mercoledì 8 dicembre 2010

Mi isolo in un non_posto dall'odore di mughetti. Quelli che a volte mi fioriscono sui polsi. Piccoli boschi di una ingenuità che si fa corda e gioiello. E frusta e lingua. E puntella e trafigge la pelle di nostalgica purezza. Come se i fiori fossero capaci di sputare le parole. E le parole dei fiori fossero petali di ingorda sincerità. Quella che tenta di afferrare uno specchio ed affondarci. E finalmente vedersi. Fosse anche per cancellare. E calpestare ogni impronta. E ricoprirla con nuove impronte. Mentre cerco di dimenticare. Senza posto. Senza direzione. Le orme hanno il profumo dell'oblio. Quello che impedisce di ricomporre le collane di fiori. Ghirlande da deporre ai piedi del futuro. Una e molte direzioni.

Fiore. Casa. Nuvole. Cielo. Sole. Amore. Fuoco. Fumo. Soffio.Petali. Fiore.

Un piccolo bracciale sulle mie dita morbidamente intrecciate.

Per siglarne la preghiera.

O la appartenenza.

Sincere come mai.

Ma non si capisce.

La sincerità è la nebbia che risucchia ogni direzione.

E spesso non sfocia nella verità.

Allacciami piano la verità sulle mani.

Piano.

Senza soffocarmi i brividi.

Non stringere.

Non so più resistere al dolore.

E poi lo confondo con il resto.

lunedì 6 dicembre 2010

Ho il cuore tra le mani.
Sembra un piccoolo sole che si spinge verso il vuoto.
Si contorce e si modella in archi di vuoto e di luce.
Tutta quella che non ha.
Prima di tuffarsi e stemperarsi in
linee di assenza
ed in mille ombre.
Quelle che ci raccolgono e ci adagiano.
Sul bordo.
Ci avvicinano al suolo.
Fino a renderci sue vene.
In avido ascolto.
Forse i nostri cuori sono le radici della terra.
I suoi vasi comunicanti.
Le radici di un fiore.
E come ombre silenziose affondano.
Si infilano sotto.
Nel resto del senza.
L'alcova del bisogno.
Fino a non lasciare traccia.
L'oblio del cuore è un labirinto.
Sotto la pioggia la terra è assolutamente nuda.
Quasi indifesa, si ascolta.
Fragile.
Ogni passo la riempie di crepe.
E quelle crepe a volte sono le uniche parole di cui siamo capaci.
E le soffia polvere.
La paura della terra.
Paura, quasi livido e scostante terrore.
Di ascoltare i sussulti che ci sono sotto.
Come un cuore lontano che batte.
E non ci sembra neanche più il nostro.
Il mio corpo è una terra da ascoltare.
In silenzio.
Perchè così ti accorgeresti che è la tana di una luna muta.
Lana spessa e grezza.
Impregna e si impregna.
E io mi parlo e mi parolo addosso.
Solo per nasconderne i battiti.
Ed inventarmi il silenzio.
Sgranocchio consapevolezza. Per renderla inconsistente. La sento prostrarsi e protendersi sotto i denti. Umida e sfuggente. Come un bacio. Forse l'ultimo. O il primo. Quello che sa ancora di lingua sconosciuta e straniera. E tu credevi fosse rugiada. E facevi le prove contro un vetro. E disegnavi le labbra con gli aloni. Per verificarne i contorni. Inconsistenza dell'esserci a modo proprio. E un pò il negarsi. Scuotersi i capelli nel vento. Come leoni erbivori. Astraggo tutti dal segno inverso che sento. Un pugnale che affonda. Gli altri sono solo occasioni. Di una ferita come una sacca. Nessun eroico appartenersi. E le promesse che scivolano come foglie a pancia in su. Mentre la lama compie un giro di non ritorno. Sarebbe così facile spiegare. Perchè avevo capito. Ma è nel silenzio che tutto ha la sua vera voce. Fatta di occhi. Perchè il senso del meditare è cercare di vedere. E si vede solo lasciandosi colare la voce addosso. Quella che la mente secerne come un veleno. O come un antidoto. E poi è lo stesso.
"I meditanti sanno da sempre di dover usare i loro occhi e il linguaggio del tempo a cui appartengono per esprimere la propria profonda comprensione".
E della incomprensione cosa ne facciamo?
Come la esprimo io questa immensa bolla di sapone?
Erba negli occhi e mordo vento.
Sentire e non saper spiegare.
Con la voglia di vomitare il cuore.
Come se fosse un punto goffo al centro.
La mente è il nostro vero occhio.
E pensarti è vederti e un pò amarti.
A modo mio.
E accarezzarti.
A mani sincere.
E poi all'improvviso ho sgozzato la mia bambola.
Perchè non voleva baciarmi.

Ho pochi etti di delirio da slinguare. Un minuscolo cartoccio. A forma di cielo. Delirio morbido e caldo. Pochi frammenti, liquidi e sparsi, da lasciarmi colare nella gola. Siamo imbuti con un orlo variabile. Come una preghiera. E pregare come se ci fossero altari di demoni con le ali. Pensare che esista un dio capace di volare mi fa sembrare tutto leggero. Ali languide a spengermi l'idea. Perchè la annegano nell'aria. Quella che rubano. E io rubo a loro. Per dare un senso alle preghiere. E poi è solo solitudine bastarda. "Osa cazzo". E mi sorridevi dentro. Avevi già osato. Mille volte. Mi avevi cosparso gli occhi di gentilezza. Non sospetta. Nè aspettata. Quella a cui non sapevo resistere. Come le fragole di inverno. Forse una specie di sogno. Da rana triste. E una tekila ad allagarci il cuore. E a slargarci i lembi. Un vero dio sa anche strisciare. Ed aspettavo il suo solco. E poi la fragilità non è debolezza. E' più debole chi fa del male che chi lo riceve. E assecondarsi il cuore è un rischio non calcolato. Seguirlo nelle sue ripide. Come se fosse un tronco su un torrente. Mentre è solo un filo d'erba. Di un prato sfacciatamente esteso. Da proteggere. Mentre si urla al mondo, e lui sa solo tremare. Non sa difenderti. E trema delle paura sua e tua. Ma di nascosto. E forse avere poco e sentirlo immenso. E forse avere tanto e non saperlo afferrare. Come in un pagliaio.
C'era l'estate nei tuoi occhi e schizzi di fragole acerbe.
E sotto il palato io mi scioglievo il tuo nome.
Come una zolletta.
Ma fuori era inverno.
Era troppo inverno.

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Alcune musiche hanno dentro mille lame e mille medicamenti. E mille mani capaci di accarezzare e poi di trovare il punto esatto, il piccolo pozzo in cui entrare dentro e calarsi diventa possibile, e così infilarsi nelle vene. I quei cunicoli che se segui la corrente giusta portano al cuore. Soffiarci dentro e lasciarsi trasportare. Quelle musiche sminuzzano e frammentano ogni spaziotempo, anche quello che ci aderisce addosso. Il vestito delle nostre ore. E riescono a costruire torri e ponti e a lasciarci ondeggiare nella mente fiumi, contenuti e contenibili, entro adeguate sponde, con le loro barchette a solcarli, e il riflesso di una luna tremula, ma integra, a marchiarli. E neanche riesci a sollevare gli occhi, tanto sai che c'è, con la sua sfacciata certezza tonda. Con il suo giro completo, da cui non fuoriesce nulla. E non puoi guardarla perchè i sogni nascono per essere incerti contenitori espandibili. Ed ogni concretezza non potrà che renderli un pò meno sogni ma più grondanti di sangue. E dove c'è il sangue prima o poi si soffre. Ma quelle musiche neanche di danno il tempo di capire. E non capendo tutto è più leggero.
In quegli specchi io e te ci abbracciavamo.
Come se ci fosse la musica.
E sembrava che ci abbracciassimo infinite volte.
E che fossimo infiniti.
Infiniti te e infinite me.
Se ci pensi sembra un orrore.
Il doversi scomporsi per darsi all'altro.
Come se l'amore fosse la capacità e la forza
di raccogliere ogni frammento.
Proprio e dell'altro.
Senza perderne neanche uno.
Per riporlo nel posto giusto.
E' quasi assurdo
perchè a volte basta
una carezza
per ricomporci.
Oggi mi andrebbe di dire un sacco di cose bislacche. Variegate al pistacchio. Senza scandirle. Ma inpilandole le une sulle altre. Ma non come quelle che già dico. Un pò diverse. Strane e in un modo diverso. E senza logica. Perchè in quelle che in genere dico una logica c'è. Ed è tutta mia. Ma non riesco a spiegarla. Ho sempre voglia di dire tutto. Come se una volta svuotata e ritrovandomi assolutamente vuota, oltre il limite, poi essere riempita ancora, come un'otre umida, sia più facile. E riesca, comunque, a dare la misura della giusta misura e del suo divenire. Perchè la giusta misura è un crescendo. Come una marea. E queste cose dirle tutte di seguito. Senza sentimento. Con la serietà del ripensamento. O del troppo ed assortito pensare. In un serpentone deragliato. E avvolgerle tutte nella foglia di vite. Avvolgere tutte le cose sconclusionate. Con delica accortezza. E lasciargli fondere addosso minuscoli tocchetti di burro. Così alla rinfusa. Poi infornarle. E sentirmi la regina del mulinobiancoverdechenonc'è. Con il cuore che batte perchè è arrivato il momento dello sbarco clandestino. E dell'atterraggio di qualche spicchio di sana astinenza. La follia è la ripetizione costante ma irregolare delle stesse azioni. Ed il delirio è l'attesa e l'aspettativa di un risultato diverso. Come se in quel restare sospesi ci fosse un miracolo in nuce. La potenza del delirio fosse capace di slargare le maglie del divenire e soffiare l'infuso magico di una perfezione che non ci serve. Perchè siamo meravigliosamente imperfetti. Basta sapercelo dire. E perdonando l'imperfezione altrui ci solleviamo in volo come piccole divinità. O aspiranti saltinbanco. Un piccolo volo destinato a finire.
Il tempo non si arresta.
Si asseconda.
Ho provato a declinare il cuore.
Ma sbaglio sempre.
Sembra assolutamente poco declinabile.
E' là, dentro la notte, ci siamo sfiorati.
Come nella placenta calda di una gestante indecisa.
Dove la nudità non era freddo ma sopravvivenza.
Ti ho detto "Inseguimi. Quando saremo fuori di qua. Corri a perdifiato. Dietro quell'angolo ci sono sette estati, un ramo fiorito e tre ciliege".
Ed è così che sono nata poi con la voglia di essere cercata.
Stupita.
Inseguita.
Sorpresa.
Come un piccolo virgulto di solitudine e di delusione.

Siamo ammalati di passato. Nelle mie orecchie la tua voce. E già mi sfiori. Mi giri intorno. Fino al collo. E le tue parole sono perle di una collana. Pronte a scivolare giù. E ti rivivo attraverso le idee. E ti fai fiore e frusta. Non c'è perversione. Quella si infila. Come la luce tra le imposte. E' uno spiraglio. E quando chiudi la porta si spezza in segmenti. Siamo quello che vogliamo quando varchiamo la soglia principale. Ed usciamo ed entriamo dalla stessa porta. Senza deviazioni.
E' strano dover comprendere come un nuovo mondo di idee si schiuda. Come un seme nella terra. Lo sperma del cielo. L'amore che si fa zolla. Prima la spacchi e poi lo ricopri. Nella sua culla. Il seme. Nella sua culla di terra. Nessuno ci pensa alla sua paura. E piano piano diventa voglia. Di vivere. E iniziare ancora. Senza aver finito. E senza aver mai iniziato davvero. C'è il culto della parola che si finge carne. E inizia a sanguinare di un sangue che sembra finto. Un sangue di parole. Ma non lo è. No. Sono gocce.
E a volte fili.E senti tutto il bene che ti ha avvolto. E non puoi ignorarlo. Come una coperta che ti avvolge le spalle. Una rete di bene. Dalle maglie fitte e lente. Perchè il male tenta di smangiarle. Ma nessun male potrà lasciarci morire di freddo. E unire i rettangoli di solitudini lontane. E' un puzzle fatto di vite. Mani che si sfiorano e non si toccheranno mai. E i dolori che si sciolgono in lievi ma profonde empatie. Sangui estranei e stranieri che per istanti ci lasciamo scorrere dentro. Mentre le storie ci scorrono dalle labbra alle orecchie fino alla pelle. E ascolti verità che nessuno ha il diritto di negare. Perchè ogni anima è mondo e tempio. E spesso le nostre preghiere sono sconosciuti rami che bruciano. Al fuoco di un dio piccolo ma potente. Immensamente potente. E neanche lo sa. Nella misura in cui la sua forza ci stritola le vene e ci lascia espodere il cuore.
Ad ogni nuova alba.
Nessuna novità.Poi capita.
Solo un nuovo ramo che si lascia sbocciare i fiori addosso.
Stufo di dover ardere.Perchè è così che può accarezzare il cielo.Sei nelle mie parole perchè sei nella mia mente.

