venerdì 9 agosto 2019

L’odore della terra rassicura sempre. Inebria e ferma. Le sue crepe divaricate dalla calura cesellano un segreto. Infiniti. Uno e più. Una sorta di grossolano filtro tra noi e l’indefinito, a cui si sottraiamo, perché la dimensione del dubbio ci rende così fragili, precari come il silenzio di una notte d’estate, o la memoria di una coscienza foderata di buio. Alcuni flussi riemergono e ci perdiamo nella risacca di onde cariche di feroce desiderio di conoscere, di condividere, di sentire. Eppure la incoerenza è un vezzo che si paga a caro prezzo, anche se ti stordisce, per il piacere che sa donare. Mi genufletto e mi ritrovo perplessa in un punto di domanda, che poi sono una serie di interrogativi, quasi graffi sulla carne, mescolati alle vene. Si spingono verso l’ignoto e tutto questo ha un fascino che gioca con il fiato e mi riempie i polsi di brividi. La nostra verità è incastrata dietro ai nostri errori più sinceri. Una austera imperfezione che ci condanna.
Abbracciami, quando mi volterò ed impediscimi di aprire gli occhi. Non voglio.

sabato 18 maggio 2019

Seguì la linea dei suoi brividi, con un dito, quasi a cercare la risposta di una domanda monca, sussurrata e mozzata, mentre ancora tremava, con il sangue caldo. Era una donna semplice, e avrebbe voluto che qualcuno lo capissi. Ed inciampava spesso nei sogni, come se sottendessero il suo cammini, più curvi di un arco e gravidi di speranza. Sentiva le lacrime scendere ribelli, come piccoli fiumi, di una deriva segreta e cercava di asciugarle, ma poi si fermò le lascio che rigassero il viso, fino a prosciugarle il tormento dei suoi occhi, piccoli laghi di inquietudine. Nelle parole tutto perdeva di senso. E lei ricamava il silenzio sui polsi per annullare e ricacciarvi sotto i  desideri ed i fantasmi che impavidi spingevano, appena sotto la pelle, a confine con il suo sangue.
Era disperatamente sua.
Aveva inseguito un palloncino, fino a fargli sfiorare le nuvole, per perdersi in un orgasmo indaco.
Sentiva la sua carne ancora avida, e gli raccontò una favola nuova, forse finta.
Ormai era mezzanotte. 

mercoledì 1 maggio 2019

Soffi

Ho riletto i tuoi messaggi, e come buchi, vuoti di lucida follia, mi è pulsata tra le vene, sino al cervello, la pallida fiducia che mi riempiva di speranza di un attimo diverso. E quel frammento è davvero stato? O era l'ombra di una fame selvaggia che adesso squarcia il ventre che continua a gemere e si ritrae. Senza pudore, ho lasciato il mio cuore nel vento. E come allora sento una disperata luna che mi trema dentro e non si ferma. Il tempo è finito e quel che è stato non ha senso. E non mi chiedo se verità ci sia stata nei tuoi baci o solo una scintilla che ora è cenere. Non lo chiedo. Non sento il sangue, non sento il cuore, non sento il fiato. E non esistere sarebbe un dono pazzesco. Come un salto nel vuoto.
Pugno di stelle...
Ascoltavo il vento e mi vestivo di rimpianto. Era ieri. O forse un attimo fa. Nel rosario del tempo, che snocciola grano per grano il divenire. Adesso resto asciutta nel mondo. E ascolto quella voce che mi modella e mi contorce. Fino allo spasmo. Non tremo ma mordo aria. E mescolo morsi e sorsi con la voglia di nuovo e meraviglia. Tutto immobile, dentro, e gli strati a fondo. Giace il resto di me, la donna che fu. Io sono solo diversamente nuova e attendo che una nuova primavera si dischiuda sui polsi. 
A volte mi ritrovo immersa in una solitudine diversa. La diversità mi ha sempre stupita ed incatenata. Come nel mare, quando tutto abbraccia. Senti la luce sulla schiena e mentre riaffiori scintilla e si infila tra le onde, sulla fronte, sulle gote, sulle labbra, con una ignara promessa di precarietà. Sogni di sabbia che graffiano mentre scompaiono e si dissolvono al primo tiepido e fervente buio. Ti insegnano che devi diffidare degli sconosciuti, ma vuoi mettere il brivido di infilarti nell’ignoto?  Pensavo che le assenze rimbombano forte quando è tutto vuoto, e circolano, come figlie del vento e scie lungimiranti del suo soffio, in cerchi selvaggi. Fagocita il mio dolore stupido ogni traccia di sorriso, e io non lo voglio, non lo voglio più,  e come goccia di mora impudica ed invereconda scivola distratta dalle labbra e io non esisto, oltre quella riga. Eppure ti spiegherei se fosse utile. Ma forse non ci sei più vento caro e sei già andato oltre, e il bordo segna la distanza, quando è intollerabile. Ed è diversa questa solitudine pregna nel ventre fecondo di una luna, mentre mi raggiungo e poi precipito. I grilli si mescolano al mio fiato e nelle pagine nuove da scrivere io scivolo silenziosa. Leviga il tocco la carta e mi seduce.
Quando taccio, sono pericolosa.
Perché il silenzio rende tutto meravigliosamente possibile.
E come una virgola indecente, segno senza spezzare.
Forse il pane di mille lune segrete.
Non fermarmi.
Alcuni pezzi di passato non mi spaventano da quando ti ho infilato nella memoria del cuore.
Alcuni posti mi parleranno sempre di te, anche se in sordina, con toni sempre più sfumati.
Ma mai esserne sicuri.
Perché prima o poi il cuore esige la sua parte indietro.
Lo lego al dito, come una promessa. In un punto fermo, inutile ma essenziale, sento il mio fiato e la inutilità di quelle lacrime che rigano, senza freno, il volto di una donna, come perle di una collana impazzita. Ci sono ricordi che sono più forti delle sensazioni, e che vanno oltre la mente. Ricordi che si sono impossessati della carne, e senti l’assenza di quegli istanti e la impossibilità di nuovi. Di segni sulla pelle, come passi di un sentiero, tra le vene. No, non è un segreto perché con tutta te stessa lo vorresti urlare, con il dolore che senti e che vorresti solo che fosse compreso. Non sono solo indecenza, ma sono anche anima, perché per essere indecenti ci vuole anima. Serve la voglia, la abitudine, il bisogno, caldo e sincero, di donarsi. Di andare oltre, di lasciarsi precipitare, a fondo. Poi resta un senso di inadeguatezza che urta e graffia contro pareti di solitudine.
Non vedo le stelle stanotte. Solo un mozzico di luna, umida, troppo, come quando non smette di pioverti il cuore addosso.
Tra le fessure la vita e non la spio. Il sangue pulsa nelle vene, sino a scivolare in tristezza. Un sospiro e poi ancora parole e la voglia, ed il bisogno, di passi, nuovi e solitari, tra la voce del vento e dei campi, puri e selvaggi, lontani dalla indifferenza; poiché dove c’è il sole, e dove la luce non morde ma accarezza, c’è proprio una verità muta e dignitosa. Negli occhi paura ed oblio, e promesse smanghiucchiate, da speranze pallide, quasi livide. Un respiro e poi ancora.
E poi e poi e poi.
Il mio nome?
Aria.
Il pensare e ripensare è così sopravvalutato, eppure bisognerebbe immergersi nella più pura astrazione.
Ad un tratto sento un pezzo in meno, un frammento, lontano e sperso.
Eppure ho ancora voglia di guardare le stelle, ed inzupparmici i sogni.
Aria, ancora e sempre io.