domenica 29 aprile 2012

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Un sorso e ti sorrido. Perchè mi va. Mi va così. E' un pò che non facevo quello che mi va. Per davvero. Io non ti sto guardando. Sto solo osservando me stessa nelle tue iridi che si slargano come vasche piene di bolle. Come se i tuoi occhi fossero il pentolone in fiamme in cui ripescare pezzi di inferno e di demoni sfusi. E farne una coroncina. Ho bisogno di quella strana santità che a volte ci rende più difficile spiegare. Pensare in un modo convenionale risolverebbe la questione. Forse assolvere i fantasmi e restituirgli la loro vita. Sarebbe come saltellare su un piede, su una campana stinta. Io ci giocavo, non non mi divertivo. Aspetto un pò. Tra un pò sarà il tempo di precipitarti nelle pupille. Solo perchè così posso sentirmi filo lento. E vena calda. Sotto una pelle qualunque. La condizione dell'infinito è un prestito di quella santità. Forse, così si disegna l'oblio. Con disattenzione. Con grumi di lettere. Un pugnetto di gioia umida e veloce. Ho voglia di un altro sorso. Ma mi astengo. E mi gusto il fremito dell'attesa. La mia volontà non conta. Ormai è stoffa che scivola sulla pelle. Se chiudi gli occhi sarà l'attimo in cui io mi infilerò il paradiso nella mente. E lo rovescerò sotto il tuo palato. Con irriverente dolcezza. La trovo così irresistibile. Ti sto gocciolando il mio delirio. Non io, non essenzialmente io. Ma il corpo. Sai spesso ha un terribile e disperato bisogno di esultare. E io non sono goccia. Non quella goccia. Sono la carne immemore in cui la vena non smette di pulsare. La terra in cui il fiume ha scavato il suo corso. Ci vorrebbe tutta la più mordiba disattenzione per non sbagliare. Gli errori sono nodi. Su fazzoletti mai sciorinati nel vento. E adesso ho voglia di annegare nelle stelle e di chiamarle una per una. Povere piccole schegge dimenticate nel buio. Scintille di fuochi mai arsi. Perchè in quella vena c'è una parte di me che non riesco a spiegare. E si riavvolge come un feto. Ed ha solo voglia di esplodere.




Non io.



Assolutamente non io.



Negare è vivere con un solo occhio aperto.



Senza chiuderli mai per davvero.



E senza poter guardare l'intera immagine.



Aspetterò la notte per ricominciare il mio appello.



Alle stelle.



Non voglio perdermene neanche una.



Non io, esattamente non io.

mercoledì 25 aprile 2012

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Precipiti nell'inverno. La neve non si ferma mai alle ciglia. Non si accontenta. Ha fame. Ha una sua voracità, e le sue regole ignote. E di inverno è facile nascondersi. Quasi indispensabile. Cercare una tana. Come dentro una parentesi. Dove ci sia una spiegazione, non sempre plausibile. Dove noi sappiamo diventare idea e carne nella stessa quantità. Dove non dobbiamo difenderci. E dove non ci sia negato un pò di calore. Perchè viviamo, alla ricerca di quel tanto di calore. Come dentro il letto, mentre ci addormentiamo, affidandoci ostinatamente all'ignoto. A a quel calore diamo tanti nomi. E glieli cambiamo, solo perchè siamo alla ricerca di un nome giusto. Come se fosse un incastro. In fondo sono le cose più difficili e rari gli incastri. La giusta misura tra forma e spazio, tra materia ed aria. Ed a volte ci ostiniamo, invece, a dargli lo stesso nome. Un nome logoro e dilatato, come un cappotto vecchio e sgualcito. Siamo portatori di reazioni chimiche, quasi inconsapevoli. Anche la vita lo è. Anche se a volte sembra una pretesa. Respiri, fiato e battuti. Siamo più liquidi del dovuto. E la pretesa più insistente è che l'inverno passi subito. Senza saper aspettare che geli tutto, proprio tutto. Lo isoli e lo custodisca, nella pancia della terra, come una gestante paziente. Solo perchè temiamo il freddo. E ci strofiniamo contro infinite casualità. Ed è così che il precipitare nella primavera sembra silenzioso e quasi invadente. Troppo intenti ad abituarci. A raccontarci. A ricoprirci di parole. Fiato sopra fiato. Inutili.