C'è poi la dignità dei sentimenti. Senza la voce dei violini. Con la danza muta di una candela. A volte sembra spegnersi. Altre divampare in furia. E rotolare. Fino ad ardere e devastare ogni ombra. La voce dei sentimenti scivola in vicoli tortuosi e sconosciuti. Fino a rubarne ogni vaga ombra. E farla divenire un sole inverso. Mille soli implosi. Capaci di rubare e seppellire mille luci. Come asce.
Un lampione trema nella notte, ma non si spegne.
Fino all'alba.
E anche oltre.
Diversa è la dignità delle parole.
Quella che smargina poco e bene.
E poco e bene si adatta.
Come la pelle alla ferita.
O è la ferita che si converte in pelle nuova.
Resta sempre una invisibile cicatrice.
Il confine tra il bene ed il male.
Come se potessimo toccarci fino ad un punto.
Oltre c'è solo un mare sconosciuto.


Solo questione di prospettiva.
E io riesco solo a guardare il mondo da dentro.
Nella voce delle cose.
E non so spiegare.
Perchè spiegando mi incastrerei nei limiti.
In tutti i limiti.
Anche quelli che creo io.
Poi ho sciolto le mie trecce dentro un rumore nuovo.
Forse indifferenza.
E ho bevuto silenzio livido.
Ad occhi chiusi vedo il cuore battersi addosso.
Come se non fosse mio.
E non è tormento.
Il tempo scorre sempre uguale.
Ma non è vero.
E il dolore lo scompone.
E lo spalma in inerarrabili pause.
Io non la voglio l'attesa.
E mordo l'istante.
E affondo dentro.
Senza rabbia.
Disegno pensieri con le dita.
E ci soffio dentro.
Niente più astrazione.
La penna è sul tavolo. La lampada si riscalda nella sua stessa luce. Fuori il vento piega un tronco e gli ruba le foglie. Il pane non profuma più. Il mio the verde è sempre più giallo. L'orlo della gonna è scucito. Il mio rimmel mi macchia gli occhi. Ma non ho pianto. Ma non ci giurerei.
Ma che importa?
La vera vita è quella nella testa.
E il mondo fuori gira e gira e gira.
Non sarà il mio tacco ad infilzarlo per costringerlo ad un mezzo giro di valzer.
Ad una genuflessione.
O ad una preghiera sincera.
La misura della sincerità è la astrazione
imperfetta che consumiamo
nella nostra gola.
Mentre deglutiamo pentimento.
Assolutamente astratto.
Solo il peccato sa essere concreto.
E tu la conosci la mia perversa dolcezza.
Indecente come una calza smagliata.
Una riga che poi non lascia segni.
Nè traccia confini.
Nè margini.
Sì.
Oggi sono smarginata.
Come un succo di arancia rovesciato sul vassoio.
Mai negare l'ultimo desiderio ad un condannato.

Quando pensai che piovevano rose io immaginai una primavera, ma una primavera effimera. Aveva perso il suo profumo. Quelle del risveglio delle foglie. Senza il canto degli uccellini. E la vita a popolare i loro nidi. E non c'erano le calle ad inneggiare al cielo nel mio giardino. Solo una ostinata e temprata gerbera. Indifferente al gelo. Come a volte sento i miei gomiti.
Forse fu colpa di un ciao.
E il mondo sorrise.
Non so dove sia finito.
Forse neanche è mai esistito.
Piccoli aeroplani di carta sono le emozioni. Sfidano il vento e non sempre resistono. Tutta la furia in cui si imbattono le rendone coriandoli. Poi altro è la gioia. Della primavera vera. Quella più vera ed autentica che possa capitarci. Quando l'odore delle stelle, come una mano, buca la notte e ti arriva dritto alle nari.
Una birra ghiacciata. A sfidare il mare. E il tuo maglione. Io spensi lo stereo. E ti sussurravo nelle orecchie. L'unica musica dovevo essere io che mi affidavo a te. Come uno strappo. Una lampo. In una vita diversa. E ti parlavo e ti ridevo, mirando al cuore. Non so se al tuo o al mio. Hai mai pensato che i miei baci fossero ami di una verità crudele? Il corpo non mente. E ti bendavo. Perchè così avrei potuto cercarmi le risposte sulla tua carne. Le mie le conoscevo già. Ed io posso mettere in dubbio tutto, ma al mio cuore concedo sempre una seconda possibilità. Lo ascolto e riascolto. E poi se sbaglia non posso che perdonarlo.
Tu non lo sai.
Me lo dissero le stelle ormai sbronze.
E io omisi.
E mi presi le mie risposte mai chieste.
Mentre ti dondolavo un ciao.
Ecco, sì.
Fu detto.
Ma forse non era quello.
Non quello di prima, intendo.
A volte vorrei raccoglierti tra le braccia e raccontarti tutto. Tutto quello che non hai voluto mai ascoltare. Forse mi avresti scorta un pò simile a te. E chi ci è troppo simile non si può amare. Perchè l'amore non è una sovrapposizione. Ma il timido e impetuoso mescolarsi. Quello che ti racconterei non è una favola, ma quello che ero prima di te. Quello che mi hanno fatto. Quello che mi sono fatta. Persino quello che mi sono fatta fare.
Saresti il mio scrigno.
Delle mie verità.

Come nessuno mai.


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Sparami. Sparami dentro la bocca. E uccidi il mio vestito d'argento. La mia gonna di stagnola. Distruggimi gli alberi di natale e la stella cometa arancio. Sparaci dentro l'amore e l'odio. Voglio la poesia del tuo fiato. Il poema elettrico del tuo desiderio. Come una serie intermittente. Capace di fulminarsi come estremo atto di eroismo. E sentirmi le sue scosse, lenti e ravvicinate, nei polsi. Non preoccuparti non voglio abbracciarti. Ma solo sporcarmi della tua saliva. Il tuo fiume. Il gancio verso l'inferno delle mie viscere. Dove annego. E dove torno come una donna pesce. E là sei rimasto incastrato. Mentre io ti gattonavo davanti pudica come una lupa che si dirige al suo pasto. Una lupa sazia e crudele. Con brandelli di parole nelle fauci.
So essere peggio di quanto tu possa credere.
So essere l'incrocio tra un angelo caldo ed un demone gelido.
E tu lo devi sapere.
E devi sapere che so essere un animale.
E lo sono.
Ma solo quando voglio.
E adesso vattene se ci riesci.
Non sono il tuo peccato.
Io sono il mio.
Un peccato verticale.
Come la bava di una stella.
E' strano. Era un sogno strano. Uno di quei sogni che sembrano veri. Veri perchè non hai la percezione della confusione in cui ti aggiri. Quella che poi ti assale al risveglio. E ti resta quel senso di confusione che avresti dovuto capire ma forse non potevi. E forse quello faceva sembrare tutto un pò vero o solo un pò reale. Come una nebbia al contrario. E le cose faticano a prendere il loro posto. Era un sogno proprio così. E qualcuno ci ha ficcato dentro la mia bimba. La figlia che non ho. E sembrava non finire mai. E' stato bellissimo sentirmi ovunque istanti da madre. Quasi vera. E' stato il sogno più felice che avessi mai sognato. Di quelli che vorresti davvero fossero veri. E quando ti svegni ti lascia una speranza amara. Come una mandorla.

lunedì 22 novembre 2010

Intreccio. Tra bene e male. Tra le vene. E il male è vento. Non si posa mai. Ha mille spire. Una voce lenta. A volte si spezza in una goccia amara. E poi in un'altra. In un'imbuto. A volte è meno liquido e si fa carta, sasso e forbice. Un pò per volta. E perde sempre. Anche se sembra che vinca. Perchè nel male c'è sempre un frammento di bene. Capace di espandersi. A volte il bene è davvero un veleno che non riesci a smettere di succhiare. E' l'aria dentro un palloncino che lo gonfia e lo espande ed espande ed espande. Fino a farlo esplodere. Perchè non si trovano i confini tra una parte e il tutto. Tra il poco e il tanto. Tra l'occasione e il tempo. E quello che credevi male è solo rabbia. Ma gli altri non lo sanno. E non lo devono sapere.
Se ci pensi tutto ha una voce.
Anche questa notte.
Mentre mescola il suo profilo con la luna.
Scampoli di lontananza mi rendono meno frammentata.
E mi costringono ad abbracciarmi.
Hai occhi invisibili e pieni di nuvole.
E una voce che non è più attesa.
Ho lampi neri nella pancia. Fatti di pece e lieve ed intermittente assenza. E una indecenza tra le dita. Un fiore che sugge il vento. E io gli strappo i petali. E li nascondo sulla nuca. Come se fossero baci. Chi crede di rubare strappa la fiducia. Ma aggiunge al cuore un piccolo velo. Un velo spesso e asfittico. Il tempo lo renderà roccia. O crosta. O lana. Ho un cuore di lana, oggi. Immensamente caldo. Ha schizzi d'ira. Come un vulcano. Ma cola da ogni parte. Un cuore orgasmico. E mi raggiunge ovunque. Non posso sfuggirgli. Qualcuno la chiama perversione. Io la chiamo machisenefrega. Potete rubarmi tutto. Ma non il cuore. La mia virgola segreta.
E mi adagio contro il tuo petto.
E ti incastro la nuca contro la bocca.
I tuoi denti sono il cancello delle parole che non dici.
Le tue labbra le ali che mi volano sopra.
Perchè voglio che mi respiri addosso.
E dentro.
La tua voce è la mia luna segreta.
La virgola.
Il sospiro.
Il peccato.
La pausa.
La corda che mi strozza il cuore.


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martedì 19 ottobre 2010

Parole. Foglie invisibili. Raccolgo parole dal ramo. Frutti di luce. E buio. E le infilo nelle tasche. Parole. Collane di parole. Sul mio collo. Non sono storie. Sono mani. E foglie legate. Tra una parola e l'altra ci sono io. Adagio la mia noia e la mia calda malinconia. Stamani avevo tre parole nel gomito. Ero una. E poi mi sono tesa e protesa. Incontro all'attimo. E ne ho perse due. Mentre una nuova foglia si poggiava la le dita. Due parole. Foglie e aria. Come voltarsi. E adesso sono altra. Sono cambiata una e più volte. E così si alternano i giorni. E non è bene e male. Ma prima e poi. E poi diversamente assorta mi ritrovo diversamente uguale. Ed ogni giorno è una goccia che si apre nella terra. Ed ogni pensiero è terra che si fende e lo accoglie. Occultarsi è la prima regola. Di una solitudine rumorosa. Uno scroscio di acqua. Un torrente ed una fiaba. Una notte in una foresta di selvaggio zucchero filato. La seconda è farsi raggiungere. Farsi ritrovare. Come fiore che buca la terra e dona la corolla all'aria. Raggiungimi. Io sono una nuvola. Mai trasparente. E senza peso. Un gioco del cielo. E sentirsi soli e nudi. In una solitudine che non ha regola alcuna. Nè la prima nè la seconda. E ne inventa nuove. Come bulbi. In attesa delle cure.
I tuoi occhi erano caramelle.
Le avrei scartate solo per annusarle.
E conservarne le cartine colorate.
Impregnate di un dolciastro che consola.
Ma mentivo.
Come sempre.
E non resistevo.
E ti leccai le ciglia.
Ne strappai una.
Come se fosse una promessa.
Prima della commozione ogni desiderio è vergine.
E non conosce la bellezza della imperfezione.
L'amore è un asterisco crudo.
Sul cuore.


