia mano e le mie calze. Ricamano i dubbi. E la tela è il mio delirio. Morbido e liscio. Pare seta ammiccante. Da affondarci la mente. Pura la mia malinconia. Ha l'odore dell'erba bagnata. Gocciola e si illumina. Sotto la luna. E si innella in fili di solitudine. Composta e asciutta. Asciugata da un tempo che pare non scorrere. E che adesso è sulla mia pelle.
Ho fame di rugiada.
Disegna sulle mie braccia le catene.
Fino a confondersi con le mie vene.
Una foglia.
Ricomprende e stritola la mia incertezza.
E non posso che mordere la mia gabbia verde.
Per assaporarne la pena.
E dimenticare il tormento.
E' nei miei occhi che avresti stanato la mia vera voce.
La casa della mia anima.
Il suo involucro.
Guardami.
Sto urlando.
Ma tu non puoi sentirmi.
E il vento ha rovistato tra le parole. Prima di strapparle. Per farne collane. Le ha accartocciate. E divorate. Foglie di un autunno feroce. Nel vortice della incomprensione. Come ali di farfalle immaginarie. Graffiavano il cielo di mille colori. Sconosciuti e sinceri. Sibili di ignoto. Dal fascino magnetico. Quasi crudele. Nella rete del bisogno. Annuso ancora le loro sfumature.
Raggi di una bicicletta da rottamare. Correvo a perdifianto lungo il margine. Ignara della linea di mezzeria. Contemplavo il canale. Cadere sarebbe stato più divertente che continuare a correre. E sentirsi le zanzare sul collo. A leccarmi il sangue. Il premio in palio era me stessa. E a quei tempi sentivo di possedermi. Fino allo sfinimento. L'erba mi tagliava le caviglie. E mi percepivo donna. Sarebbe durato ancora poco.
Segreti di cielo e di terra. Pulsano e spargono e cospargono dell'odore della notte e della memoria. Ci sono urti che ti spingono oltre te stessa.
A volte le chiamiamo scelte.
Altre, voglie disperate.
Fino all'ultimo respiro.
Come se fossero un dono.
Mai scartato.
E non comprendi.
E pensi che togliendoti la pelle troverai la risposta.
E senza una logica continui a cercarti.
A comporti e scomporti.
A tagliarti.
E medicarti.
A mendicare.
Come un libro di cui hai perso pagine.
E ti ritrovi con le righe perplesse.
E la risposta è nelle tue mani.
Nel percorso silenzioso che disegnano.
Andata e ritorno dal cuore.
E dita come radici.
A nascondere una promessa.
"Per sempre" ha l'odore della malinconia.
Basta spalancare la finestra.
Senza avere paura che possa entrare tutto l'inverno possibile.
Quel gelo che non può distruggere.
Solo immobilizzare.
E vestire tutto di attesa.
Oggi mi aspetto al varco.
E sono già in ritardo.

mercoledì 14 ottobre 2009


Riaffiora la nuvola e si stempera in polvere di fuoco. In frange e fremiti. E le respiri. Solo quelle. E il resto si blocca. Lo sfondo è l'assoluto nulla e la voglia di lasciare un segno. Stemperato in inutilità. Il sangue infetto di un fiume ignoto che ti ha contaminata. E' un serpente di delirio. Inutile come una corda senza nodo. Penso ad un canto muto. E alla bellezza che lascia scivolare dentro. Fino ad urtarti contro le pupille. Per bucare uno spazio sull'esterno. Siamo il guscio del nostro canto muto. Siamo campane dai rintocchi implosi. E per quello a volte tremiamo. E i brividi ci adornano la pelle.
Fino all'anima.
Un viaggio senza ritorno.
Rossa è la nuvola.

.....
Sassolino su sassolino. Una pila che non arriverà mai al cielo. Senza saperlo. Una pila mozzata. Si piega in tentativi. Ondeggia e ruba morbida precarietà all'aria. Una carezza leggera. Oscilla e si cosparge di percezioni. Poi dimenticate. Nell'urto del cuore duro da sassolino. Nel rimbalzare e leccarsi le schegge. Nel raccoglierle e lanciarle in aria. E nel segno dolce e silente della sua traccia. Orma. Viviseziono passi. Strani di tracce. Per non dargli direzione. Parole e sassi. Segni. Colano a picco. Immersi dentro paludi sghignazzanti. A caccia di baci. Tra i fili di erba. Contro la luce. Nel profondo. Nella coperta della coscienza. Rimbombano le parole. E i sassi vibrano. Come se volessero oltrepassare la pelle.
Basterebbe solo assecondare il corso.
E ritrovarsi tra le mani.
Incastrati alle dita.
Dove ci siamo dimenticati.
Oltre le vene.
Annodati.
Pezzi smussati di domani.
Dell'ignoto che rimbalza negli occhi.
A caccia di rifugio.
E chiudo gli occhi.
Per consentirgli di arrivare lontano.
E raggiungere l'ombra che dentro di me
schizza come un
mare gonfio di onde.
Ho un nuovo nome.
E mordo pomodori.
Come se fossero cuori.
E io il loro sangue.
Ho smesso di comprendere il passato.
E succhio la buccia per annusare la polpa.
Forse questo dà un senso.
Se un senso c'è.
E' domani.
.....