Oggi c'è il sole.



E il mondo mi è apparso, dentro una cornice di papaveri e fili d'erba.



Non so quanto inverno dovrò sopportare ancora, ma c'è un silenzio più autentico di mille parole e lo ritrovi e lo custodisci.



Ecco, ora lo sento un poco mio.

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Immagina.E' là che ci raggiungiamo. Nel regno dove ritrasporre, dilatare o ritagliare, imprintig occasionali. O meglio figli del caso più che dell'occasione e del più opportuno momento. Ombre giganti e moscerini. Contro la luce ed il vento. Si sovrappongono. Fino a restiturire la fiaba. Gocciola, come vino versato, e come piacere, la mente. Sulla coppa della possibilità. E sul suo bordo, attenta, io osservo. E' uno spettacolo da cui non riesco a distogliere lo sguardo. In fondo diveniamo vita per caso. E diveniamo caso mentre viviamo. Immergersi tra le nuvole non è mai stato così semplice. Nuvole sulla pelle, nella mente, tra i denti. Finanche avvinghiate al cuore. Nella pancia di mia madre, nessuno mi raccontava menzogne. Il suo ventre era una caverna calda, e nessuno spegneva quel fuoco. Così mi determinai a spezzarne un pezzettino. Deve essere stato così. Quello stesso fuoco che si rende voce e filo. E che a volta sento e non trattengo. Possiamo smettere di fare tutto, persino di pensare, ed impedircelo. Ma non di ricordare. Esiste una memoria del corpo che si sottrae alla mente. E' più forte di ogni nuovo remake. Ho una feroce nostalgia della voce delle fragole. E del loro sangue. Dell'inesattezza più pura. Di quelle storie e di quella tenerezza che non ti porgeva mai il conto. Sui miei polsi c'è una piccola stella amaranto. L'ho disegnata tanto tempo fa. Io coltivavo rose. Per vestire i miei occhi di petali. Li ripiegavo sulla bocca. E le mie labbra erano perfette. Più rosse del dovuto. A ridosso dell'immondo desiderio. E sotto di loro io. E le mie parole. Ed i miei pensieri. Nessuna pietra nasce liscia. E liscia lo diventa.Sono fatta di tutti i sogni che sono nati e sono crollati e poi di quelli che hanno ripreso a pulsare. Perchè i sogni sono la parte, di noi e con noi, più piena di vita. Vita sussurrata o solo strisciata. Vita urlata o riavvolta intorno ad un rocchetto.




Basta srotolare il filo.



Senza strattonare il palloncino.



Scrivere non è stato mai più difficile.



Il mio unico dio è tutto l'amore che sento.



E la voce di mio padre che a volte mi ritorna nei sogni.



Quell'abbraccio forte in cui le ossa si toccavano.



E la spinta del suo cuore stanco, contro il mio.