Una stella livida.
Mondi inquieti. Sbadigliano come bocche all'alba. Un teatro di parole. Come se dire, e dire il più possibile, sia la misura dell'essere e sigli l'esistenza. Appartenenza. L'esserci stato. Un tempo. Nelle mia parole si incardina il non essere, sfuggito come un cavallo al galoppo. La velina dell'anima, frustata dall'irruenza. Svanire come un fantasma fatto di pelle. Con una O amaranto al centro. La casella della posta del cuore. La lama squarcia la buccia. La pelle della realtà. La vita si annida negli angoli reconditi. Il mondo è tutto pieno. E' la scatola dell'anima. Delle sue forme. Dei suoi gigli viventi. Dal candore strisciante. In attesa di sporco. Delle impronte. Delle tracce. Il mio rapporto con gli altri. Mi esercitavo in dialoghi muti. Tutto nella mente. Domande e risposte. Ma poi il mio mondo si tuffa nel contatto. E la mente, quella che sento mia, mi spinge il corpo contro il cuore. Senza aderire mai. Fontana di emozioni. Non smette di stupirmi. La reazione della mente al cuore stupisce sempre. Nell'antico gioco del dare e prendere e non saper mai trovare un equilibrio. Quando non subire è una misura tutta mia. Io so quale è la sua forma. Tutto ma non subire. Non alla maniera degli altri. Ma resistere alla mia. E, anche quando tutto dovrebbe lasciar intendere che la trave lascia scivolare il peso verso il basso, arriva il vento. La scala è rossa. Cosparsa di petali. Odorosa insidia di corolla negata. Non puoi non scivolare. Anche se stai salendo. Il silenzio fa così tanto rumore da impiccare ogni picco di coscienza. La consapevolezza è nello sterzo che ondeggia. Ed il dolore si infila nell'ombra delle ossa. Appare sempre altro. Il canto dell'agnello nel giaciglio di amianto. E il poco che resta. Il tanto è precipitato in caduta libera. E' altrove. L'agnello sta respirando. Non dovrebbe. Caduta ed errore. Come piuma. Solletica il mondo. Annodo le ferite. E mi volto. E riempio di scie il senso della vita. Perchè non mi allontano. Resto.
Foderata di sangue.
E guardarti negli occhi. E sei reale. E baciarci con il cuore. Vicine e sospese. Sei qua. Davanti a me. E parlarsi è un pò facile. E un pò no. E la vita che ci avvicina e ci unisce. Abbiamo spigoli ed apici che ci intrecciano. Ma poi l'aria e il tempo ci reclamano. E ci separano. Senza staccarci. Perchè non voglio. Mai più. Sarei rimasta ore. Come su un tappeto volante. A mescolare con te dolcezza e tristezza. E a lasciarci osservare laghi negli occhi. E navigare i pensieri e il senso della intimità. Quella vera.
Mi hai fatto sentire limpida.
Non succedeva da tanto.
E poi ho una gran voglia di spiegarlo. Dirlo una volta sola. Tutto d'un fiato. Uno sputo d'anima. E non ripeterlo più. Forse per assolvermi. Ho preghiere fatte di radici. Non voglio urlare animaebalocchi. Solo bolle di sapone. Le mia labbra sparano bolle. Barcollano sul mio letto. Come pensieri. Le sputo solo per vederle brillare. E sorrido. So vederle le cose. Ho imparato con il tempo. E' come poggiare mattonicini. Uno sull'altro. Piccole pile. Divoratempo. Voglio vedere. Per l'ultima volta. Dietro e dentro. Oltre. Oltre le cose. Là volevo arrivare. Là aspettavo. A questo punto. Che poi è quello. Oltre la dignità. E il grillo canta. E anche quella è una stronzata. E mi sono persa. E adesso io non so davvero più tremare. Anche se dovrei. Tutti i miei brividi si sono persi in un campo. E là sono rimasti. Con il grillo. Almeno uno è divenuto seme. Ed albero. Si chiama ricordo. Il brivido del silenzio. Ha rami fragili. Rubano carezze al cielo. Ma con attenzione. Sono figlia di un inverno lungo. E la sua coda è immersa nella neve. A fondo. Sotto.
Ma la mia memoria è sporca.
E non so ricordare.
Senza rami.
Sono foglia senza rami.
Ho uno e mille nomi.
Ma non servono.
Perchè sono tutti sbagliati.
Nessuna parola può spiegare.
Vorrei solo che tu mi ingoiassi.
Aprissi le tue braccia e mi stritolassi.
E poi mi nascondessi dentro.
A fondo.
Dove non servirebbero le parole.
Per dormirti nella pancia.
Fino alle tue viscere.
Ed annodarmi.
Come una donna pesce.
Senza cuore.
In momenti come questi avrei bisogno di parole nuove. Musa di latta. Strappo la pellicola del cielo. E inzuppo veline. Incanto e dolore. Stupore e candore. Neve. La coperta del mondo. La gioia di una vita che buca la coltre dell'impossibilità. Come una margherita in inverno. Nuda sul suo stelo. La meravigliosa magia di una stella nel gomito. Come se mi fossi spalmata cielo sulle bracca. Mentre è solo che ti penso. E ti penso. E mi sdradichi e mi abbracci. E la neve sorride muta. Tanto coprirà. E tutto passerà. Vorrei un pugnetto di parole diverse. E la magia. Forse un suono inaspettato. La gioia in fondo al cuore. Si adagia e scende e scivola. Una cordicella sottile e morbida. Parole leggere come palloncini. Senza direzione. Capaci di sembrare lontane. Come se fossero mai ascoltate. E di volare. Come se per la prima volta si schiudessero alla luce. Piccola bocche a caccia di aria. Dove i graffi sembrano righe. Pieghe in una seta scompigliata. E morbida. Capace di avvolgere. E lasciare scivolare tutto. Senza allontanarsi per sempre. Solo si spostarsi. La giusta misura. E' solo quella del cuore. Poi basta infilare le mani in tasca e accorgerti che non è cambiato nulla. Come dopo la pioggia. Hai solo un cielo più pulito. E neanche più righettine.
Neanche me lo ricordavo più l'azzurro.
Poi nel buio inciampo nelle tue labbra mute.
Al confine con la tua idea.
E mi muovo.
Ridicola come una filastrocca antica.
E come un sasso impregnato di tempo.
Immemore e asciutto.
Nella oscurità lascio oscillare la tua idea come una strofa.
E mi piego nella poesia del tuo battito misterioso.
Per sconfiggere il freddo di una margherita in inverno.
Aeroplani e molliche. E il mondo si copre di briciole. Forse ricordi. Piovono ricordi. O solo sensazioni che grondano di passato. Del segno che il mondo ha lasciato. Pezzi di un pane immenso. La verità è nella scorza. Non nella mollica. Di un cuore smangiato da un battito avido ed impertinente. Non tace. E contina a contare. E a spezzettare numeri. Sinusoidi che affondono. In picchiata libera. Come viti. Per unire. Ma prima sfondare. Mentre tutto si perde. E non ho pezzi da ricomporre. Solo frammenti. Schegge sperdute. Non è dolore.
Sento il cuore che si lecca le vene.
Sta per mordere.
Per recidere.
E navigo come un'alga. E segno su un polso gli appunti dell'anima. Le sue confidenze. Una croce e tre stelline. E una macchietta. Non è sangue. E' cioccolata. La mappa del mio delirio. Carne e cioccolata. Così colo.
Sento che il cuore lecca le vene.
Tutte quelle che può.
Nelle scie sente di esistere.
Esistere più che può.
Più che si può.
Aeroplani e sogni tra le molliche. Basta un soffio di vento. E i ricordi odorano di pane sfornato. La verità è oltre. Oltre la corteccia e oltre la mollica. Come una pietra preziosa. Nascosta. E io sono la tana golosa. E il cuore è integro. Ha smesso di cercare parole e numeri. E sta cantando. Puoi sentirne la voce. Sembra paura. Ma è un frammento che ha smesso di sentirsi tale. E si è levigato. E ha tessuto le sue vene come un'arpa giuliva. Ascoltalo ma non credergli.
E il mio cuore naviga.
Ha onde fatte di ripensamenti.
E resiste.
Perchè sta battendo.
E battendo il tempo.
Nella sua rete di cioccolata.
E se ne frega del resto.
Oggi c'era il sole.
Non so dare agli altri nulla di concreto. Nè a chi mi ha fatto male. Nè a chi mi ha voluto un pò bene. E tutto nell'astrazione sembra sconfinato. Diverso. Anche le parole che non uso più. Come se qualcuno le avesse marchiate di passato. E mi spaventa la loro erronea ed errabonda appartenenza.
E adesso sono cenere.
Ci vorrebbe un altro soffio di vento.
Per voltare la pagina.
E averne una candida.
Nuova delizia da sporcare.
Ma prima dovresti cercare le tracce del peccato sulle mie labbra.
Blu.
Come una fiaba.



