domenica 22 novembre 2009

Rosa è l'involucro di queste ore. Ed il pugno che si schiude. Si sporge una pretesa rosa. Nel buio. E lascia libera una farfalla furiosa. Nella trappola della notte e nelle sue sbarre di aria. Quasi tagliente. E respirarla è respirare il proprio sangue.
Per questo fa paura.
Rosa è la verità.
Nella sua dilaniata innocenza.
Ho appena rubato un improbabile tramonto rosa. Macchiato di incertezza e di dolcezza. Fa male agli occhi. Come le parole che mi lisciano la mente e galleggiano in questa zuppa inconsistente. Rosa è il mio pensiero. E ruvide le spine. E non le evito. Mi aiuta a restare a galla. Il dolore. O forse solo malinconia assorta. E non sentire le mie tempie e il loro battito spingersi fino all'orecchio. E riempirlo.
Se non fosse delirio sarebbe orrore.
O solo eroica distrazione.
Incastrato al mio angolo rosa.
Se chiudo gli occhi un prato immenso mi sorride.
E io li tengo chiusi.
Perchè il prato è la mia pelle.
Ai suoi piedi c'era una distesa. La osservava incerta. Non la stava studiando. Solo beffardamente ignorando. Avrebbe solo voluto capire, senza comprendere, se fosse lo stesso percorso. Non le sarebbe dispiaciuto. Solo voleva sapere.
E sapere di aver saputo.
Senza prevedere.
Solo dare una parvenza.
Affondare nei passi l'assenza.
Sentirne il risucchio e il fendersi dell'acqua.
Ripulire ogni traccia del passaggio.
Fino ad annusare l'odore.
Si sorrise dentro.
E sentii calore.
Come sotto una coperta.
Sulla nuca contro il cuscino.
E tra le labbra contro un muro di respiro.
Abbiamo una luce dentro di noi.
E ci riscalda anche nel gelo.
Ci riempie di piccole fitte di calore.
Piccoli pizzichi di vita.
E le sbattiamo in faccia le palpebre.
Strappiamo le pupille.
E le nascondiamo nel buio.
In fondo la vita è un gioco tra luce e buio.
Ho afferrato un raggio e lo sto intrecciando alle dita.
Non so più spiegare.
Urlo al mondo cose senza senso.
Astratte.
E tengo i dettagli dentro.
Fa male.
Perchè spiegare è donare spigoli.
E' levigare l'identità.
E poi ti punge dentro
vedere i tuoi pezzetti
svolazzare.
Come coriadoli strappati.
Non ci sono colpe. Non ci sono verità. Non ci sono sconfitte. Non ci sono mancanze. Non c'è null'altro che pezzi che si incastrano.
O il tentativo di incastrare pezzi non incastrabili.
E non so se fa più male l'urto.
Lo stridore dell'incastro imperfetto.
O il restare mancante di una parte.
E tremo di lucida incoscienza.
Erano sette le primavere che esplosero nel cielo.
E una pioggia di petali.
Nudi come parole.
Non c'era danza.
Solo pensiero.
E adesso sono scorsi trenta inverni.
Pregni e incostanti.
Non parlo per farmi capire.
Ma per non dire.
Non voglio che gli altri trovino le briciole delle mie mani di pane.
E della mia voglia di abbracci.
Di dolcezza cruda e sincera.
Se potessi parlerei con i fiori.
E' il silenzio il più bel fiore.
Ci sono punti di domanda che si flettono come rami nel vento.
Hanno una immensa fame di aria.
Di aria morbida e sincera.
Come solo l'aria sa essere.
L'aria non mente.
Ho smesso di cercare le risposte negli oocchi degli altri.
E ho aperto i miei.
Ogni comodo segreto è stato avidamente deflorato.
Come se avessi ingoiato pietre.
Amo sentire le pietre.
La loro voce vergine.
Sono vergini con tante anime.
Ma una sola voce.
Amo cercarne le imperfezioni più intense.
Fatte di tempo.
La mia purezza fu un dono non richiesto.
Era nella mente.
La avevo spogliata di ogni difesa.