Sassolino su sassolino. Una pila che non arriverà mai al cielo. Ondeggia e ruba morbida precarietà all'aria. Oscillando e cospargendosi di percezioni. Poi dimenticate. Nell'urto del suo cuore duro di sassolino. E nel segno dolce e silente della sua traccia. Orma. Viviseziono passi. Per non dargli direzione. Parole e sassi. A picco. Immersi dentro paludi sghignazzanti. A caccia di baci. Tra i fili di erba. Contro la luce. Nel profondo. Nella coperta della coscienza. volte rimbombano le parole. E i sassi vibrano. Come se volessero oltrepassare la pelle.
Basterebbe solo assecondare il corso.
E ritrovarsi tra le mani.
Oltre le vene.
Pezzi smussati di domani.
Dell'ignoto che rimbalza negli occhi.
A caccia di rifugio.
E chiudo gli occhi.
Per consentirgli di arrivare lontano.
E raggiungere l'ombra che dentro di me schizza come un
mare gonfio di onde.
Ho un nuovo nome.
E mordo pomodori.
Come se fossero cuori.
E io il loro sangue.
Ho smesso di comprendere il passato.
E succhio la buccia per annusare la polpa.
E' domani.

....

Vivo di stasi e stati. E scosse. La luce mi ha puntato un raggio sul mento. Appena sotto il labbro inferiore. Sulla piccola piega che lo tormenta. Fino al petto. E al cuore. Per sondare. Un faro stanco. E cercare l'errore. Nel filtro della coscienza. E le sue maglie bisunte. Le ginocchia hanno facillato. I tacchi hanno segnato una linea netta. Un piede davanti all'altro. Sembrava sicumera. Era speranza. Nella musica morbida come una torta alla panna. E i gomiti si sono spinti verso il passato. A graffiarlo. E ad allontanarlo. Lasciando solo che le mani riuscissero a rubare qualche scorcio. E in angoli mi adagio per respirare. In una pentola cucino la pozione magica. E spingo le terga contro muri di veline e polvere. E cipria. Ci immergo il collo contro. Perchè oggi è domani. Quello che attendevo. E ho paura a dargli un nome. E a spiegare la strada per raggiungermi. Oggi è un domani con una lama che fende il tempo e lo cadenza come un metronomo. E mi segna la sagoma. Lama contro carne. Pelle contro battiti. Fino a riempirmi di brividi e di domande. Le risposte sono nella tasca del tempo.Insieme a due stelle rubate al cielo. Adesso è cieco. Erano i suoi occhi.
.....
Spengo il mio io. Lo sbriciolo. Ha tentacoli di pane. E lo accarezzo per rassicuralrlo. E per dominarlo. Poi lo pianto in un prato. E sulle sue labbra sussurro baci. Maldestra ed affamata li striscio sul suo cuore. Tondo e piroettante. Sembra non fermarsi mai. Ribalta la sua paura. E si rigira. E di quella resta un'ombra che secerne eco. Forse ha una voce. Come se fosse un seme. Destinato a sciorinare la sua chioma selavggia di albero timido sotto terra. E a intrecciare all'aria le sue radici invisibili. Quasi infide. Culla di sensazioni e di occasioni. Capovolta la mia mente. Si crede gamba. Rotea la caviglia che poi è mia e solo mia. E accavalla i pensieri. Dentro il fumo di una sigaretta. Quella sbagliata. E i miei occhi riflettono la terra che giace. Dentro me. Nel centro. Al centro. Zolle di terre innaffiate da nuvole dispettose. Ma preziosissime ladre di cielo. Inaspettate e discrete. Ho conservato solo una lacrima. Una sola. Come una gemma. Le altre le ho donate al poi. Per tempestarlo. E la custodisco come se fosse un frammento di stella frantumata. La reliquia di un miracolo mai consumato. Mentre è solo un furto di rugiada al nuovo giorno. Quanto disordine tra i pensieri. Spingono folate di silenzio. Inutilmente. Solo scompiglio. E lettere su fogli assolutamente consumati. E sottili come ostie e come significati. Quasi compresi. Il mio io sbadiglia. Il suo letargo langue. E nei miei occhi c'è ancora terra. E fame.
Non chiamatela voglia.