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E poi il mare bacia ogni mia paura. E mi stringe le mani. Mi graffia con le conchiglie. E io le scanso. Nessun naufragio. Forse se poi la zattera è fatta dei sogni, resiste. Perchè è più leggera di ogni inquieto mareggiare. Ondeggia e trema. Ma riesce a sconfinare l'abbandono. Credo che sia il momento peggiore. L'istante in cui la nostra vita si biforca e viene investita dal gelo del vuoto. Troppa aria. Raffiche di solitudine. A volte mi soffermo a cercare di sentire le cose. A cogliere l'onda, oltre l'urto. In una riva disseminata di domani. E il mare è là in maestosità modesta. Semplice come la vita. Neanche spaventa. Non sempre. Basta smettere di pensare e lasciarsi andare. Lasciarsi scivolare nella scia del calore dell'aver vissuto. Di qualcuno prima. Come se ci fosse un solco. Del calore già provato. Il mare bacia la terra. A modo suo. A mondo suo. Forse neanche glielo hanno insegnato. La bacia senza permesso. Arriva e prende poco. O forse un poco che è già tanto. E questo non gli impedirà di devastarla. Fino alla bufera. E sarà comunque amore. Fino alla nuova pace. Nell'alternanza tra la quiete e il caos. Strati irregolari che si adagiano al mondo. E forse il segreto è saper trattenere il fiato fino allo strato successivo. All'onda che si infrangerà e dopo liscerà tutto. E il mare è qua. Nella mente. Con il suo odore di lontananza. Nelle orecchie la sua voce lenta. Di specchio tremulo delle stelle. Di cielo inverso. Di campo azzurro di acqua e luce. Bacia e morde. Quel tanto che sa far male. Per poter contemplare subito dopo lo stupefacente impatto con la tenerezza. Prima spiana e poi si adagia. Ma non cancella mai completamente i solchi.
Ho cercato di spiegarti.
Io non amo da farfalla.
Amo da lupo.
Amo scalza.
Con i miei morsi nudi e lenti.
Mastico conchiglie.
Non so volare.
E mi riempio il cuore di terra.
In attesa dell'onda.
Per ritornare fango.
Precipito in corridoi verticali. Avevo dimenticato le stelle. Le avevo spente. Schiacciate contro i vetri. E mi cospargevo le mani della loro cenere. Solo per lasciare la loro scia. Per disegnare nel vento. E scrivere una storia. Di polvere di stelle. Sarebbe bastato un soffio. Avevo sbriciolato il cielo. Ed i suoi ganci. Arpioni per la dignità. Il fodero della mia anima. Perderla era stato facile. Come sfilarsi la maglia. E morire di freddo. O solo indossare uno strato di gelo. Scivolo e mi ascolto. Tunnel di scontrosa assenza. Ci vediamo con gli occhi degli altri. La vocina ripete che è troppo. Tutto è davvero troppo. Nell'aria che fa da controlimite. Forse da vuoto comodo in cui adagiarsi. Ed aspettare. Se ci fosse il pieno farebbe male. E a volte cercare di non accettare è il dolore più grande. E si soffre nel tentativo di ripararsi dal dolore. Sotto l'ombrello del giudizio. Ma il mondo è pieno di frutti e di amore. Deve essere così. E' un campo che freme. Diffido di esaltazioni della gioia. Io quando la sento la raccolgo e la stringo forte. La tengo tra le mani. Come una rosa. La gioia è il fiore invisibile che dal cuore si apre nelle mani. Si schiude e il suo profumo ha mille dita. Carezze invisibili. Un ventaglio di petali e di anima. Sotto il velo del pudore. E il resto sono tentativi. Ventagli che ancheggiano. E si ritraggono. Diventeranno fiori. O solo la loro ombra.
Ho insistito.
Ho urlato tante volte il mio nome.
Non ne avevo.
Urlavo il nulla.
Rimbalzava come una pallina disperata.
Adesso ridisegno le stelle una per una.
Capelli del cielo.
C'è il mio sangue nelle mie parole.
La scia liquida della mente.
Roba da macelleria.
E il sapore dolciastro della tristezza.
Non è giusto.
Ogni volta che ci neghiamo la gioia sgozziamo un fiore.
Era il trofeo. La mia follia. Per asciugare il mare. Il cappotto di parole mai dette. E assaporare gli schizzi del mio delirio. I liquami dei miei fiori di sangue. Dei soliloqui urlati alla luna. Volevi spingerti là. Proprio là. Sotto la coppa vuota della luna. E lasciarmi sfumare. Come buio alla luce. Quando ognuno sente tutta la potente voce del sole. E si sente redento. Baciato dalla bocca giusta. E là sul bordo del mondo andare via. Con le mie ciglie nella tasca. E il rimesso sul cuore. E io mentre la luna si spegnava avvertivo tutto il peso immane. Del mio essere strana. E mi intrecciavo al castagno. E mi facevo ramo di frutti piumati e cinguettanti. Era facile giudicare la follia. E scapparne. E sembrarne migliore. Troppo facile. Andare via e graffiare il muro per cancellare il passaggio. Me lo ha detto la luna. Mi ha chiesto di continuare ad essere. Quello che capita. E di non avere forma. E di non avere paura a lasciare follia sulle foglie. Sacchetti di follia pura. Come rugiada al mattino. O come coltello nell'aria. Per scavare forme. Anche se avrebbe allontanato gli altri. Gli avrebbe donato il dono sublime e grandioso della saggezza e la bellezza del loro pontificare. Parole su parole. E aloni di disprezzo. E' facile senza cuore sembrare migliori.
E io sono e resto quello che capito.
Rigurgito di luna pazza.
Bottone stridente.
Ma me stessa.
Senza forma.
Come la verità.
Condannata alla peggiore solitudine.
Quella di sfiorare gli altri.
C'era una luna amara in cielo ieri.
Esattamente quello che detesto, l'amarezza.
Il velo di un lutto inesistente.
Non è facile trasferire il proprio mondo fuori. Come se vivere sia donare. Gestanti di sensazioni erranti. Moods. Occasioni del cuore. Spigolo fragile. Scivola e si sdraia come un prato. In attesa. Tremolante come la fiamma di una candela. Incastri dell'anima. Si incuneano nel mondo. Nelle cose. Le dipingono. E ti ritrovi, quasi per caso, in un'aurora assordante. Bella da imbarazzare. Senza limiti. Perchè il limite è nei propri occhi. E tu non stai guardando. Solo sentendo. Senza conoscere il punto esatto in cui il sole inizia a baciarle il cielo. E ad allontanare la notte. Lo fa da sempre.
Ma oggi quell'istante è tuo.
Inconsapevole è il nostro continuo essere teatri di albe e tramonti.
Piccole case del sole.
Tele avide di nuovi colori.
Dentro di noi ci sono infiniti mondi.
Mille soli e mille lune.
Esplodono e splendono in una inconsapevolezza che si chiama respiro.
E' strano pur essendo normale.
Ed in realtà era normale anche ieri.
Ma non lo sapevi.
Ed è bellissimo.
Senza un motivo.
Non hai sentito nè l'ago nè il filo.
Nè il lembi della ferita che si avvicinavano.
Divenivano ancora carne.
Quasi la stessa.
Nella distesa della voglia di gioia.
E quel piccolo fiume scorre sotto.
Sotto due mani che si intrecciano.
E le mie braccia sono vicine vicine.
Per non perdere neanche un istante di questo lieve tepore.
E adesso chiudi gli occhi e ascolta il mare.
Piccolo dio invisibile.
Devo smettere. Ed essere spietata. Intervallo o intermezzo. Spezzo nuvole. Devo concedermi uno strato oscillante di semi incoscienza. Devo smettere di inseguire il senso. E perderlo perchè l'ho cercato troppo. E troppo ancora. E di contenere il tempo. Solo per perderlo. E nelle conchiglie deposte sul mio grembo ritrovo la tua voce. I suoi vortici di foglie in autunno. Zeppe dell'odore della terra. Quella che sfiorano. Dalla quale rubano veli di malinconica resistenza. Devo. Le tue risate. Timide gocce trabordanti di fiume. Le tue carezze. Piume segrete sul cuore. E frammenti lievi ed inesatti di ore. Devo. E parole. Come se le dita urtassero contro l'infinito. Là spingessero e poi fossero costrette a ritrarsi. Sul bordo di una ferita, senza sangue. Senza toccarla mai. E così dilatandola. Rendendola lunga come una scia. Devo. Smettere. E' così che si disegnano pensieri. Con le dita della mente. Tentacoli del cuore. La gabbia della gioia. La piovra che dentro di noi si adagia e si stiracchia. Le canterei una ninna nanna ora. Smettere. Una di quelle che mi ripetevo da piccina. Una catena di segreti e di invenzioni e di gelatine alla fragole. Nessuna bestia resiste alla dolcezza. Almeno per qualche istante. Poi deve fare male. E io mi sveglio. Devo. Perchè resistere è varcare una soglia invisibile. E le conchiglie sono sul pavimento. Come se il mio letto fosse una zattera. E non ho paura. Basta infilarci le dita dentro. Nei piccoli abissi che nascondono. Fluttano le tue parole. E nessuna piovra può resistere. Nè naufragare. Neanche il mio cuore. Perchè alla fine è il corpo che subisce languida e tenera commozione. Nella sua memoria interrotta. Senza fiducia. Si dimenica di sè. Per diventare. Forma. E senza credere. Al tempo. E alle sue volontà. Mille e una. Sì. Devo smettere. Lo spazio è inabitato. Senza confini. Smettere.
Piccola gioia.
Dea dell'istante.
Plana.
E di bellezza e incostanza imbrattata.
Non nasce dalla conchiglia.
Ma dalla pietra.
E dai graffi del rimpianto.
Specchi per caso.
Ladri di luce.
Dove peccato e promessa si confondono.
E si perdono.
Isolo il vecchio e il poi.
E mi trattengo nell'istante.
Che non si trattiene in me.
Qui e adesso.
Nell'attimo incauto in cui lo stupore un pò freme di sdegno e delusione.
Prima di adattarsi nella vita.
E un pò si trofina.
Al tronco di un albero astratto.
Per dimenticare.
O solo per ritrovare calore.
L'alone del tocco primitivo.
Prima di ritrarsi.
E slargarsi in un sorriso.
Perchè è così che deve andare.
Doveva e deve.
Da un sempre che si sperde tra bolle di sapone livide.
Bolle respirate in prestito.

Piene di silenzi asimmetrici.
Senza rimpastare sensazioni.
Solo estraendole dal vivere.
Dove sono.
Sono sempre state.
In quello stesso sempre.
Ricami di merletti e pizzi sotto la pelle.
Rendono ogni tocco insopportabile.
Fino al punto giusto.
E i sensi sono la mappa.
Per ritrovarle o solo per sperderle.
O solo per poterli vedere.
Dopo l'attimo.
Nella proporzione della coercizione.
Quella del giusto equilibrio.
Dove la disarmonia non ha regole.
Nell'unicità del tocco e della voglia di continuare.
Perdonare prima della vendetta è tagliare le ali ai calabroni.
Accettare il caso come sempre e solo caso.
Come l'orlo liscio di un bicchiere.
Ignorando se è pieno o vuoto.
Perchè non si ha sete.
Ridimensionare e voltarsi e ricominciare.
Non è una regola ma una scelta.
Senza crocevia.
Perchè l'anima non ha incrocio.
E' una linea.
E' una retta che si spinge.
Come una freccia.

La chiamano catarsi.
Io ti chiamo sogno morbido.
Come una sciarpa che copre.
Riscalda e tocca piano.
In punta di dita.
Morbido come il profumo della vita.
E dell'aria.
La chiamo adesso.
Il pallido tentativo di usurpare il sempre.
E lo sussurro.
Sul tuo collo c'è il mio respiro invisibile.
Di una nuvoletta perversa.
E ci muoviamo dentro immense bolle.
Dentro sfere in cui l'equilibrio è fragile e tremulo.
In contromovimenti che ci vengono spinti addosso.
Ed ogni nostro spostamento ha ripercussioni e somme e sottrazioni.
Nell'asimmetria del respiro.
E ci spingiamo i cuori contro.
Ad urtarci la pelle fino in fondo.
Lasciandoci lividi e carezze e tagli e baci di anima.
E l'attimo è così fragile.
Ma così denso.
Non possiamo permetterci di restare immobili.
Segreto arancio.
Succo di vita e di diversità sommessa.
Forse era sole.
E poi non solo luce.
Ma anche fuoco.
In corde.
Ed intrecci inspiegabili.
Delizie dietro spigoli.
Come caramelle dagli sconosciuti.
Il bello è scartarle.
E non lasciarle spaccare sotto i denti.
Torna il colore.
E il palpito del guizzo.
Il battito nascosto nei polsi.
Oltre il disprezzo.
Inspiegabile cumulo di errori.
E dolci stelle pazze. Immensamente pazze. Come se la pazzia fosse la misura del non averla. Sotto il soffitto ad inseguire graffi. Forse percorsi. O solo sporadici pensieri. E nei muri sentire la vita. Quella che ci ha preceduto e quella a venire. Mai l'adesso. Perchè i muri sono i testimoni pregni dell'oltre.
Timidi esplodono.
E in ombre si genuflettono.
Prima del giorno.
Trepidamente atteso.
Come se fosse essenziale separare la nostra memoria.
Da quella degli altri.
E spogliarsi dai sogni indotti.
Nudi sotto la luna.
Ed essere dove vogliamo.
Nella culla della memoria.
E' quella la verità.
Incontrarsi è solo riconoscersi.
Annusandoci l'ombra.
***

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Non c'è nulla di più sporco della ingiustizia. E non ha neanche senso di fronte all'orrore, quello che mette in forse la nostra precaria umanità. Animali con un'anima spersa. E a volte sbuca come un gioco di prestigio. E c'è sempre il trucco. Ecco quello che sembriamo. Animali senza l'inconsapevolezza. Questi sono giorni in cui morte e dolore nella bella Italia si sono accavallati. Sommati e sminuzzati. Dove tutto deve essere di tutti. Senza rispetto. E tutti chiamano per nome una povera bimba che è morta e questo fa schifo. Uno schifo immenso a cui non sappiamo dare un nome. E un nome non c'è. E noi continuiamo a chiamarla per nome. Perchè la sentiamo una di noi. Una figlia o una sorellina o una amica. O solo una nipotina ideale. Ma poi tutto non deve essere di tutti. Ma forse ieri, doveva. Ma oggi un limite ci deve essere. E dove cazzo è il limite che ormai lo abbiamo perso. E lo stivale ed i suoi pezzetti non sanno neanche stare insieme. E' che ci manca lo sdegno ormai. E se ci fosse, quello dovrebbero essere di tutti. Come un seme da mettere in cuore ai nostri figli. E ci commuoviamo a tratti. Per rigirarci e continuare. Nell'Italia dove tutto sembra normale e se anche non ci sembra lo diventa. Viene lisciato dalla parvenza del "è successo". E ci raccontano le favole. Favole senza lieto fine. Anzi, senza nessuna fine e nessun fine.
[Oggi è il giorno in cui persino l'anima della regina delle lagne ha sussultato.
Capita.]
Ed è per questo che spesso devo prendere le distanze. Dai miei pensieri. Corde invisibili. In una giungla fragile. Dove la realtà non c'è. Perchè nel frattempo io sto vivendo. E riempio le giornate. Le riempio di azioni. Serie di atti in cui non manca la consapevolezza. Perchè sono anche là. E là respiro. E a volte là desidero e sogno. E sogno concreto. Non come nella giungla. Dove sogno sensazioni. E di continuare a provarle. Ma hanno un pensare diverso a riempirle. E sa assediare. E circumnaviga come un galeone invisibile. L'isola fantasma. Di un tesoro sperso. O solo da comprendere. E quando i pensieri avanzano l'unica sensazione è l'estraneità. Fuori dall'autunno che stria l'erba. Perchè fuori l'autunno avanza e si espande. Mentre dentro ho estati che fanno l'amore con inverni gelidi. E diventano caldo o gelo. E di continuo si inseguono. E' così che è ripreso a tremare. E il prato spento nasconde il mio gatto ed il suo manto. E la sua selvatica indipendenza. Miagola a scandire il tempo. Piccolo metronomo di pelo e fiato. Con le sue fusa selvagge ma dolci. Se trovi un pezzo lo stesso deve fare parte di un tutto. Di una interezza che da qualche parte esiste. Di un gancio che unirà. Ma bucherà e farà male. Perchè deve unire. La incoscienza alla coscienza e al suo rotolarsi. E muoversi di istinto. E di istinto fermarsi. Quando è il momento giusto. Non abbiamo nulla da insegnare. Solo da imparare a vivere. Senza finire mai. E ritornare sempre.
Perchè non si scappa da se stessi.
Soli di cuore costretti a sorgere ogni giorno.
Io posso perdonare tutto.
Ma non tutti.
Ogni volta che ti penso mi sporco di terra.
Come una donna radice.
Un tempo, fiore.
Con la sua scia di petali.
Nel vento.
Il tempio della idea. L'urna rorida. Quasi una culla. O il grembo dell'amore dannato. La pioggia e l'albero. E l'albero nella pioggia non resiste. Si apre all'acqua. Come un ombrello al contrario. Come una mano di foglie. E intanto il mondo sotto è asciutto. E il non senso nel suo campo. Sterminato. Senza ombra nè pioggia. Non essere compresa. Macchiata dal silenzio. La voglia di scivolarsi in fondo. Fino in fondo. Detesto la artificiosa semplicità. La peggiore finzione. La pioggia finta che non tocca. Non bagna nè disseta la terra. La idea è nel tempio. Perchè sentirsi è attraversarsi senza dita. Come fili di luce. Senza mentire alla pelle. E alla sua voce. Il campo del non senso si agita. Ha sete. Vorrebbe che l'albero si spostasse. Per poter bere. La mia voglia di silenzio ha il tuo nome. E chiede al vento di sorpassarla. Per fargli da scia. Ma quello che sentiamo chiede al mondo un piccolo palcoscenico per lasciarsi capire. Perchè se fosse tutto incastrato nelle ossa che senso avrebbe? Solo perchè ha il destino d'ali. E il cuore tra le ginocchia?