Sciogliendo ogni nodo.
E lasciandomi annusare i solchi.
Senza timore.
E non mi accorsi del vento che mi accartocciava.
E mi sfogliava senza interesse.
Scorreva nei miei solchi.
E ricominciava.
Rigandomi gli stomi.
Non ci fu urto.
Ma solo i suoi effetti.
Ad occhi chiusi percepisco il mondo.
Ma solo a volte.
E se li apro è perchè ho smesso.
La notte disegna un cielo di stelle.
Un pò è pure mio.
E mi rassicura sapere che c'è.
Anche se non lo vedo.
Io te lo vorrei descrivere il mare. Vorrei metterti le mani dentro la testa e disegnarci il mare. Modellarti con le dita ed il mio respiro l'onda che si stende sulla riva e le dona la sua forza. Quella vera che non ha timore a stemperarsi in fragilità su una tavolozza dal colore indefinito. Come se fosse bacio. E a perdersi nella fine più pura. Quella senza nome. E senza inizio. E rovescia conchiglie fino a farle rotolare e annegare nella sabbia. Come se fosse amore. Vorrei soffiarti dentro la mente l'odore vigoroso del mare. L'ho ascoltato tante volte nelle sere di inverno. E nei mattini d'estate. E gli ho consentito di mescolarmi i pensieri e giocare con il mio petto. E rapirmi frammenti di sogni e di pensieri. E mordermi il cuore. Fiato e mare. E qualche goccia di dolore. Fino ad intrecciarsi al mio respiro. In quei momenti ti senti il possente respiro del mondo dentro. Gravida di vita. E cerchi una stella qualsiasi per annegarti dentro il suo oblio. Tutto l'oblio di cui è capace. Io vorrei descrivertelo. Come se fosse un dono. Ma non so farlo.
Esercizi di morbida follia
E' la stola con cui ricopro la mia nudità.
E non è la mia povertà.
Ma la mia unica ricchezza.
La mia pelle è la casa invisibile della mia anima.
Invisibile come me.
Sono una donna invisibile.
Con il cuore trasparente.
Nessuno lo vedo.
E non ne conosce le righe.
Non lascio traccia.
Ma ne conservo.
Tu non lo sai.
E ora che mi sono spaccata le ali
finalmente sento la terra sotto i piedi.
Le ho squarciate.
Perchè altro non so fare.
Distruggere mi fa pensare che un giorno
diventerò migliore.
Ma forse lo ero già.
E oggi è domani.
E di polvere e residui bellici scrivo pensieri.
Detriti organici della mia guerra fatta di carne.
E vita.
Perchè io ci rimetto pezzi.
Ogni volta.
E questa volta sto provando a trattenerli.
E sentirli miei finchè posso.
Perchè quando non ne riconoscerò l'odore
vorrà dire che sarò diversa.
Scrivo pensieri senza traccia.
Con una eco muta.
Ho un cuore invisibile e affamato.
Tu non lo sai.
E non sa resistere alle parole.
Lo puoi graffiare senza accorgertene.
Le mie dita di carne non riescono ad afferrarlo.
Ed è disperata la loro indegna presa.
Mi ritrovo farfalle furenti tra le mani.
E la mia bocca non sa leccare il suo sangue
immaginario
ed insolente.
Nessun volo.
Nessuna finzione.
Solo occhi smangiati dallo scorrere del giorno.
Con la luce che li percorre al contrario.
Ad inseguire il filo di un discorso.
E le parole mi tornano contro.
Tu non lo sai.
Come sono con gli altri.
Mentre con il fiato ti lascio ricamare il mio collo.
Ti svuoto la verità.
E mi riempio.
E ti lascio battere il cuore contro la mia schiena.
Fino a sentirlo mio.
Come se battesse al posto del mio cuore assente.
Non sai che so strisciare come una gatta affamata.
E contorcermi l'anima come se fosse un mantello.
Non lo sai che con te sono diversa.
Non lo sai.
E non lo devi sapere.
E devi pensarmi peggiore.
E' questo che voglio.

