venerdì 24 gennaio 2014

A volte ritorno in quel non luogo che li raccoglie tutti, un posto che è la somma degli altri, e che si assottiglia, fino a non esistere. La dimensione che toglie la durezza dell'impatto, levigando gli spigoli, e ricoprendo tutto della patina della nostalgia, di una malinconia che a volte trasborda nella tenerezza, nella dolcezza più pura e non corrotta. E' la casa dei ricordi. Dove la memoria ci lascia sospesi tra emozioni e anima. Esattamente nel punto in cui le vene si stringono contro la pelle. E non sappiamo discernere tra tempo e respiro e battito. Viviamo stretti stretti a noi. Quando accade. E dura poco. Come se la corrente della vita ci strappasse a quella spiaggia. E ci spingesse verso la luce, di contro all'aria, oltre ogni apnea. Quasi affondando nella ragione.
Vivo con la mia pelle nel mondo, come tutti del resto.
Ma riesco a rendermene conto solo quando soffro.
Come se la gioia rendesse immemore.
E disegno il tormento. Unisco i palmi e gli lascio bere l'anima. Lentamente, come piace a me. E non sarò mai più la stessa. Questa volta devo sperdermi. Diluirmi e lasciarmi piovere lontano. E il mio tormento non ha voce ma il suono dell'acqua che scorre e si allontana e si dimentica. Una nenia di fiori che seguono le luce sui loro petali, quella stessa che ad ogni alba si ostina a dargli vita, vita benedetta e candida. Anche se solo per poco. Il mio tormento è il sangue delle stelle che si perde in un cielo troppo scuro e macchia le vene. E si nasconde e si frammenta in rami e parole. E non mi impedisce di sognare. Non più del necessario.
Io odio i sogni quando perdono il loro candore e la lieve forza che li rende capaci di restarci lontani.
Sporche proiezioni del desiderio.
Sogni senza mani.
Solo ali sconosciute.
Senza bisogno.
Prima di diventare corde da afferrare e a cui legarsi per nascondersi nell'impossibilità.
Ed è proprio nella notte che mi sento protetta e vera.
Nuda come una stella che non rinnega il suo sangue ed i suoi errori.
E sputa luce.
Ma solo quando vuole.
Una stella bastarda.
E per gioco iniziai a vivere e ad inanellare identità, come ciliege da sputare, l'una dopo l'altra, stella da amputare per rivestirmi con i loro brandelli. Uno o più pensieri e tra di loro desiderio. 
"Ti sto guardando" - mi sorprese la tua voce mentre mi disegnavi la perdizione sulla nuca e mi lasciavi scivolare i denti tra le vertebre.
Sentivo la cera calda e la mescolavo ai brividi ed al dolore, prima che diventasse godimento. E' così incredibilmente labile il confine. Ci penso spesso quando mi fai del male. 
"Non voglio che tu goda".
E mi riempii di gaudio, trattenendo il piacere tra le cosce e prima ancora nella mente.
Ero linea che si estendeva e non smetteva di correre.
Come se inseguirsi fosse la via di fuga più candida che potessi immaginare.
Ed era la più sporca.
Per quello mi piaceva.
"Adesso puoi, vieni".
E io ti sorrisi e mi sorrisi.
E ti guardai.
Mi piaceva l'idea di farti sentire che mi dominavi, mentre sapevo di avere la tua mente in pugno. Esattamente incastrata là. Tra le mie gambe.
E non smisi di guardarti, mentre mi rivestivo.
Senza voltarmi.
Non più. 
Questa è la parte di me che io mi nego, che meno espongo e non confido. Quando lo faccio sento gli schizzi del giudizio, della facciata bianca di case luride. E non te lo dico. Non mi mostro. Nascondo. Ma sai che c'è. E tu sei esattamente come me. Ma non vuoi sentirtelo dire. Posso sussurrartela se vuoi, mentre mi penetri e varchi la mia voglia.
Senza regole.
Solo quando voglio io.
E sento che quel momento arriva.