Per questo ti sfioro le dita.
E me le spingo addosso.
E contro.
Perchè la mia pelle possa sussurrarti quello che la mia voce non sa.
Nè sa più dire.
E il vento è ancora indietro.
E non mi ha ancora sorpassata.
Ho una scia di vento.
Come la coda di una sirena invisibile.
E il limite non è il muro.
Nè l'errore.
Solo l'impudico urto del limite.
Ed il reiterarsi dei giorni.
Come se fossero parole.
Avvicinati e mischia la tua pelle con la mia.
Come se fosse ombra.
Ho tutto questo cielo da dividere.
C'è ancora il graffio del volo di un uccello.
E l'odore del suo canto.

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E poi ho paura a farlo vedere il cuore. Quello vero. Quello che non trema più sotto questa sporca solitudine. E a volte emerge. Dalla sinapsi spenta delle mie parole monche. Monosillabi. Spesso negazioni. E il cuore, come l'amore, richiede pudore. E ti giuro sto tremando ancora mentre scrivo. Quello che sai. Ma che non ti dico. E mi lascio andare e nei tuoi occhi trovo tutti i segni del tempo e te in loro. E io dentro di te e nelle tue braccia e nell'incavo della tua spalla. A scavalcare le paure. Dune di realtà e di pane. E mi ritrovo immensamente piccola e di contro con troppo tempo e peso addosso. E forse si chiama vita o paura. E i baci impiccati e gli abbracci che non ho più saputo chiedere. Come se il rancore avesse avvolto il cuore. Quello che adesso trema e ha paura. Come se fosse troppo tardi. E vorrebbe, e, maledettamente, vuole, trattenerlo questo istante. L'attimo onnipotente. Come l'amore. E poi nessuno capirebbe. Nè sa. E la paura e i rimproveri urlati. E il maledetto orgoglio e le chiavi di casa. La toppa troppo piena. Per spiare e per aprirsi. E le lacrime sul legno. Righe di una solitudine che ha modellato una donna. "Il mio pulcino" dicevi. E io ti odiavo. Di un odio labile come velina. Perchè ero donna. E della tua carne sopportavo l'impronta. Troppo profonda. E non sapevo che conservarla era amore. Non lo sapevo ancora. Ha resistito. E oggi nei tuoi occhi annego e cerco le pupille per intrecciarle. Ancora. Nodo di amore. E sono un pezzo tuo. Più che di ogni altro uomo.
Forse accadrebbe. Potrebbe. E la condizione è l'aria spostata dal vento. In attesa della fine che le dia una forma. Perchè nel vento siamo creta. E riusciamo persino a dimenticarci il sangue. Ed è così che ci sembra di essere unicità. Perchè l'appartenenza è la fame che ci sbrana. E il pendolo baratta fatti con i pensieri. Ecco perchè ci riempie di ipnotica assenza. Come se fosse un vento sintentico. Ma tutto torna e niente si disperde. Il mondo è avido e reclama sempre. E poi presenta il conto. E nell'avvicendarsi perdiamo sempre un pezzo. E forse è questo che ci rende più leggeri. O solo diversi. In quella perversione della realtà che si chiama cambiamento. E ci fa sentire migliori solo perchè abbiamo regalato pezzi. Gli stessi che poi continueremo a cercare.
Ci sono ascensori che si spalancano sull'ignoto.
E tasti che ti lasciano scivolare su mondi sconosciuti.
Sliding doors.
Il tempo è una alchimia che ti modella la vita. E il nostro respiro si traduce in numeri. Se cambio le vocali non c'è solo un gioco di lettere. Nella convenzione che chiamiamo parole. Le parole sono un artificio. La mediazione tra la mente e la carne. Conta quello che c'è dentro. Nel punto in cui il pensiero deve impattarsi. In cui sgorga. E in cui confluisce. Perchè io penso liquido. Come se avessi rugiada in prestito. Ecco vorrei dirtelo. Da tanto tempo.
Se mi bendi quello che vedo non cambia.

Io ti racconterei il mio mondo e tu vedresti con gli occhi che ti ho rubato.
Finalmente.
Forse potresti, ed io sono la condizione, afferrare il mondo con i sensi.
Sono una gatta con le unghie spente ma sincere.
Bagnate da una memoria inversa.
Ma di fronte alla mia ciotola non mento.
E non è cambiato nulla. Ma è come se fosse cambiato tutto. Perchè all'improvviso tutto è diverso. E non te ne accorgi, lo sai. Senti il cambiamento. Perchè è così per tutti. Afferrare il nastro e lasciarsi scivolare la mano. Senza sentire il taglio. Fieri della impronta che lasciamo. Della piccola linea di sangue che macchia. Perchè una macchia è meglio del candido nulla. Una piccola scia che attesta l'esserci stati. Un segno della esistenza. E dell'esistersi. Mentre stiamo facendoci battere il cuore in un mondo pieno di infiniti battiti. Forse echi. E solo diversità apparenti. Ho pensieri a spicchi. Come una arancia timida. Dai mille suoni segreti e liquidi. Forse succhi. E nel mio occhio destro ho il grido di mille ulivi nella notte e il loro ondeggiare. Foglie di argento che si protendono verso l'alba. Intanto ti raccolgo in un cesto. Insieme all'odore dell'autunno e delle castagne. E' impregnato di mosto questo cesto. Anche se è nascosto dalle bucce. Sincere come le arance che custodivano. Perchè è il pensiero che ci rende meno soli. E troppo poco vicini. Distribuisce assenza e la colma di speranza. E attese. Nelle tasche della mia giacca. E nel mio spacco. Dove ti infilo. E faccio incetta di attesa. E ogni tanto ti ritrovo. Non c'è centimentro che fenda questa assenza. Di una dolcezza che non è di miele. Ma esattamente dolce. Tanto da non sembrarlo. E limitandosi ad essere vera. Come la fiera come la voce degli ulivi che mi lacrima. Dall'occhio sinistro. Esattamente in direzione del cuore. Piango asimmetrico ed obliquo. Così tutto scivola via. E oltre la realtà mi srotolo in parole. E a volte alzo la mano. Come per salutarti. Così per caso. Sì ogni volta che una donna ti saluterà, come per caso, pensami. Pensami, perchè lei mi sta portando da te. Il mio piccolo soffio di vento. Tra donne succede. Di rado. E con la parsimonia del passato e della lealtà. Dell'odore della terra. Di essere solidali e sorelle invisibili. Di sapersi comprendere. E di sapersi prestare il cuore. Nel silenzio. Ci si vuole bene in modo invisibile. Come è invisibile l'amore. Ma pochi lo sanno. E sanno resistere al buio.
Non basta aria fresca per sentirsi liberi.
Nè il volerlo dire al mondo.
Perchè liberi non si è mai.
E questa notte sta scivolando via.
E tra sbagli e sbadigli mi conto le impronte.
Io sono una cartolina naif.
Della città e le sue strade che ti accolgono e ti sperdono.
E ti ricoprono di polvere.
E della campagna che tu spogli tra alberi e vento.
Solo perchè non resisti alla terra.E quando questa notte sta per finire chiamo a raccolta le stelle.Tra le mie lenzuola calde.
Perchè io non conto pecore, ma stelle.
Con l'unica paura che gli occhi si richiudano al giorno.
Senza esserci guardati davvero.
No. Non leggermi. Non devi più. Non leggermi perchè è così che potrai comprendere. Forse comprendermi. Nella distanza. Quella con cui riempio lo spazio tra me e gli altri. Dove il silenzio è fatto di parole morbide. Parole e virgole di burro. Per scivolare tra le pieghe del silenzio. Tu non leggere le mie parole. Sembrano bolle di sapone. Ma sono piccoli squarci dentro il tulle della mia gonna. Buchi neri dentro la mia anima. Se ci infili il dito toccherai il prato in cui sogno di dormire. E poi dormire. Ed al risveglio non ricordare di aver dormito.
E afferro i lembi della notte e li scuoto.
Lo faccio spesso.
Anche di giorno.
Come se la tempesta dei miei sogni divenisse onda.
Fino a te.
Tanto non sentire nulla.
E poi di torbida dolcezza mi volto.
E sento un arcobaleno increscioso.
E colori che reclamano lo spazio.
Come se mi giacesse un frammento sperso di stella.
Dentro.
Una stella di carne e sangue.
E dentro, proprio dentro, pretendesse il cielo.
Mentre è tutto buio.
E con le sue pretese mi spingesse oltre.
Solo per spingersi fuori.
E oltre di me.
E la luce squarciasse il buio.
Sono il suo fodero.
Di una stella e dei suoi sogni.
Perchè una stella sogna di splendere nel cielo.
E se non lo trova lo inventa.
Laddove c'è una pianura inversa.
E le radici assediano la luna.
E sento il liquido morso della solitudine.
La voglia di essere compresa.
Per questo non devi leggermi.
Ed è così che ci si dimentica.
Tra strati e solchi.
Solo per sperdersi le tracce.
In deserti artificiali.
C'è una oscenità che è tutta coperta.
Ma senti freddo lo stesso.