martedì 17 aprile 2012

Primo giorno di primavera. Freddo, ma non ho freddo. Mi capita così per caso di voltarmi e riguardare indietro. Ed è come guardare per la prima volta. Senza più bilanci. Quelli spesso fanno paura. Senza legami. Anche quelli. Gli altri un posto nella nostra vita se lo prendono. E noi nella loro. Incautamente e senza permessi. Prima di ripartire ancora. Perchè hanno bisogno di tempo. Abbiamo bisogno di tempo. Perchè la vita non può ridursi ad un pò di memoria ed a tanti numeri. E poi i numeri sono immemori e così statici. Radicati come alberi senza foglie e troppe radici invasive. Così incapaci di adattarsi. Di piegarsi. Con il loro dovere di essere sempre precisi. E' l'esattezza che mi spaventa. Perchè io sono nata inesatta. Nata sotto un ulivo. Perchè dalle mie parti sono evidentemente più frequenti dei cavoli. Ed inesatta rimango. Vivo e sopravvivo per approsimazione. E non mi lamento nè declamo. Mi limito a respirare. E sputare il male di vivere che riaffiora. E che non nego. Non nego nulla. E continuo ad avere fiducia. Oltre ogni apparenza. La vita non ha limato quella rudezza che mi ha sempre accompagnato. Quella che la sincerità non può livellare. Ed è sempre accaduto di aver dato poco rilievo alla forma. E forse nessuno alla sostanza. Già, forse. E ho visto negli altri solo la sagoma di quello di cui avevo bisogno. L'ho riempita di piume e spine. Senza una mappa. Solo per non avere vuoti. O meglio per non sentirne. Ed ogni volta che mi sono avvicinata ho provato dolore. Perchè toccare gli altri era un rischio male calcolato e mal previsto. Non ho più foglie sugli occhi. Adesso il mondo è nudo. Come i miei occhi. Ed è così diverso. In fondo anche le parole sono un prestito dello spazio alla mente. Scriviamo con quella, attraverso la materia. E spesso il nostro inchiostro è invisibile. E occupa un posto più denso. Del possibile. Primo giorno di primavera. Senza molte cose. E con una gioia silenziosa che non smette di fiorire. Si chiama speranza. O solo forza. Piccola ma reale. E non mi volto più, perchè ho compreso. Il passato è una sacca con pochi numeri e molto confusione. E se non ci pensi pesa anche poco.
La parola è un moltiplicatore irrazionale.
Anche quando usa il silenzio.

domenica 15 aprile 2012

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Forse. Ti ho chiesto di raggiungermi. Non volevo parole e nè passi. E neanche silenzio. Il rumore di alcuni momenti si mimetizza nel respiro. E respiri, desiderio e voglia che tutto inizi e che tutto sia già finito. Ti fai mille promesse e le sovrapponi e poi le infrangi immediatamente tutte. Io volevo te e te dentro il mio buio. Dove c'è luce. Ma è una luce segreta. Fatta di intimità, dolcezza e di rispetto. E di marmellata di more. Alcune luci non si posso descrivere. Si accendono piano. E' infinita la sensualità che si scandisce con la lentezza. Io in realtà non volevo altro che non fosse e non fossi tu. Ma non volevo dirtelo. Tanti volevo confusi ed un solo voglio. Preciso e netto. Ho accartacciato la tua ombra e ti ho sentito infilarti tra le lenzuola. Scivolarmi vicino. Al confine di me. Tra i bordi dell'attesa. E ho tremato. Piano. Ho trattenuto i brividi, perchè pensavo che così avrei potuto vestirmi di apparente indifferenza. Brividi e battiti sembravano una cosa sola. E' quello che accade quando la pelle ed il cuore si toccano. Mentre si strofinano la pelle diventa una tela candida. E la bellezza del presente non è data dalla sottrazione di pezzi del passato. Non c'è un meglio o un peggio. Esiste solo quello che sta accadendo. E gli altri non esistono. Forse l'ho pensato o lo sto inventando ora. Anche se non ho più una grande fantasia. E la gara delle farfalle non ha nè vinti nè vincitori. Tutti perdiamo e tutti vinciamo. Solo che facciamo gare diverse. Mi piace complicarmi i pensieri. Non mi hai chiesto perdono. Nè io avrei voluto. Volevo solo che ti infilassi vicino e mi respirassi vicino. Come quando si sta dentro una bolla. E non ricordare altro. Una specie di oblio dolce. In fondo tutti si chiedono cosa ne sarà di noi dopo la morte ma pochi quello che eravamo prima. Da qualche parte saremo pure piombati. Mi piace l'idea di intersecarsi il percorso in una e più vite e di incontrarsi ancora. Diversi ma uguali. Forse gli stessi. Zahir.