sabato 14 novembre 2009

Strano modo di cumulare la distanza.
Con i numeri.
Raffiche di numeri.
Appesi alle mie labbra.
Mi colano sulle dita.
Mi leccano il mento.
Mi graffiano la schiena.
E riempiono la pancia.
Come un bignè famelico.
Tutto confuso.
E questo rende tutto assolutamente esatto.
Dilatano il tratto che mi separa dalla fine.
Una fine qualsiasi.
Tra me e me.
Io sono la fine e l'inizio di me stessa.
Non è un proclama.
Una semilucida trasposizione.
Spezzare fili.
E non riuscire mai a disfarsene completamente.
Resta il segno.
Il mi minuscolo segmento scolpito sulla carne.
E a volte si spinge più giù.
Fino a farti sentire un canale.
Lanciavo numeri in un burrone.
Affinchè lo colmasse.
Lo soffocasse.
E riaffiorasse il bordo.
E mi aiutasse a perdermi.
Senza nessuna voglia di trovarmi.
Quella me avrebbe dovuto scomparire.
E anche altre.
E li contavo.
E me li ricontavo.
Numeri affamati di altri numeri.
Come una favola antica.
Senza fine.
Ho cosparso di numeri la mia mente.
E sto ancora contando.
Senza sosta.
Quello che temo sono le pause.

venerdì 13 novembre 2009

C'è un cielo avaro di stelle. Come se le avessero raschiate da là. E lasciate cadere alla rinfusa. Fino a capitombolare nella terra.

E ci illuminiamo di riflessi rubati.

E li intrecciamo alle immagini. Come più ci aggrada. E alla pallida parvenza dei sogni. Quasi si abbracciano. E si spingono le unghie nella carne. E riluciamo del fiato nascosto. Trattenuto e sputato. Evirato di rabbia e di orgoglio. E legato in vita. Come il cilicio di mille colpe da scontare. Da farti sollevare le spalle. E fregartene alla grande. E' tutto così irrilevante. La misura del mondo ha mani immense. E ali che devastano. Ansima a volte l'ansia nel mio petto. E mi riempie di crepe. Sembra non contenermi. E filtro e mi filtra. E quello che sono e non sono si mescolano. Fino a lasciarmi esangue. Mi illumino e mi spengo in un pensiero. Fatto di respiro e di muro. E di ellissi e di lana.E fili incastrati nel caos. Di un tutto che è morbido e dolce. Immensamente dolce. Dormo con le mani sotto il cuscino. Perchè nessuno deve toccarle. E' là che si annida il segreto. Il segreto di giorni appena fioriti come ciclamini. Il gelo sta arrivando. Mi immergo nella voglia di cancellare. Di voltare pagina. O forse solo di arrivare in fondo. Alla fine della storia. E cancellare le parole. E impedirgli di dare e trovare un senso. Le dita come avidi falchi hanno raccolto e devasto raccolto e percorso. E mi ritrovo sola. A tremare in questa pelle. E a farmi lisciare brividi dal caso. Il gelo è sempre più vicino. Ti lascio una rosa. O solo un petalo. O solo una spina. Quella che nessuno ha voluto. E un senso lo aveva. E' sul vetro che ho scritto il segreto. Quello con l'odore dell'ardore. E del peccato. Annusato migliaia di volte prima di essere fatto scorrere. E poi l'ho nascosto con il mio fiato. Quello rubato alle stelle. Ma il gelo ha incastrato anche quello in un quadro.

L'incoerenza è una dote che curo con devoto affetto.

In attesa che dia frutti.