domenica 23 maggio 2010

E io la conoscevo quella favola. E la inciampavo. Solo per ricominciarla. E per vedere gli occhi che si facevano fessura. E poi gustarne il gusto e lo stupore. Il piccolo guizzo rapace che si sporgeva dalle pupille e si protendeva paurosamente verso le parole. Per assaporarle fino al centro di un vago e presumibile significato. E senso. Il senso delle parole è deliziosamente indefinito. Lento. E a tratti assale. Come lo stupore quando mordi un frutto nuovo. Non sai se concentrarti sulla polsa o sul sapore. E ti perdi il succo. Ne trovi traccia dopo. Quando il sacrifico è compiuto. E pensi a quello che sarebbe stato. Se quel misero sangue di mela non fosse stato perso. Oggi ho sentito il passato nella testa. E sono rimasta sospesa tra la scatola cranica e il mio corpo. Con una assurda sensazione di inutilità. Troppi movimenti inutili. Per poco pensierio. E le parole non erano parole. Contavano gli occhi. Quando io voglio davvero bene, in momenti come questi, sono distante. E non ho scrigni o confessioni. Sono solo un fantasma evaso. Una senza dimora dell'anima. In cerca di un sasso su cui poggiarmi. E ricominciare a respirare. Come se fosse avvolgere tutta la distanza ed il non detto che mi circonda. Non è un segreto. E' placida astensione. Quasi angoscia.
In fondo per volare bastano solo due ali nella testa.
Come se fosse tutto oltre. E io aldiquastrettastretta. Stretta. E le gambe a far da culla alla mia testa. Io sono qua. Siamo il miglior cuscino che ci è concesso. Un cuscino tenero. Con un cuore che batte dentro. Come se il mondo, il mio piccolo mondo galleggiante, fosse nei miei talloni. In sospensione. E mi abbraccio. Sono embrione in cerca di pace. Io sono qua. O forse paura. O solo bozzolo silente ma gravido. Provvido di futuro. O nodo d'amore e odio. Mai equidistanti. Io sono qua. Le oscillazioni mi danno il senso dell'equilibrio. E io lo perdo. E ho la chiara percezione del salto. Una dimensione approssimata. Ma spalmanta sulla pelle sembra esatta. E l'attesa dello strappo me lo fa desiderare dannatamente. Nel baratro. E tutto è aldilaancorastretta. A cercare le risposte. Come se fosse carezze. Mentre sono pizzicotti. Io sono qua. E un pò mi slego. E mi slargo. E stingo. E bacio la placenta benedetta che mi avvolge. Sempre più lontana. Era la carezza silenziosa. Ma spontanea. La voce liquida di mia madre. Io sono qua. Perchè ricomprendere è non perdere nulla. E quello che si dona non si perde mai. Anche se non sembra amore. Lo è comunque. E ha altri nomi. Io lo chiamerei Gastone. E lo accerezzerei come un gatto. Una ciambella di peli. Mi ronfa sotto la mano. Ma sono qua. Guardami.
E mi rotolo e srotolo.
Come una pergamena stinta.
Voglio essere letta.
Ma non compresa.
Solo presa.
E masticata come un'ostia.
E dicevano che fosse peccato.
In un confine leggero. Impercettibile ma affilato. Il sonno mi scivola nel lobo. Sonno liquido e infido. E poi mi parla. Ma non è delirio. E' pensiero in gocce. Come un medicina. Le conto e nei numeri mi adagio. Ma non sono mai esatti ed evaporano. Rugiada. Qualcuno ha detto che l'anima è un fiore. Un fiore delicato.
Legami al gelsomino.
E lasciami là.
E dimenticami.
Senza abbandonarmi.
Voglio diventare ramo.
E fiore.
Quello che resterà di me dopo sarà il mio odore.
Nella testa.
E la passione si veste di pelle inesatta e di una maglia rossa. E volteggia. Coro feroce di erinni. Stanche e disilluse. Non hanno più denti. Folle tramonto cruento. Prima di sdraiarsi nel letto della notte. Stria con le sue mani il cielo. A scompigliare le nuvole. Ma ha mani fragili. E si divente a svolazzare con le sue ali perverse. E non è abitudine ma turbamento puro. Purissimo. Così tanto da sembrare inesistente. E ti fa annegare le pupille dentro. Senza diritto di replica. E per un istante senti respirare il Sole. Tutto Intero. Un Sole a Picco. Dentro. Nella pancia. A tentare di splendere. E gioca a nascondersi. Sotto la maglia. E mai a scoprirsi. Senza lasciarsi mai guardare. Nei suoi occhi equivoci di sole. Per comparire e ricomparire. E farti vomitare albe e tramonti. Non è un fantasma. Ma un leggero morso sul collo. Quasi sembra bacio. Rosso e bugiardo. Assolutamente umido. Una Nebbia Rossa. Tutto può essere. Ma non l'indifferenza. Quella fatta di buio. E di distanza. E tu lo senti quando arriva. E tutti che ti ripetono le tue sensazioni sono una inondazione di cavallette. Prefiche vaganti e liquide. Antico veleno. Conservato nella corolla. Di un una Rosa Nera. Si mimetizza nella notte e nelle sue tende. Ma quando torna il Giorno non sa spiegare il senso. Il suo. E tutto il resto. Ecco, io ho una rosa nera al posto della bocca. E ho paura di avvicinarmi agli altri. Per non ferirli con le mie spine.
E quando va via la belva rossa strappa il suo vestito in mille strisce.
Allora hai poca stoffa e tanto freddo che ti riveste le tue braccia nude.
Chiedono brividi in prestito.
Ho preso appunti sui miei Polsi.
Dopo averli lisciati.
Sembravano tela.
E ho inciso sopra di loro ogni dettaglio.
Ho indugiato su quelli apparentemente insignificanti.
Perchè l'apparenza è pregna di rilevanza lontana.
E ho ripercorso con le dita l'inizio.
Nel punto in cui le vene sono un ingorgo.
La vita è piena di inizi.
Ed ogni inizio è incanto.
Come se tutta la vita si concentrasse là.
Nell'attesa e nello stupore.
Quasi vorresti non finesse mai.
Ma non c'e più spazio sui miei polsi.
Ho spostato ogni vena per poterci scrivere.
Più che posso.
L'ho domata e donata ad un campo.
Così dimenticare sarà difficile.
E io dimentico difficilmente.
Colleziono graffi.
Come segnalibri.
E mi convinco che siano fili d'erba.
Stanotte vorrei in prestito la voce di Una Stella.
E' quella che uso quando ho voglia di giocare.
E di mentire.
E mi riduco bestia di gioia.
Come se le parole fossero esche. Erba e carne per ogni fame possibile. E io pesce. Ad inseguirle. O solo ad immaginarle. Con la pancia che sta per esplodere. Un mondo di parole nella pancia. Nel piccolo mondo dei nostri fremiti morbidi e comodi. Di piccoli sdegni e dignità perplessa. E poche arrivano. Poche entrano in circolo. Le altre si sedimentano. In strati che foderano di non sentire. Isolano. E siamo isole nel nostro mare privato. Nel mare di casa nostra. Amebe di periferia. E tutti si prendono troppo sul serio. E prendono sul serio ogni plausibile ammutinamento. Tranne il proprio. E' un gioco. Un baratto tra parole e pezzetti di anima. A farsi compagnia. Senza mai guardarsi negli occhi. Perchè sono stati smarriti. Gli occhi vagano soli. In un bosco a caccia di farfalle. E si guardano gli altri senza occhi. Solo con la pancia e con tutta la fame di cui siamo capaci. O ci neghiamo. Di tutta la fame di cui siamo fatto e di cui siamo stati nutriti. Piccoli giganti bulimici ed invisibili. Su piedistalli distanti. E la presenza degli altri è solo un modo per sentire i nostri contorni. Per farci muovere l'aria intorno. E circondarci di presenze. Mai troppo presenti. Senza arrivare al nostro confine. Nè centro. Nè periferie. Pendolari dell'anima. Sospesi. E soffusi e diffusi in strati di bellezza ed orrore. E poi è lo stesso.
Oggi vorrei una fame asciutta.
Senza parole.
Fatta di morsi esatti e precisi.
Un boccone.
E una sazietà composta.
Nessuna favola da slinguare.
Slurp.
Ops.
Mi sono sbagliata.
Mi guardi le labbra e attendi. Placido e dondolante. In una tenera attesa. Mi guardi negli occhi. Fino a strapparmi le pupille. E a farne zucchero. Sembra neve. Ma non è fredda. E' neve calda. Come la saliva del mare. E ti adagi sul mio mento. Mi coli come marmellata di passione. Poi risali. Impaziente. E io taccio. Non so dire le cose che penso. Proprio tutte non ci riesco. Un pò ne scrivo. E' facile graffiare fogli. E soffiarteli addosso. Come piccoli aeroplani. Carichi e traballanti. E ti arrivano sul collo. Come se avessero baciato le nuvole. Io non so scandire parole. Non riesco a pronunciarle. Non quelle che vorrei e che ho dentro. Mi limito ad osservare. E quelle che pronuncio sono diverse. Parole diverse dalla fontana viola che mi zampilla dentro. E non smette. E i miei pensieri restano incastrati. In una forma equivoca e complessa. Come farfalle zebrate. E si vergognano di dover attraversare il loro pratosavanaforestadierba. Sono destinate a sentirsi fuori posto. Non diverse. Perchè hanno imparato che la diversità rende bellissimi. E forti. Ma nessuno lo sa. Nè deve saperlo. Perchè non comprendendoti ti rendono migliore.
Le mie parole le sto pensando tutte.
Una per una.
Nelle orecchie del tuo cuore.
Imbuti lenti.
E solo quella giusta arriva in fondo.
O forse in cima.
Capovolgendo le cose il mondo resta lo stesso.
Strappami le parole.
Dalla bocca.
Ma fai piano.
E poi strappamele ancora.
Inventami il cuore.
Posalo dove vuoi tu.
E strappale in quel punto.
E mentre io dormivo, hai disegnato una incauta primavera sulla mia schiena.
E il ramo di ciliegio furioso ha lacrimato.
L'amore è il tabernacolo della indecenza.
Dove tutto può.
Ed ogni sensazione si è fatta foglia. Coppa di luce. Prisma di anima. Transulce. E sputa verità. Quella che secerne la mia mente. E se la stampiglia ovunque. Fino a non saper vedere. Intrecciata. Come edera che scavalca muri solitari. Mi sono sporta. E ho sentito la luce sulle labbra. Fino a spaccarmele. Come quando mi baciavi. Non riuscivi a non assaggiarmi. Ogni dubbio si è dilatato ed è divenuto mano. Prepotente ed inerme fiore di carne. Mano aperta. A dita spalancate. Sole spalmato. A rovistare. E trattenere. Tra i suoi petali. Tutta la rugiada che scappa dal mattino. In fuga dal punto in cui luce e buio si sfideranno. E poi restare in superficie. Dove è più facile accarezzare. Dentro, fa male. Nella profondità più rossa. Papaveri ondeggiano sul cuore. E polvere scivola. Non è dolore. Solo delusione. Quanto copre. E sotto li campo si muove. Nonostante tutto. Anche l'apparente immobilità che lo avvolge. Sembra sentire ma è dimenticare. Il campo ondeggia e scava aria. E se la rovescia addosso. Come una doccia nella calura. Si dimena. Ha la voce di una tempesta lieve. Perchè deve fingere. Quasi graffia la pelle. Al contrario. Genuini graffiti di sensi. Fino alle tempie. Catene liquide. Scioglimi. Ognuno pensa di sapere. Ma non sa. E si accovaccia dentro la crepa. Ma il punto è ancora lontano. E' un sole che gioca a nascondino. Sotto la pelle.
La foglia non trema più.
Spezzata dal ramo.
E' nel vento.
Nell'immobilità del non sentire.
Forse comprendere.
Mai capire.
Non è oblio.
Non è dignità.
E' finalmente respiro.
Quasi libertà.
Del resto non importa.
E non mi importa.
Ho voglia di fragole.
E di terra.
Ma ho smarrito il mio campicello.
Specchi di carne.
E l'anima si sdraia.
Ha solo voglia di specchiarsi nella carne.
E diventare solida.
Ma non sa fare altro che contemplare il soffitto.
Della sua gabbia.
Lo chiama vita.
E ci dipinge stelle di fiato.
Un prato ribaltato.
Dove annegano i fiori.
E la memoria.
Così si rinasce.
Ridicola metempsicosi delle mie tempie.
Farfalla o elefante.
O ragno tremante.
Restano tempie.
Muro dell'anima che spinge.
Forse è curiosità. Solo è una idea. Solo una goffa e gonfia idea. Una palla di pensiero. E vaga. Oltre ogni plausibile motivo e ragione. Al limite tragico del fraintendimento. Stride. Freme. Stella di aria. Come una bolla di sapone. Sputa riflessi e si lega a meraviglia. Il senso del magico ed innocente contro le iridi. Ti esplode tra le dita e rinasce aria. E l'anima si fa materia. E la materia ti ruba anima. E la ritrasforma. Sospirare e cercarti tra le lenzuola ed il mio gomito. Nella parte più interna. Dove deponevi baci. Pessima abitudine di baciarmi i gomiti. E vi ritrovo l'odore del muschio. Del bosco della mia mente. E tu mi gemi nella testa. Come un'ape. Furiosa e spersa. E' così che ci si sente. Pieni di un dentrochevuoletrasboccare. Ma incapaci di dosare. In una attesa che svilisce ogni arrivo. Perchè la fame divora ogni possibililità ed ogni possibile senso di sazietà. Forse è curiosità o forse è pioggia. Una pioggia inversa. Asciuga e continua a circolare. E mi ricerco. Perchè ritrovarsi darebbe una misura vagamente esatta. Alla ammissione di non volersi ritrovare. Di non sapere che farcene di noi. Soli e costretti dentro questa sagoma. E vicoli e strade. Sotto piedi che non sanno mai essere nudi. In uno specchio fatto di mente. Come uno stagno sul quale planare. Piccolo insetto tremante. Sei tu che mi hai insegnato a tremare. Come un piccolo ragno equilibrista. Attaccato ad un filo che poi è una tela. Anche quando non ho paura. Mi intreccio la luna alla schiena. E a te non resta che scioglierla. Sciogliermi il groviglio di luna e ragno che iosonoesoessere e mi ricopri i graffi. E li ripercorri di baci e favole silenziose. Le sto chiedendo. Chiedo solo una minuscola fiaba. Un piccolo percorso verso la bestia. Riaffiora all'improvviso dal mio stagno. E io smetto di essere per divenire. Ed incomincio ad esistere e poi mai più. All'improvviso. Ritrovarsi oltre noi. Inaspettatamente nel sorriso o in uno sguardo. Degli altri. In uno stelo che si piega come una voce che racconta e ci racconta. E poi ci offre su un vassio fatto di vento e polline agli altri. Piccoli mondi. E pezzetti di un mondo più grande. Ancora più affamato.
Rinasco ancora.
Ma prima ho dovuto morire.
E morirmi un poco per volta.
Spicchio per spicchio.
Come una arancia
che si credeva un frammento di sole.
E dimenticarmi.
Senza essere fiore.
Insegnami l'incanto e lo stupore.
E poi sarà tutto fragilmente imperfetto.
E se lo vorrai incomincerò a tremare ancora.
Fa tanto freddo dopo che mi hai preso dal mio vassoio di polline.
Un freddo pazzesco che spinge tutto a picco contro il pavimento.
Anche l'ombra e la dignità.
A volte chiedere è un pò morire.