venerdì 13 aprile 2012

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Pensavo che... ci riesce oltremodo facile plasmarci addosso una stranezza che alla fine è solo uno sconcertante artificio. Un velo, un cilindro o un fazzoletto. Il canto dei grilli. O le mie scarpe nuove. O l'orlo scucito della gonna. Nella disarmante convinzione che la normalità sia lo zainetto che abbiamo in dotazione da cui estrarre quotidineità. Così ci strusciamo contro l'esigenza di una diversità che ci rende con una forma morbida, come vestiti bagnati, fradici di voglia di specialità, uomini con asseriti frammenti di divinità e spesso è una aspirazione. Quando il divino si incastra nella più invereconda semplicità e spontaneità, come un fiore che sboccia. E' la sua corolla è una coppa, un trofeo o piuttosto una preghiera. Le cose realmente strane hanno l'autenticità e l'incoscienza. Saltano la serie e si ribaltano e si ritrovano oltre. Non scuotono le ciglia per lo stupore ma solo perchè hanno bisogno di rigare l'aria. E con gli occhi parlano. Hai mai saltato a piedi uniti nel buio? E' come sgiungere le mani nella preghiera. E fare immensi giri con le dita nell'aria. Sentirne il peso contro e non smettere di rotarle. Perchè se raccogli vento ti ritroverai con le mani solo apparentemente vuote. E schegge di vento ti graffiano il palmo. Per complicarti le linee della mano, le radici di un destino, tutto da rifare. E se ci pensi non sono mai stati più affini sangue e terra. Ci sono molte più cose in cielo che in terra. Perlomeno per qualcuno. Il cielo è la casa delle idee. Una immensa tasca trasparente. Nuvole su nuvola. Ed è un gioco serio, serissimo oserei dire. Raccoglie i nostri sguardi, come fili. E non li spezza quasi mai. E quando disegnavi il fumo nel camino era una nuvola incompleta che si perdeva nel cielo. Un suo frammento. Grigio su grigio. Leggeri ghirigori tondeggianti. Li schizzavano dalla bocca di un camino rosso carmino. Perchè qualcuno ha fatto credere ai bambini che le case abbiano sempre i tetti rossi. E che anzi tutte le case abbiano un tetto e che quel tetto sia necessariamente spiovente. E che il sole sia di un giallo indecente. E che tutte le finestre siano protette da infissi verde, verde marcio, con spiragli di menta. In dispregio di qualsivoglia decoro urbanistico e sentimentale. Dentro la donna, senza spingere, e silenziosamente, la bambina pensava ad un prato finalmente viola e a nuvole arancioni, screziate rosa. E disegnava case senza tetto. Perchè l'unico tetto del mondo è il cielo. E silente non svegliava il futuro, prima che fosse tempo.

Adesso afferro la luna e la calo in fondo.
Luna e viscere dentro.
E mi sento pensiero immobile.
Mentre sciolgo sotto il palato un pò di paura.
E un pò no.