C'è una strana luce. Un tramonto che urta dolcemente contro la notte. Le divarica le mani fino a dargli la forma di un abbraccio. Morbido. Spontaneo. E lo riempie di luce. Così immensa da far scomparire ogni limite. E il confine diventa dentro e poi oltre. E ripenso a tutte le volte che ho camminato per il mondo ignorando l'aria. E scansando la luce. E non ho guardato gli occhi di mio nonno. La carezza più dolce del mondo. Fatta di velluto scuro e pane profumato. Plasmata. Scorre come ricordo. E ogni volta diventa purissima nostaglia. E voglia di riavvolgere il tempo. Scorre. E si sedimenta. Nel cassetto del cuore. Dove ripongo le perle e i battiti che ho vissuto. Con la mente e con il cuore. E i pezzi di pelle che ho saputo conservare. Perchè conservare fa diventare per sempre. Non lo sapevi? La mia testa mi ha suggerito questo gioco. Superato l'istante del distacco. I margini della ferita come bordi di un lago che fagocita il tempo. Ho negato sorrisi. E non ho afferrato quelli che il mondo mi sbatteva addosso. Come se la gioia non fosse un diritto. Ho sempre scelto l'amore e sbattuto l'orgoglio al muro. E lui mi ha impresso l'ombra contro. E un pezzo in meno. Ogni volta. L'amore leviga ogni errore. Ne sono convinta e dilata il tempo. Basta che soffi.

Adesso è buio.

L'abbraccio si è dileguato nella notte.

Ma arriverà ancora la luce.

Se potessi strapperei la distanza tra il tempo e quel tempo.

Ma ho imparato che la superficie di un nuovo giorno

è un pianeta nuovo da scoprire.

Non ho più buoni sentimenti. Non li trovo. E non riesco a scuoterli alla finestra. Insieme al nuovo giorno. Come cuscini indolenti e bugiardi. Gonfi di abitudini. E lenzuola consumate dalla notte. Non ho più neve da accarezzare. Dove nascondere le ciglia. E guardare il cuore dal di dentro. Senza sentire dolore. Non ho seta sui gomiti. Per stringere intorno a me un pò di pudore.

E non ho più voglia.

Goccia.

E la voglia di avere voglia è piena di crepe.

E quello che cola è veleno per topi.

Non ho voce per sputare parole.

E sigilli per fermare il sangue.

Goccia.

Un'altra.

La bimba sta raccontando una storia alla femmina. Le fa le carezze e le ricopre il viso di baci. E' sempre lei. La madre di sua madre. E le struscia addosso sorrisi di velluto. La piccola è piena di forza. Come quella di uno stelo nella tempesta. E la femmina si assolge di quelle minuscole carezze di pesca. E ricuce le sue ferite. Vorrebbe donare al sonno la sua coscienza.

Non so quello che non ho.

Ma neppure quello che ho.

Oggi è davvero un giorno fragile.

Non ha forma la mia tristezza. Ha occhi rubati. Labbra corrucciate. E tanti nomi. A volte la chiamo amore. Un nome tremante. Per l'imbarazzo. O per la sua divisa stretta. E la chiamo poi immenso disordine. Ruota i fianchi senza guardarti. Altre piccolo fiore che urla. Dai petali rubati. O solo dimenticati tra qualche foglio. Senza odore. E colore. E' il nome che preferisco. Quasi pizzica il cuore. E' stata dimenticata come un inutile petalo. Strappato da una corolla angosciata ed orgogliosa. Dalla chioma spavalda. Seducente e morbida come una gonna che si avvolge dentro un perdono. E ammicca. Una parola masticata che ne insegue altre. Le imbavaglia. E si staglia tra cielo e terra. Pronunciata per rispetto. Per tremito. O per dovere. Stampigliata nel nulla come un purulento senso di colpa. Come uno sputo in pieno viso. La sagoma di vento e molliche a disegnare il profilo. La sagoma di parole dette e ritirate. Velocemente riavvolte contro il rocchetto della coscienza. Ancora stordite dalla ebrezza della loro forma. Dal profumo che hanno lasciato. E non si chiama scia. Ma rimedio. Ballano come barcarole alla deriva. E danno voce al buio. O rivestono di buio voci di luna. Di tante lune interrotte. E spaccate. Di lune mozzate. E ripiantate in cielo sconosciuti. Non più sinceri. La sincerità è stata avvolta di bisogno.

Ma non sono io.

Il petalo è la voce che mi vive e muore dentro.

E mi rinasce mille e una volta.

Ogni volta come se fosse la prima.

E ogni volta uccido.

Con la disperazione che affonda i denti nella mente.

Come se fosse l'ultima.

E resto carcassa delle mie paure febbricitanti.

Imbottite di gioia.