mercoledì 5 maggio 2010

Un tempo la distanza tra sè e gli altri era fatta di silenzio. Sassolini bianchi e levigati. Con piccole vene. Lunghe e contorte file di sassi. E avevano la traccia amorosa del mare nelle strisce quasi impercettibili che li attraversavano. Una catena ideale per attestare che un tempo lontano anche loro ci erano stati. Erano passati da quel punto. Una promessa. Un tatuaggio. Un minuscolo giuramento nella pietra. E dimenticare sarebbe stato difficile. Forse impossibile. Era nel solco sulla sabbia il varco. Adesso la distanza tra lei e gli altri si è riempita di parole. Buche ricolme di parole. Fontane immonde. Così tante parole da varcare il bordo e aiutare a perdersi. A non ritrovare alcun segno. Alcuna traccia reale. Perchè tante parole avrebbero diluito il senso. E la sua voce intensa. E quando donava parole sapeva che era promessa di addio. Lei sapeva amare solo con il silenzio. Perchè in quel silenzio galleggiavo gli immensi spasmi che sapeva trappare alla sua recondità intimità. Nel labirinto della donna che la abitava. Il suo corpo era solo la ragnatela che rivestiva il suo nido. Era il solo mezzo per impedire a tutti ad arrivarci. Dove deponeva il suo tormento. In attesa della primavera. Le serviva a non provare freddo o forse solo a trattenere per un istante in più la linea goffa del calore. Quando la ritrovava. Prima di lasciarla andare via. Ancora e sempre. E allora quella ragnatela diveniva ardita seta.
E il baco del peccato scivolava e si dipanava nella sua mente.
Mai mescolare sacro e profano.
Credo che sia blasfemo mortificare il divino che è in noi.
Meravigliosamente imperfetto.
Nessun nido potrà contenerlo.
E mi perdo. Nel mio tulle. Smangiato dal tempo. E dal vento. Dal verme e dal sole. Ho nascosto segreti e fiorellini. Tra i buchettini. Li ho schiacciati in fondo. Nel fondo. Di una bimba che non conosceva la misura. Abulimia di baci. E di rimproveri. Senza un equilibrio. Sul bordo della vasca. E sotto un precipizio immaginario. Ed un ombrello finto. Celeste come le nuvole. Nella testa. E nelle parole. Ondeggia. E io mi fletto. Un gancio verso il cielo. Che a volte è un soffitto bianco sporco. E tu ci ribalti i sogni. lo sfondi con la mente. Fino a farlo ritrarre. Come tutti i bianchi che si rispettino. Un millepiedi ha ricamato il suo stupore sulla mia gonna di tulle variegato alla fragola ed al pistacchio. La mano di mia nonna nei capelli. A scandagliarmi la mente. E a scacciare pensieri tristi. Mi pettinava le paure. E le raccoglieva in una crocchia di sole. E sale. Le sue dita come steli di tulipani. Per lasciarle evaporare. E io mi perdo. Senza voglia di ritrovarmi. Solo essere cercata. In fondo al mio tunnel di bimba pentita. IDove sento rimbombare ogni pensiero. COme gocce. ntreccio il disappunto al divenire. E lego. Lego. Lego. Pensieri con ricordi. Come una margherita senza petali. Strappati dalla rabbia. Incollati al muro. Per disegnare una primavera che è già stata. O forse non arriverà. Era ieri? La forma delle mie dita. Nel percorso verso la luna. Oltre il vetro. Dove disegno storie e parlo con le mani. Carezze acerbe. Quasi amputate.
E mi disegno le labbra con fragole mature.
Oltre il bordo di una bocca che sa dire solo la verità.
E stampa aloni impuri.
Fatti di baci.
Strisciati.
Fino a sembrare che sia sangue.
E forse lo è.
La verità è fatta di sangue.
Puoi guardare una scena comunque.
Ed è sempre vita.
Anche se non ti sembra.


Un tempo la distanza tra sè e gli altri era fatta di silenzio. Sassolini bianchi e levigati. Con piccole vene. Lunghe e contorte file di sassi. E avevano la traccia amorosa del mare nelle strisce quasi impercettibili che li attraversavano. Una catena ideale per attestare che un tempo lontano anche loro ci erano stati. Erano passati da quel punto. Una promessa. Un tatuaggio. Un minuscolo giuramento nella pietra. E dimenticare sarebbe stato difficile. Forse impossibile. Era nel solco sulla sabbia il varco. Adesso la distanza tra lei e gli altri si è riempita di parole. Buche ricolme di parole. Fontane immonde. Così tante parole da varcare il bordo e aiutare a perdersi. A non ritrovare alcun segno. Alcuna traccia reale. Perchè tante parole avrebbero diluito il senso. E la sua voce intensa. E quando donava parole sapeva che era promessa di addio. Lei sapeva amare solo con il silenzio. Perchè in quel silenzio galleggiavo gli immensi spasmi che sapeva trappare alla sua recondità intimità. Nel labirinto della donna che la abitava. Il suo corpo era solo la ragnatela che rivestiva il suo nido. Era il solo mezzo per impedire a tutti ad arrivarci. Dove deponeva il suo tormento. In attesa della primavera. Le serviva a non provare freddo o forse solo a trattenere per un istante in più la linea goffa del calore. Quando la ritrovava. Prima di lasciarla andare via. Ancora e sempre. E allora quella ragnatela diveniva ardita seta.
E il baco del peccato scivolava e si dipanava nella sua mente.
Mai mescolare sacro e profano.
Credo che sia blasfemo mortificare il divino che è in noi.
Meravigliosamente imperfetto.
Nessun nido potrà contenerlo.
Non solo nero. E il cielo già lo sa. Non gli si può nascondere nulla. Ha mani immense e rovistano tutto. Il posto delle emozioni è lontano dal cuore. E' alla periferia più sfacciata. Dove i sensi bucano la coltre di un nero indeciso. Non sa più annodare. Non sa divorare. Non ha più fame. Lecca quello che gli capita. Con la sua lingua indolente. E' cioccolata perplessa. E muta. Non riesce neanche più parlare. Una cioccolata silente. Rifugiata in un angolo della mente. Perchè siamo abituati a vivere in cassetti. E nessuna si accorge che la memoria è una prateria. Uno sterminato campo da arare. Perchè siamo fatti di passato. Di strati di passato che non si sono limitati ad adagiarsi. Ma hanno provato il lusso prepotente di plasmare un puntino pulsante. La chiamano identità. Io la chiamerei lasciatemiesserequellochemipareeilrestononlodico. E non è più nero. Il sangue dell'errore non è catrame. Resta comunque e sempre sangue. E macchia. Il posto delle emozioni è il giardino delle opportunità. Steli mozzati e corolle nude. Deve seguire rotte contorte e scivolare da precipizi. Archi di piacere che si convertono in preghiere convesse. E la terra ride. Ha nascondigli anche per il cielo. Alla fine lo fotte sempre. Lo ama. Ma non può farci nulla. E' una gran puttana. E forse lui lo sa. Lo ha capito dal primo momento in cui è riuscito a sorgere. A squarciale luce addosso. In quelle immense gallerie senza coperchio ci perdiamo. E ritroviamo. E là che si stempera e fortifica la pallida umanità che ci compone. Poca carne. Ma fiumi di anima. Perdutamente innamorati. Come vene che sono scorse. Quasi senza saperlo. E mi ritrovo questa. In questa periferia. Dove il cuore è lontano. Un bucaneve sommerso da neve immaginaria. Non vede il nero solo perchè non lo conosce. Sa solo che da qualche parte ci sono i colori.
Io l'ho sognato un comignolo rosso.
E sfiorava il cielo.
E là dentro terra e cielo si incontravano.
All'insaputa di tutti.
Un filo blasfemo. Forse un gancio. Un innocente nastro di seta. Un sospiro. Una benda. Una buccia cruda. La certezza più fragile. La favola del forse è un tappo. Del piccolo abisso che ognuno ha. E a volte è una ascensore verso il cielo. Altre un cielo orizzontale. Ed altre volte ancora è una caverna. Dove tutto rimbomba. Sette giri. Ed un altro sospiro. E con il sospiro un solco. E un ricamo d'aria. Nella intimità. Forse una promessa violata. E una vena prodiga. Sangue e brividi. Pericolosamente ondeggiava nella mente. Una stadera fatta di incognite e possibilità. Arcane e remote circostanze si ribaltavano come tende nel vento. E mi ritrovo a tremare. Come allora. E il desiderio crudo come una mela. Impigliato nelle pieghe del mio labbro inferiore. Sembrava furioso. Era solo piegato dall'arco del limite e dal rosso porpora di quella idea. Rosso come la bava della luna. E il filo scivolava come un serpente sulla soglia e la porta lo risucchiava. Si chiama ignoto. O forse peccato. O forse quellochediventononloso. E la donna sulla stadera si approssimava al centro. Senza raggiungerlo. Non aveva ali. Solo virgulti di ali erano le sue dita affamate. E strisciare non pareva conveniente. Forse opportunamente adagiarsi. E precipitare nelle oscillazioni. Alla ricerca del centro. In attesa dello strappo. Forse del morso. E di addormentarsi come una santa. Con gli occhi zeppi di desiderio. Come pozzi.
E la sua anima vagava.
Nel cercarsi si era persa.
Ma è la quella la possibilità di ritrovarsi.
Hai raccolto la bimba e i suoi sette fiori.
E tre petali.
Piccoli sigilli.
Su segreti che credeva ferite.
Erano rimarginate.
Mordi i suoi petali con dolcezza.
Ha paura.
Ma vuole solo quello.
Che le mangi il cuore silenziosamente.
E poi che tu vada via.
Senza una parola.
Al posto del cuore le crescerà un prato.
E sarà inverno e poi estate.
Ma mai più primavera.
Mamaipiù è un delizioso artificio perchè nessuno ha il coraggio di dire persempre.
Non ha più paura la bimba.
Non ne aveva neanche prima.
Ma non lo sapevo.
Voleva solo sbarazzarsi del cuore.

E l'ho sentito tutto il tempo che mi è venuto contro. Ed era morbido. Come un mantello. Delizioso e dannato. E il silenzio è il vestito più austero del tempo. E intrecci papaveri con l'odore della primavera che arriva. E la mia essenza come una lisca di un pescedonna si è flessa. E non sapeva se ancheggiare o nuotare. O parlare di amore o del tempo o dell'infuso di gerbera e tiglio. O cantare la ninnanannaninnao ai girini sul bordo del mio sognostagno. Sul lieve cordone che lo circonda e lo trafigge. E il tempofiume ha intensamente dilatato le sue branchie e si è tuffato nel suo mare immaginariochepoièunpòdituttinoi. E si è disegnato le onde addosso. Onde e schiuma profumate dalla voce dei gabbiani. Solo per baciarla. E quando si è specchiato nei suoi occhilagochesembravamaremanonguardarmichemiturbi la ha baciata e morsa e percorsa. Nelle fiabe non tutto riga dritto. E lei ha riempito la sua scatola. Delle carezze delle rane e di una scheggia di corallo. Era rossa. Come l'acquario dei suoi sogni e delle scie. Era rossa come il sapore delle fragole. Quello che gli veniva in mente quando pensava a lui. Prima di tremare. E di addormentarsi contando i brividi. Uno per uno. Le corde del suo corpo. Perchè contare era il mezzo per ridurre ogni sentimento ad una somma o una differenza. O ad un semplice sminuzzarsi. Non esiste sinallagma del cuore. E dare richiede un saggio voltarsi. E non attendere. Scappare dal tempofiume che ti insegue. Solo allora si rovescerà l'incanto. Quello che abbiamo donato non torna. E' il posto di un fiore che sta nascendo. E sboccerà.
E di corallo immobile i pensieri.
Rossi.
Come l'alone della luna.
Sembra un airone in volo schiuso.
La tenda dell'indecenza.
O forse l'apoteosi del suo aprirsi.
E del suo morso.
Del mordere il cielo ed il mare.
I coralli erano appena il margine.
Erano l'occasione.
O solo la circostanza.
L'immondo ha il colore della nostalgia.
Oppure è la nostalgia a schizzare il mondo del senso del peccato.
E quella luna in mezzo al cuore.
Splende.
Oscilla e splende.
Una luna.
Una lisca liscia.
Ed un frammento.
Un'ombra.
E poi la musica dolce.
Nel guscio di una lumachina.
Apoteosi e tana.
O forse oblio.
Non ho nome.
Perchè ne ho infiniti.
Vorrei ascoltarti mentre li pronunci tutti.
Uno per uno.