martedì 10 aprile 2012

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Lei non aveva molto da dire e quando avrebbe voluto ci ripensava. Si parlava addosso. Si lasciava colare le parole. Fino a che riuscivano a toccare la terra. Era da sempre la sua preghiera, il suo versetto preferito. E là era reale. Con le dita mischiate al prato ed a steli. Aveva detto e ridetto, si era mostrata e nascosta e poi tutto era stato travisato e frainteso. Perchè gli altri non la volevano sincera, ma volevano una lei mediata e meditata. Lei non lo sapeva, non lo comprendeva e nessuno lo diceva. E spingeva e avanzava con tutta la brutale ingenuità di cui era fatta. E si accorgeva che gli altri usavano la sua stranezza per sentirsi migliori. La giudicavano instabile per fare un puntello della sua incertezza. Lo sapeva e lo aveva sempre saputo. E questo l'aveva sempre aiutata a leggere le loro parole e a prenderne la giusta distanza. Una puerpera pregna di buoni propositi. Si faceva strada e poi cantuccio. In un percorso che era perso e si era perso nel bosco. Là ognuno prende quello che capita. Quello che è più facile. E spesso non è la parte migliore. Perchè quella va presa con calma, con cautela. E sarebbe accaduto, forse, quando qualcuno, senza fare del male, le avesse agguantato i polsi e raccolto i battiti, prima. Per custodirli come un prezioso segreto, poi, come se le stesse assaggiando il cuore. Ancora prima di offrire il suo. E poi riuscire a farle da mangiare ed a nutrirla, aspettando che fosse sazia. Moderata e sazia. Quasi mai savia. Credo che l'amore sia la maieutica dell'anima. Perchè l'amore crea e distrugge. E tutto questo deve accadere in silenzio. Senza promesse, senza speranze, senza bilance. Qualcuno ti pettina ed aspetta. Ti spettina ed aspetta ancora. E lo fa anche con i sogni. E con i suoi. Perchè quando lei parlerà non sia per fame o per bisogno. Ma solo perchè ha una tremenda voglia di fare un piccolo pezzetto di strada. E di calpestare erba, parole e sassi. E di mescolarsi passi. Lei non aveva molto da dire e quel poco non era male. E neanche dolore o pentimento o peggio risentimento. Il caso l'aveva resa peggiore o migliore, a seconda dei casi, e poi stranamente silenziosa. Piena di attesa e di capacità di osservare. Non dipanava più la sua voce nel vento ma la tesseva a ciò che non voleva volasse via. Come se avesse ali segrete. Più forti del resto.
La sua fede era nel mondo.
E la sua chiesa un bosco.
Le capitava di spiegarsi, di mostrarsi, di lasciarsi guardare,
ma poi era inevitabile che lei andasse via.
Perchè l'anima è un segreto che si condivide solo per poco.
Dopo è destinata a divenire altro.
Mai fare confusione tra il vuoto ed il niente.
E mai farne un punto.
E poi penso alle fragole e che il silenzio non è quiete.
E alla forchetta che le rendeva liquide senza essere sangue.
E' strano ma nel momento esatto in cui ti dicono che non ti giudicano
lo hanno appena fatto.

domenica 8 aprile 2012

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Mi divertiva sempre osservare quanta componente di tempo ci fosse. E quanta altra fosse invece necessaria. Quanto ne fosse scorso e quanto ne arrivava in disavanzo. Del resto, l'armonia è fatta del tempo giusto. Nè troppo nè poco. Il contatto che non diveniva presa, la parola che non diveniva discorso, il pensiero che non diveniva incalzante. Una passione che manteneva il rosso esatto, mai liquido e livido e mai roseo. Mi piaceva staccarlo dal tutto, il tempo, o il suo frammento, e osservarne il corso e l'impatto, compiaciuta ed impacciata da quella capacità di astensione, da quella forza, da quella resistenza. Della mia assenza. Dal flusso e da ciò che era per davvero. Poterlo percepire dall'altro lato. Non capitava spesso. Quasi mai. Quell'essere in anticipo sulle cose. E goderne l'improvvido arrivo. Un salto, una premonizione. O forse solo la capacità di sentire ed avvertire un pò prima per ripararsi. Una Cassandra mai compresa. E poi decidere lo stesso di lasciarsi piovere o scostarsi solo un poco. Oppure di avvolgersi il destino addosso, tutto quello che capitava, ed attendere che divenisse e fosse meravigliosamente asciutto. E poi vedere le cose per quello che erano. Spoglie di ogni orpello. Senza smettere di farne strati e mai fermarsi al primo. Anche le cose devono avere le loro vene. Renderle scaglie di sostanza. Senza tempo nè sangue. Doveva essere tutto un gioco così. Poteva. Perchè essere cosa rende tutto più semplice. In fondo il corpo è la cosa più labile e fragile che ci sia. Ed è tutto nostro. Ci rende nostri prima di accorgercene. Un'aquilone sperso nel mondo. Capace di sentire prima della mente. Come su una montagna, al confine con le nuvole, con la magia della vita sotto, ad incastrarsi come onde che si infrangono su uno scoglio. E il tempo che non è più il granellino nella clessidra, ma la terra che germoglie, la luce che si fa abbraccio, il balzo del pesce, le ali di un uccello a fendere l'aria. Il tempo si slenta in un disperato bisogno di poesia.
Sempre troppo difficile da ammettere.