Pura ma effimera.

...

lunedì 9 novembre 2009

C'è una solitudine quasi fluida. In cui la luce gioca con i colori. Fino a sfaldarli in ombre. E scaglie di idee. E ti fa credere di aver pensato tanto e bene. Mentre sei stata solo a ruotare il capo nell'aria. E a ricamarla. Come se fosse la pagina di un libro mai scritto. Con gli spazi avidi di inchiostro. E di sudore.
E ci scriviamo la vita addosso.
La mia pelle non è più un lenzuolo candido.
E il tempo ci ha striato contro le sue pretese.
La mia è incisa qua.
Sulle mie tempie.
E gioca con il mio battito.
Batte. Non batte. Batte. Batte. Non batte.
Quasi esplode.
Siamo oggetti di carne. In cui è rimasta incastrata una anima. Il contenitore del tempo che ci è dato. E a volte tenta di sfondarlo. Non è desiderio.
E' possibilità.
L'odore della pioggia si insinua nei pensieri e scivola guardingo tra le ciglia.
Ogni volta che chiudi gli occhi.
E ti tuffi indietro.
Quello che voglio è un istante immobile.
In cui lasciarsi infilarzare dalla luce.
E sentire tutto.
E sentire niente.
E poi è lo stesso involucro.
E dentro ci siamo noi.
Sto rimbombando dentro la mia testa. E la mia testa rimbomba dentro questa stanza. O forse altrove. E non ho cose sufficientemente esatte da dire. Potrei recitare numeri.
E sarà il tempo a rendere immobile questo momento.
Immobile e molle.
Vibriamo sospesi nelle risatine e nelle lacrime. Io ci vivo bene dentro la mia astrazione. Imperfetta ed inconcludente. Scorre intorno. Veloce come una matita intorno alle labbra. Ne segue prima il contorno. Lo definisce. E poi le colora. Dilata e colora avidamente. Ma a volte mi assale una voglia acre ed aspra di realtà. Scindo l'indifferenza per le cose in una miriade di utilità represse. Le trovo quasi interessanti. Talvolta importanti. E così immedesimandomi negli oggetti mi ritrovo come cosa vivente. Come cosa piena di sangue.
Dicono che si ami con il cuore.
Ma non è vero.
Si ama con tutto.
Con ogni parte.
E' per quello che il mio cuore precipita a picco nel mio ventre.
E la solitudine diventa solida.
Quasi una lama.
E lentamente fende.
La chiamano attesa.
E mi avvolgo nella tua idea. Sei il mio bosco. E ti respiro. E' quello che voglio. Il tuo profumo e il tuo rumore. Vicini. Alle mie spalle. E nelle orecchie. Mi piego nel tuo desiderio. E ti dono il mio desiderarti. Avvolgimi. E legami. Tu puoi. Scorrermi e percorrermi. E rigare di luce il mio buio. Io sono questo. Ombra affamata della luce. E non comprendo il limite. Quando il giorno si fa notte. E il giorno notte. Quale è il confine tra te e il desiderio di te. Perchè nei sogni ci sei. E sei mio. L'unica carne che vorrei essere. E poi riapro gli occhi e sei solo aria. Dolcissima aria. Nella mia mente. La nostra casa. Dove possiamo esserci immensamente dentro. Potessi descrivere quello che provo ora.
Un nodo dentro.