Aiutami, piccolo sole.
Palloncino di luce.
Tu, minuscolo cuore.
Ti spalmi dentro.
Lasciami spiegare.
Donami le parole.
Quelle vere.
Quelle che sono radici di luce.
Corridoi della terra.
C'è una bellezza nel mondo.
E ogni giorno un raggio bacia il mondo.
A volte gli fa male.
Ed è un dolore insopportabile.
Poi diventa la carezza delle carezze.
Ma io non sempre riesco a a catturarlo.
Non riesco a cogliere il miracolo del mondo.
E non so spiegare.
So che devo ringraziare.
Sento.
Ma non comprendo.
Piccolo sole intreccia comprensione alla mia mente.
E alle sue pareti.
Sono fragili.
E infreddolite.
Ma non sanno sputare brividi.
E trattengono dentro.
Riscalda il suo capo.
Dentro ci sono inverni che deridono.
E lascia che la luce scivoli sui suoi dubbi.
Sono una fervida credente del Dio dell'amore.
Del velluto del mondo.
E non ha nomi.
Non ha chiese.
E si rifugia in angoli sperduti.
Fino a farti dubitare che ci sia.
E' nel dubbio che esistiamo.
E' nel buio che ho imparato a conoscere la luce.
La corda che mi scorre dentro.
Frusta.
E lascia segni.
E insegna a supportare.
Dilata le vene.
Fino a sentirle urlare.
L'amore non ha nomi.
Non ha forme.
Lo riconosci.
Pulsa.
Un nastro che ti fa perdere la voglia di guardare.
Perchè comunque vedi.
Vivi con le palpebre serrate e gli occhi splalancati.
Con il mio cannocchiale ho cercato le stelle.
Mentre mi rovistavo le viscere.
Tutto dipende dalla direzione.
E all'angolo mi sono fermata.
Mi piace osservare in tutte le direzioni.
E' fatto di neve questo cuore. Questo minuscolo cuore mio. Un puntino coperto da un velo di gelo, che fa una immensa fatica per riscaldarsi e riscaldare. E si inspessisce e si assottiglia. Vivere è quasi facile come respirare. Piccola folla di cristalli ribelli ed immemori. Si sfiorano i gomiti in cerca di calore. E quasi si abbracciano. E quasi si prestano il respiro. Quasi fratelli o assoluti estranei. Approssimato contatto che si verifica mai. Quello Istanti assiderati che hanno trovato un giaciglio. E ci strofinano contro il divenire. Perchè sono stati forgiati dal fuoco della fine. Ma quello che è destinato a finire in parte è già morto. E forse è lo stesso che non essere mai nati. Embrioni che vagano. Ma ogni verità ha due facce. E ciò che è destinato a morire è anche meravigliosamente stato. Ed è diventato. E i quasi fratelli sanno che il sole arriverà e scoperchierà ogni piccolo segreto. E saranno quasi sperduti. Perchè il sole è amico del tempo ed il tempo è amico dell'oblio. E l'oblio è amico della distruzione. E a volte la distruzione si fa chiamare cambiamento. E si affaticano per imprimere una traccia sotto. Più a fondo. Sulla pelle della terra. Fosse anche un piccolo graffio. E si spingono dentro. A caccia del punto fatto di corteccia. Dove potranno lasciare una traccia. Ma non sanno che l'unica traccia potrebbe essere quella che resta sulle loro dita.
E' fatto di neve questo mio minuscolo cuore.
Un vestito di gelo.
Una maglia.
E in fondo un fuochino.
Un tappeto dove si rotolano e si inseguono impronte sconosciute.
Rifugiate dentro per sfuggire all'arrivo dell'estate.
Per non sentire l'odore del mare.
Perchè dentro c'è silenzio.
E il silenzio è una mano impietosa che rovista.
Ho preso l'abitudine di trattenere ogni istinto.
on sempre ci riesco.
Ma quando non succede riavvolgere il rocchetto dei miei fili folli
è come ricamarsi sulle dita il senso del rimpianto.
Non è una storia fatta di neve questa.
E' solo una attrice non protagonista.
Destinata a dileguarsi.
E a non lasciare traccia.
Nessuna zingara leggerà la mia mano.
Ho appena mescolato le mie linee.

Bevemmo un caffè inzuppato nella curiosità nella locandadeltempoperpendicolare, mentre tentavamo di deliziarci di briciole di giglio candito e rosa canina. Avevo una pila di storie da raccontarti: mi era adagiata sui miei gomiti con l'intento di lasciarle scivolare nelle tue orecchie e nella tua bocca ed aspettavo che cessassi di bere il tuo caffè meravigliosamente nero. Capita ad una donna di voler essere adagiata sul fondo di un caffè. E di essere bevuta. Come se la comprensione fosse più importante di ogni integrità. Ma non della propria dignità. Avvolgevi la tazza con la tua mano grande e sembrava che il mondo fosse là. Esattamente nel punto contattomanotazzacazzoquantomipiaci in cui le tue dita, senza comprimerla, si arrossavano per il calore della tazza, e la chimica si infilava dalla materia e dalla distanza asettica nelle tue fibre e nei miei occhi. Ero là ad inseguire la forza della tua presa. Come se nessuno al mondo avesse mai saputo tenere una tazza in mano come te. L'amore ci rende piccole divinità imperfette. Pieni di vene che poi sono crepe. E' così che si diventa eroi in un istante. Per morire l'attimo dopo. Nella mescolanza dell'umore ed umoamore di una donna. E nei suoi sobbalzi vividi. E tutti quei dettagli facevano ondeggiare paurosamente la mia caterva di storie. Un pò vere, molto vere in verità, e un pò bugiardine. Ma solo poco. Avevo anche io di una minuscola proiezione della mia minuscola dimensione eroica. Ed erotica. E avevo omesso nelle mie storie tutti quei particolari, inutili orpelli, ed ineducati vezzeggiativi, che facevano di me praticamente, ma questo è il segreto dei segreti, una autentica imbranata. E mescolavo i loro dettagli. E la pila impiccava le mie parole. Lamiapilachepoieraunaautenticastronzataforseunacolonnapernascondermi. E i fatti volavano come moscerini. E la voglia di non perderne neanche una mi induceva ad una asfittica ed ossessiva rimembranza. La luna ed i miei gerani e la mia spiaggia e la mia collezione di santini (forse quella è un pò da spigatasfigata ma forse avrebbe dato di me una idea ed un vago senso di meticolosa ricercatrice di una serie, ci avrei pensato dopo) e la mia passione per Keats e l'odore dell'erba e per l'amore per la carta e l'abitudine di scrivere sui libri (una oscena prova del mio delirio di onnipotenza mozzato e dissacrato, ancora ricordo il disappunto di mia madre perchèilibrinonlipaghituenonsairispettarelecose) e la passione per le scarpe e la mia caviglia dolorante ma disinibita e il tremito di fronte ai monumenti e le lacrime davanti a Millais. A quel tempo ero convinta di essere nelle mie parole saccenti e assunte ed asserite come sagge dal grillodonnina che mi giaceva nei gomiti e ogni tanto si permetteva di fremermi nella pancia. Bastava una spalmata di ciglia e si ricomponeva. E la realtà non era pane da mordere ma un foglio bianco e tremulo. Era lo specchio nel quale sbirciavo. Mentre dimenticavo il mio caffè che mi colava dentro e mi impediva di macchiarlo. Perchè l'abitudine smangia tutti i colori.
Non ebbi il tempo di parlarti e la tua mano mi baciò.
E non riuscì ad investirti di tutti i miei segreti.
Dei miei ridicoli peccati.
Della lussuria solo pensata che mi aveva avvolto e avvolta e tantevolte.
"L'amore non è la tana delle delusioni. E' un prato dove ci si dimentica di noi. E ci si ritrova. Ed è la corsa verso il punto in cui non serve nessuna dote e nessun fardello." Non lo dicesti mai. Ma io ti disegnai una nuvola esattamente in direzione delle labbra. E non mi baciasti. Dicesti solo questo, anche senza dirlo. O forse mi baciasti e poi lo dicesti. Non poteva essere altrimenti. Era così che io lo avevo desiderato.
Sono ripassata alla locandadeltempoperpendicolare.
Non è mai stata agibile.
Non ci è entrato mai nessuno.
E soprattutto non avrebbero mai servito caffè.
Solo infido succo di luna.
E ti tenevo il viso tra le mani.
E ti rubavo indifesa il paradiso e l'inferno.
Dagli occhi inermi.
E non opponevi nessuna resistenza.
Neanche la verità.
Mi modellavi l'istante.
Sulla punta delle dita mute.
Con cui ti ricamavo poesia.
Sulle labbra aride e furenti.
Prima di morderle.
Per sigillarle.
E io restavo appena sotto la pelle.
Tra i respiri impiccati.
Senza scendere a fondo.
Perchè era bellissimo.
Intuire senza voler capire.
Amarti senza pretesa.
Senza memoria.
E legarmi al ramo.
Di un albero ignoto.
Solo per potergli sussurrare una fiaba.
E annusare la sua primavera.
Assaporavo una leggerezza spoglia.
Perchè credevo di essere una farfalla.


Sono solo il mosaico fatto dalle impronte che mi hanno scorsa. E percorsa. Soffi. Carezze. Graffi. Solchi. Giri di parole. Una macchia che si apre e stringe. E si adagia e poi ritrae. Si tuffa e poi riemerge. Nella anima. La fonte nel centro di noi. Una fontana rossa. E la morde. Sono il gioco delle ombre che divorano le figure. E delle immagini che strappano i lembi delle ombre. Come fili di una stoffa sgranata. Sono la soglia di un campo sconsacrato. Dove c'è una fede sincera e primitiva. E il bene calpesta il male. Con i suoi passi incerti. Nel buio l'anima è una lama. Cospira contro la carne. E sceglie vene. Vi strofina il suo gelo. E le lascia prostrate. In attesa del veleno che sappia redimerle. Sono una insalata perversa di carne e luce. E fiori silenziosi. Colati a picco dentro il corpo. Come rimmel sbavato nelle pupille. Nella prigione delle infinite possibilità. In attesa dell'amo che sappia estrarle dalle certezze. Potrei fingere di non avere un viso. Dove i miei occhi lasciano scivolare ogni emozione. Come dentro un labirinto. Di non avere labbra capaci di incastrare parole e sorrisi. Di non essere voce che si asciuga sul palmo. Voce da soffiare come polline. E come desideri da affidare all'aria. Affinchè sappia custodirli. Sono l'incastro immondo tra le tessere smarrite.

E quello che lascio vedere.

Un gioco.

E invoco redenzione liquida.

Dentro cui nuotare.

E poi arrendermi.

E annegare.

Con le mie lacrime spente disegnerò un arcobaleno.



E io ballo.
E la mia danza spinge il seme a fondo.
E lo annega nella terra.
E una piuma accarezza le viscere della terra.
E sembra che lei rida.
E forse sta solo fingendo.
E intanto sputa sorrisi.
E io ballo.
E calpesto.
E tocco il guscio della terra.
E non dimentico.
E sollevo.
E accarezzo.
E mescolo aria e materia.
E poi ripenso.
E non ritrovo.
E il dolore evapora come acqua.
E poi ricola addosso.
E come acqua che riga e separa e scivola.
E il tempo è la menzogna più crudele.
E ho lancette dentro il cuore.
E fanno un pò male.
E un pò bene.
E sanno tremare.
E io ballo.
E non mi fermo.
E non sono sola.
E le nuvole sono con me.
E me le stringo contro.
E sono il mio vestito.
E il mio respiro.
E la colla del mio collo.
E ho voglia del loro imperfetto candore.
E ho voglia di poterlo dire.
E lo lecco nelle tue orecchie.
E non interrompo.
E i tuoi occhi hanno baciato le mie caviglie.
E io li ho raccolti.
E li ho nascosti tra le dita.
E se adesso apro le mani ci trovo un filo.
E lo lego al mio polso.
E il nodo è stretto.
E mi sento palloncino ribaltato.
E sono destinata a fluttare al contrario.
E sono aria che strofina la terra.

Viva.
E' spesso sembra semplice e bellissimo.
Ero un solco interrotto.
Ho ricominciato a scorrere.
Senza ali.
Perchè ho voglia di toccare il mondo.
Con il palmo aperto e pieno.
Niente più segreti sussurrati alle conchiglie.
Le ali le conservo nella mente.
Hanno i contorni di petali.
E la voce delle margherite.
Io l'ho sentita.
Forse una volta.
Rovisto nella terra.
Ho perso una parola.
Ma non ricordo il punto.



E ricomincio.