venerdì 6 aprile 2012

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La foresta dei miei sensi si scuote muta. E muta ed incompleta giace e si spalanca. Mi piace pensarmi oscena. La sento più serena. Più aperta. Nell'invisibile confine tra magia ed illusione. Illudersi ed illudere non sono mai stati tanto diversi. Vorrei spogliarmi mentre mi parli. E non mi guardi. Non saprei quale arriva prima e quale lo segue. Quale è l'immagine ed il riflesso. Come se lo fossi anche prima. O in che punto giungano così vicini da sovrapporsi. Infilarti le dita in bocca e scrivermi addosso. Qualcuno deve aver pensato che la mente non fa che ricordare e riempire le forme e le sagome della fantasia. La tua saliva sarebbe il mio inchiostro. Un contenitore primordiale che si spinge dentro il vuoto. Ad occhi chiusi. Perchè così è più facile ricordare. Anche io credo di aver sentito cose indimenticabili ad occhi chiusi. Ed in quel momento era proprio io a camminare scalza su quel sentiero. E io il sentiero di mille glosse che si accavallano. Forse per spiegare. O solo per confondere. Ed ho tagliato, in maniera maldestra, le canne, i papaveri e le mie trecce invisibili. E adesso il mio collo è nudo. Nudo e spaventato. Lo stesso collo dove tu mordesti stelle fino ad intrecciare baci alle mie ossa. La mia foresta si scosta i lembi, perchè là giace il suo segreto muto ed affamato, e fagocita mille lune ed il loro canto. E li fa densi come una poltiglia o un risentimento. O solo voglia di bene. E che qualcuno cancelli tutto il non essenziale. Ho voglia di immergermi dentro quell'ignoto. E commuovermi. Per sentirmi tintinnare le vene. Come se fossero cristalli. Commuovermi, perchè anima e pelle, arrivano vicine vicine. Senza paura dei graffi del contatto. Ogni parola è un incantesimo. La mente si fa lettera e ruba un pensiero. A me è capitato. Di avere per tetto solo rotoli di cielo. E intorno acqua e acqua. A rilucere stelle. Senza capire quale fosse l'orizzonte e quale la riva. Come su una zattera senza deriva. Immemore e con l'istante a farmi compagnia. Quasi un haiku sbavante. E che qualcuno lo strappi. E ho avuto sonno e nessuno che mi chiedesse di sognare. Nessuno che mi raccontasse favole. E io che le conoscevo tutte. Per poi svegliarmi nel cuore della notte e cullare il pianto di una sconosciuta. Baciarle i singhiozzi. E accarezzarle il capo fino a farla riaddormentare. In qualche vita prima io le sono stata madre o forse lei la mia. E restare così senza chiedere più.
Mai più.
Perchè poi in un punto i lembi si ricongiungono sempre.