Devo scrivere. E lo faccio. Per dimenticare ed accantonare. Il senso di errore. Di impudicizia. Vorrei violentare il tuo pudore. Scrivere è tuffarsi in un lago di oblio. Dalla realtà. Il tuo silenzio vibra di mille respiri. Vibra di sangue e di passione. Ne mordo un pezzetto. Lo trattengo tra le labbra. Così sei un pò mio. E io tua. Con pezzettini del tuo silenzio tra le labbra. Questo è l'ombra dell'appartanersi. Annegato nei sensi. Perchè se ti penso, dalle labbra mi coli a picco. Dentro. Come un antico galeone. La verità brucia ancora. E continuerà. E' uno spessore di ghiaccio. Incandescente. Nessun palliativo. Solo angoli di desiderio. Puro. E a volte impuro. Mi stai navigando ancora dentro. Sono il tuo mare.
Sembrava ieri ma era domani.
Tu dove eri?
Mi dormi sopra e non mi ascolti.
Dove si è perso il senso e la misura tra me e te?
Ti sussurro il mio bisogno ogni e ogni notte.
Lo soffio tra i tuoi occhi chiusi.
E le mie mani affondano nel tuo sonno.
Senza coraggio.
E forse senza viltà.
Ai margini. Nascoste dietro una tenda. Le mani si intrecciavano. Come spighe nel vento disperato. Strofinanandosi l'assenza contro. Fino a non sentirla. Sentivano solo la dimensione di mano. E le dita che si aprivano come fiori al mattino. Coppe di rugiada. A scavarsi d'ardore. Pudico. Le mani si osservavano. E osservavano il mondo. Sfiorandolo. In una rete di sogni. Leggera e morbida. E a dirlo già si fendeva. La trama cedeva al peso degli sguardi. Si sussurrava d'amore. Nel silenzio si sublimava la sua voglia. Mai vissuto. Fino in fondo. Libere di guardarsi tra le ciglia della notte. Le mani si dormivano addosso. Ed era semplice. Ma bellissimo. Da non volerlo lasciare finire mai.
Ho scavato in una terra dimenticata. E vi ho ritrovato pezzi del mio pudore perduto. Sminuzzato. Conservo pezzi di me. Per impedirmi di tornare a essere meno che quella. Un giro inutile. E si proclama l'ultimo. Mentre l'incanto e la meravigliosa stanno scorrendo altrove. E respirano forte. Da sembrare urla.
Destrutturata.
La testa fra le mani.
Una luna sporca.
Le tappo la bocca e poi la guardo.
Ha chiuso gli occhi.
E rotolano come due perle.
Destrutturata.
I pezzi alla rinfusa.
E i piedi nell'erba.
Gelida.
E gelidi affondano passi.
Taglia.
Che giorno è?
Avvolgo pensieri su pensieri.
Scalzi ma veloci.
La scia è di ghiaccio.
E di ghiaccio le ali di farfalle stanche.
E strati di coscienza indifferente.
Da nuotarci dentro.
Fino ad annegarci.

Ad un tratto il mare si era spento.
Non lo sapevo.
Cercavo le sue onde.
Per infilarci conchiglie pregne.
Le ha calpestate.
Non pulsa l'ira.
E io nemmeno.
Ho compreso.
Compreso fino a non capirci più nulla.
Ho solo voglia di dare calci al vento.
Dopo avergli raccontato.
Cristalli frantumati stanno tentando di luccicare.
E io racconto.
Ma gli hanno rubato la luce.
E lo imploro di ascoltarmi.
Ma lui è muto.
E ascoltare è inutile.
Se non fosse notte li scambierei per occhi.
Ma notte non è
e mi faccio cieca.
Basta una benda.
E qualche goccia di coraggio.
Ripulisco i bordi. Le sbavature degli sforzi. Guizzi di muscoli che si credono gesta. E al loro interno i lacci della identità. La mente che si contorce nel cuore. Come onde invisibili. Il cuore che pizzica la carne. La carne che si sporge nella mente. E la fa sussultare con i suoi tuffi. Tutto che si proclama tutto. E reclama la sua razione. Non riavvolgo. Ed isolo. Insofferenza cruda. Dopo strati e strati di sensibilità accumulata e stropicciata. Aghi su un prato senza semi. Su cui hanno ballato formiche solerti e silenziose. Ho steso il velo della insofferenza. Una indifferenza rossa e densa. Porta ad accovacciarsi a caccia di calore vero. Dall'odore buono. E a farsi ventre di una madre bimba. Nella chiocciola di una lumaca. Spogliarsi della insana bontà. E dello scarso coraggio. Amarsi è scegliere di non amare. E separera il frutto dalla buccia. Sigillare le vene. Cucirsi le parole al petto. Come ciondoli. Le cose possono dirsi in tanti modi. Uno solo è quello giusto. Quello che centra le parole come al tirassegno. E monetina dopo monetina ti ritrovi più povero ma più forte. Quelle parole che quasi mai gli altri riescono a mirare. E senti di non averne avute mai o mai abbastanza. Osservi le cose e ti stupisci perchè non ti toccano. Non arrivano alla tua carne.
Annusi l'aria.
E sai che sta per piovere.
Ma continui a camminare.
Perchè ne hai voglia.
La pioggia non può che farti bene.
In fondo piove da millenni.
E ha già bagnato vite e vite prima.
Crediamo di provare i sentimenti più puri ed intensi del mondo.
Solo perchè il nostro mondo siamo noi.
Se solo riuscissimo a prestarci i mondi.
O forse solo gli occhi.

giovedì 5 novembre 2009

Come se per un albero potesse essere facile ricrearsi le foglie. Io le ritaglio e le incollo ai miei rami. E poi sono pensieri. E soffiarci dentro e contro non le riempirà di sangue. Attendono la luce. E tremano nel loro divenire pallidi domani. Qualcuno li chiama futuro. Altri addio.
Ogni volta mi ritrovo incastrata nel mio errore fatto di amore.
Anche adesso sta tremando sui polsi.
Mi lascio schizzare la pelle di brividi.
Fino a dimenticare il mio cuore.
"La bella lavanderina che lava i fazzoletti...".
E a volte l'attesa diventava lurido poi.
Basta chiudere gli occhi.
La pretesa macchiava i vetri della mia stanza. Fuori il mare sbranava la sabbia d'inverno e rubava terra agli agricoltori. L'odore del mare era aspro e selvaggio. Sembrava fatto di denti. E di proroghe inutili. E sul vapore della mia finestra scrivevo storie. E le cancellavo.
"Dai un bacio a chi vuoi tu..."
Cancellavo le mie impronte. E mi perdonavo. Di averti perdonato. E i tuoi baci sapevano di tradimento. E li stringevi al mio collo. E ti stringevi a me. Fino a rubarmi l'innocenza in un sorriso. Dimenticavo. Credevo. E questo significava solo che avrei conservato quella sensazione umida e appiccicosa. Donna a metà. Il resto è volato via. Mi piace pensare che sia diventata stella.
Ancora adesso se vedo vetri umidi
mi tremi dentro.
E devo spalancare le finestre.
Forse è da allora che ho imparato a non vergognarmi dell'amore.
Come biglie sul pavimento. Hanno assediato la polvere. Una pioggia di luce. Ho sdraiato il fuoco per terra. E l'ho osservato bruciarmi. E fare cenere delle mie parole. In alcune c'era sangue. E' rimasto polline e poi cera. Non ho saputo inciderci nulla.
Io lo ricordo come attendevo le parole.
Il fiato si incastrava nel respiro e nell'istante.
In quello prima.
E in quello dopo sentivo caldo il cuore.
Una carezza liquida.
Fino alle viscere.
Qualcuno lo chiama delirio.
E si schiudeva in sorriso.
Fatto di porpora e giacinti.
Parole e luci.
Ami di dolcezza.
Strappavano il velo della realtà.
La realtà è la pelle del mondo.
Ho smesso di giocare a palla con il cuore.
L'ho lanciato lontano.
E dentro mi batte la sua eco.
Lurida e prepotente.
Ma fa tanta compagnia.
Ho cercato nei tuoi occhi il Dio che è in te.
Tremava.
Imperfetto e fragile.
Con i contorni leggeri.
Con un mantello di aghi di pino.
E lacrime croccanti come il pane.
Ho vagato nei tuoi occhi.
Devota come una ancella.
Vedevo senza guardare.
E mi lasciavo scivolare dentro i tuoi battiti.
Perchè dentro di te io cercavo me.
Adesso mi lascio accarezzare dalla gioia. Quasi mi fa paura. Goccia dopo goccia. Amare richiede impegno. Non è abitudine. Bisogna rieducarsi alla gioia. Piccoli sorsi. Poco per volta. Tenerla addosso anche quando graffia come una gatta cieca. E respirarla come in un barattolo. Senza una forma.
E mentre ti parlavo mi sembrava di sfilarti la maglietta.
E che tu sfilassi la mia.
E che sopra di noi di fosse solo il cielo.
Nudi di fronte al cielo.
Ad annusare nuvole.
Con una fame immensa dentro.
Dentro di te non ho trovato me.
Io sono qua.
E sono mia.