giovedì 5 aprile 2012

Non mi tremano gli occhi. Non più. Ho occhi diversi. Si sono incastrati ad un punto e hanno smesso di vagare. Me li sono ritrovati all'improvviso. Piombati qua, davanti alla mente e piazzatisi a farle da cancello. E le ciglia grate. E adesso sono aperti, spalancati. Come quando non hai più voglia di stare male. Una mattina mi sono svegliata con questi barbari invasori vestiti di brandelli di curiosa e sagace circospezione. A volte ti sembra che gli occhi, forse da soli, si siano lanciati in traiettorie senza fine, come ami di pensiero, e che si siano persi in giri senza direzione. Come cerchi che tentano di sovrapporsi. Ma che diventano bordi sbavati di uno stessa figura. Come comete senza stelle. Strappo dopo stratto. A ricucire il cielo. Ti sembra di guardare tutto quello che capita. Senza un ordine preciso ed è come ribaltare le storie. E piazzarti nel bel mezzo di una fine, senza aver mai letto l'inizio. E senza che nessuno ti abbia mai presentato il protagonista, per commuoverti per un lieto fine, uno qualunque, che ha catapultato tra stelle e calci ignoti sconosciuti. E piangi e ridi per condividere o per rinunciare. Perchè quelle lacrime calde sono un segno. E tu vuoi lasciarne. Senti che devi. Non puoi fare altrimenti. Come se il loro solco fosse il testimone della tua esistenza e tu lo passi a chi sta arrivando. Bevimi e bevi le mie lacrime. Ricordi? Ti ho pianto addosso mentre eri dentro di me. Eravano più liquidi della pioggia. Senza nessun confine tra il piacere ed il dolore. Tra la gioia e la malinconia. Forse è questa la vera pazzia. E questa precaria stabilità, come precaria è ogni foglia, prima che arrivi il vento, e si lasci cadere nel vuoto aperto, ti aiuta ad accarezzare le cose, come se nascessero proprio mentre le stai scoprendo, o solo ritrovando. E le rivedi, tanto meglio, mentre stai andando. Perchè nel distacco tutto si colora di nuovo senso. Ed una verità, quella più difficile, si è adagiata dentro e ha preso a sventolare, come una bandiera, dopo l'inno. E tu sai, come se fossi scrigno, che dentro, anche quello che sembra faccia male, fa bene, ed è giusto perchè è vero, più che sincero, ed è destinato a trovare il suo posto. Con tutta la cautela di cui ha bisogno la pelle, per riconoscere. E' più facile elencare quello che ci manca rispetto a ciò che si ha. E ciò che si detesta piuttosto che ciò che sia ama. Come se fosse un vezzo. E me lo tengo stretto dentro perchè riscalda, anche se è destinato a spegnersi. E a lasciare cenere calda. Smetterà di esistere, questo lo so, ma adesso è qua. E io abbraccio con tutta me stessa quel palpito. Io sono il guscio e lui il frutto ed io il suo frutto e lui la mia tana. In una osmosi tenera e tiepida. E così rara. Per questo è difficile lasciarla andare via. Come quando sogni che qualcuno sappia ingoiarti e farti da culla. Solo per baciargli il cuore. E fartelo battere al posto del tuo.
Era ieri.

martedì 3 aprile 2012

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Noa si sporse e le sembrò, per un istante, o giù di lì, che il mondo avesse fatto capolino, all'improvviso, dentro la sua stanza. Come se guardare significasse, a sua volta, essere guardati, dentro una lente. E poi dilatati e poi ridotti in un'inesattezza che consolava e rassicurava. Dove nessuno ti chiede di essere di una certa misura. E dare tanto o poco. E per essere giusti serve solo lealtà. Era come se con gli occhi ci si scambiasse vita. Si divenisse, anche se per poco, l'altro che ci guardava. Noa si strofinò gli occhi e mise a fuoco. Con tutta la lentezza di ciò che si è a lungo rimandato. Così rimase nell'incertezza tremula di una visione un pò deforme ed un pò fantastica. Finchè il mondo si ritrasse e sentì tutto intorno un vuoto asciutto e riservato. Come se fosse nuovo. Pronto per essere riempito ancora. Nuovi scaffali da montare e tende da stendere al sole. E lenzuola fresche di bucato. In un angolo c'era il passato e le terrine di sua nonna, zeppe delle sue carezze. Ed il maglione di suo padre con tutto l'odore di quell'amore mai detto fino in fondo e la collezione polverosa di santini dietro un cellophane che le impediva di risentire tutte quelle preghiere, forse vane o forse no. E c'era la pila dei suoi libri che inondavano il comodino. Le era sempre piaciuto vivere come se fosse accampata, con il fuoco oltre la tenda. E le provviste sul bordo del lettocapannatappetoealtro. Ritrovarsi il calore addosso stretta ad un lenzuolo sconosciuto, perchè impregnato di fantasia. Era così che era passato il tempo. Ed era così che aveva smesso di consentire al mondo ed alle sue farfalle di fare capolino. Adesso era lei che si sporgeva e lasciava dentro tutto ciò che avrebbe voluto non andasse via. Ma ogni volta era inevitabile. Perdere un pezzo e impalarsi all'altare della imperfezione. Come una donna errante. Una donna in divenire. Con la sua tenda ed il fuoco dentro e fuori. Lo siamo tutte e tutte possiamo comprendere. Come se avessimo fili invisibili da afferrare in alcuni momenti e scuoterli senza tregua. Finchè qualcuno riesca e sappia arrivare ad accarezzarci i polsi. Senza poterli nè doverli spezzare. Solo toccare fino al punto in cui battono senza vergogna. Perchè su quei fili ci sono le tracce e le scintille e le impronte di tutte quelle che prima di noi li hanno toccati, ne hanno avuto bisogno, hanno dovuto. E capita proprio a tutte. Fino a lasciarli andare. Senza dimenticarsi di quella rete dolcissima e sincera che intorno esiste. Nonostante noi. Perchè la bellezza è capirsi senza parole, ed è saper accantonare e andare avanti anche se ci sembra impossibile. Nessuno è indispensabile, tranne noi stesse. E l'idea che ogni volta che si manchi di rispetto al cuore di una donna qualcuno sta tentando di strappare quei fili mi sconcerta. Forse l'ho fatto anche io. Ma ho ricucito sempre. Ed in silenzio, con il cuore e con la mente, perchè ciò che è forte e sincero non ha bisogno di ostentazione. E si disegna taciturno, senza più regole. Noa si stese sul suo tappeto d'erba e sentì che solo così sarebbe stata sola. Come un puntino. Con la schiena contro la terra, impedendosi di farsi ombra, perchè, era lei l'unico ostacolo tra sé ed il sole.

lunedì 2 aprile 2012

Abbraccio la follia ed il mio essere denso e peggiore. E non contemplo il resto. Nè mi volto. Dietro l'angolo. Fatto di aria e volontà. Mi basta assentarmi e raccogliermi. Come chicci di grandine, prima che il sole li sciolga. Una gelida collana che geme e freme per divenire rugiada e piangere e poi baciare nuovi stomi. Immergersi in altra vita. E diventare ancora aria. Per liberarsi e non avere dita. Solo aria e graffi umidi tra le mani. Come geroglifici. Fossimo fatti di pietra avrebbe un senso. Ma il senso spesso non ne ha. Ed io sono carne e fatta di carne ed è di carne questo cuore. Capace di sanguinare, senza delusione. E l'uno e l'altra, fatti di tutto l'amore che per sbaglio o per diletto o per incanto o per sorte li ha solcati. Senza saper smettere. Neanche quando si contrae e si spezza in spigoli improvvisi ed immotivati. Ognuno è quello che ha dato e quello che ha dato non è mai perso. Il cuore non ha piatti di bilancia ed è sempre in quell'equo disavanzo che mi piace chiamare ricchezza. Già. Quella voglia di raggiungere, di colmare, di sublimare la misura, e sorpassarla. La propensione che ci rende più umani che si può. Nel ritornare in equilibrio. Solo per riprovare l'ebrezza di nuove discese impervie. Non chiamatele emozioni. Solo stupidità. E vita. Mi piace ricordare il mare e ricercarlo nell'aria. Una volta mi hai insegnato a ritrovarlo dentro. A sentire l'onda che si perde sulla riva. Mi dicevi di pensare al mare e che così non mi sarei mai sentita sola. E questo è vero, perchè pensando al mare io penso a te. Alla distanza in cui siamo stati immersi. E ai nostri occhi e alle risate, come un sorso sano. Un sorso intero che mi faceva ritrovare in fondo a te. Come se mi avessi bevuta. Perchè l'hai fatto. Quello che rende la memoria ricordo, è il cuore. E non si sa più dove inizia e finisce la carne. Dove il sangue precipita e stenta a fare ritorno. Al contrario. Come un salmone.
E oggi ho voglia di pensare al mare.
Puoi chiamarmi onda?