martedì 3 novembre 2009

Perchè le sento qua nella mia gola. Le parole che ho urlato. La loro ombra mi è rimasta attaccata dentro. Un filo sino al cuore. Ombre e polvere. Ombre di polvere. Tra le mie ciglia. Dove si è perso un sorriso. E un sogno. Tanto tempo fa. E a volte scintilla. Nuotando nelle mie pupille. L'ascensore per il dove. Precipito e mi ritrovo. Così. Negli angoli dimenticati. E trattengo le parole. E le spingo dentro. A urtare con il mio sterno. E a intrecciarsi. Come gramigna. Il tempo mi ha insegnato a trattenere ciò che fa male. E' l'unico modo per rendere utile l'inutile. Vomito nuvole. E pezzi di me. Senza distinzione. Nè ordine. Perchè solo distruggersi aiuta a ricostruirsi. E io sono fuoco. E di fuoco vivo e muio. Amo e odio. E poi di fuoco resisto ed esisto. Anche se è poco. Questa vita che mi soffia dentro ha l'odore dello zolfo. Lo senti nel silenzio. Quando i fiori dormono. E strappo i loro petali. I loro nomi. E le loro tracce.
E' la voce del fuoco che a volte mi parla dentro.
E mi costringe a tacere.
Non volevo nulla.
Non ho chiesto nulla.
Solo la verità.
E il fuoco me la ha data.
Prima di distruggerla.
Non ho equilibrio. Rido. Assolutamente scomposta. Rido ancora. Smorfie di sdegno. Spalanco gli occhietti. Inclino le ciglia per farci rimbalzare una lacrima. Esplode come un fuoco d'artificio. Alla festa del patrono. L'odore dello zucchero filato rovina lo sdegno.
Non ho equilibrio.
Mi fingo seria.
Occhi a gatta e bocca contratta.
Di notte mi manca la luce.
Di giorno mi manca il buio.
Devo assolutamente incastrarmi in un alba e un tramonto.
Sul loro bordo.
Nella tenerezza incerta ed inquieta del confine.
Ma non ci riesco.
Colpa del fuoco.
No.
Non ho equilibrio.
Ma è così bello lasciarsi pettinare dal vento.

lunedì 2 novembre 2009

Scompongo questa solitudine non apparente. Sei sul mio collo. E prima nella mente. Scivoli ovunque. Le tue anche avvolte da me. E' la mia carne che ti abbraccia. Fino a farti precipitare dentro di me. Sorrido ad un mondo composto e lontano. Mentre non chiedo e nel mio respiro pulsa l'assenza. E l'indifferenza. Sole, le mie vene continuano a premere una vita strana. Ma assolutamente mia. Affondo le mie dita tra aria e pane. E nel suo odore caldo e forte nella notte mi addormento. Come se fosse incanto. E' l'incanto di una realtà nella quale oscillo. Per poi strappare istanti al mio mondo assurdo. Ma l'assurdità ha l'odore delle rose. E la loro voce. Sarebbe peccato se non fosse giusto. E sul mio collo non ci sei più. Solo il tuo disappunto caldo e silenzioso. Quasi inesistente. Come la follia che nascondo. E mi freme nella pancia. Ti amo come la terra ama la pioggia. E sento, nella mente, le tue dita sporche di fango porsarsi sui miei fianchi. E rendermi segretamente e candidamente femmina. L'odore della terra mi avvolge i seni. Supplici fiori contro un cielo sconosciuto. Ti amo come il cielo ama la luna e se la cosparge sulla sua pelle silenziosa. Anche se nessuno lo sa.
E la mia solitudine sempre più latente gocciola di futuro lontano.
Di attesa impiccata.
Come ogni notte impiccata dall'alba in divenire.
Non riesco a spiegarlo.
Tutto questo.
Come sempre.