Pensava che nel parlare di lei, della sua intimità, delle sue stanze, ci fosse un prezzo troppo alto da pagare. Le era sempre importato più della sostanza che della forma e mentre sentiva di aver superato la linea del candore non contava molto, e non più, il divario tra la carne ed il cuore. Solo l'amore poteva ridare la dignità al suo peccato, asciugarne la scia umida e lasciala andare avanti. E incastrava chiavi in serrature sbagliate, perchè cercava la parola giusta. E sentiva tutto lo stridore e l'indolenza di quegli incastri sbagliati, mentre le bruciavano le vene. E tutto questo si traduceva in una svogliatezza. Aveva confuso apposta le chiavi. Per non aprire mai, per davvero, nessuna porta. E restare a spiarne ciascuna. Potevano possederla ma mai averla per davvero. Restava sempre un bordo impenetrabile. Ma a chi importa arrivare ai confini di noi? E noi lo vogliamo per davvero?
Nella rarità di una porta che si spalanca deve dosarsi il buio e la luce. 
E non dare per scontata mai nessuna ombra.
Sento un errore non mio che mi riempie.
La corda mi graffia i polsi e mi solca la carne, sempre più a fondo.
Non sono in questa pelle, ma dentro la mia anima.
E mi scompongo nei dettagli.
Uno di questi è il mio respiro.
Forse il primo.
E non si avvicendano con ordine.
Ho sempre bisogno di una dimensione mistica per ogni indecenza.
E me ne accorgo mentro mi rivesto.
Perchè non raccolgo più, non più, le parole tra le lenzuola.
Sono il passato.
Così uno sull'altro in una pila traballante i pensieri oscillano. Quasi a grattare il cielo. Non conto più le stelle. Perchè la conta mi rattrista e mi stempera la solitudine. Piccoli tentativi di allontanare quella idea. E io e te contro il muro dentro i rumori della strada. E il caldo che si mescolava al tuo respiro ed alla mia saliva. Sembra che tutto questo non l'abbia vissuto mai. O riemerga da una delle immense e malinconiche fotografie che la mente sa secernere. Tutto bellissimo perchè impreciso ed indefinito. E poi i passi nelle scale a soffocare il mio orgasmo nella tua bocca, masticato dai tuoi denti. "Non chiamarmi". Non mi sorprese sentirmi femmina rossa. Una volta mi hai detto che nulla mi stupiva per davvero.  E mentre io ancora ci pensavo, aggiungesti che ero dannatamente perversa. E io mi mescolavo quella parola nella mente, scandendola e cercando una scintilla di verità nei tuoi occhi. Tra le preghiere e i salmi che ormai avevo dimenticato. E non ritrovavo quei battiti di cui ero capace. E non smettevo. Quasi me ne convinsi, di quella perversione indotta, che non sentivo mia. Perchè mancava la innocenza che non ritrovavo, come un imprinting, e che mi impediva di tremarti tra le braccia, persa nel desiderio, unico, di affondarti le unghie nella carne.
E allora capii, come per incanto, che io cercavo il dolore, come se fosse il solo modo per non essere dimenticata.
E mi voltai, esattamente là.
Ad un passo dall'oblio.

Succedeva così. Mi piaceva guardare il mare, penso siano pochi quelli a cui non piaccia, e che non riescano a sentirne il richiamo. A me accadeva, nelle notti d'inverno, con la testa sul cuscino o d'estate con la testa tra buio e stelle. E mi riempivo di un misto di paura e di fascino, come è sempre accaduto per i grandi drammi della mia vita. Quando la notte diventa solo un foglio su cui inventarsi una dimensione speciale. Forse neanche sognare, ma solo sentirsi proiettati, spinti. Spesso di notte studiavo, mi riusciva meglio che durante il resto della giornata, e non smettevo di guardare il mare, mentre ripetevo e mi spiegavo le cose. Come se nel buio la mente si levigasse e fosse più capace di raccogliere quello che ci infilavo dentro; non che fosse così semplice. Ma la parte che amavo era quel silenzio così familiare, intervallato dai suoni della intimità della mia casa, della mia famiglia, un colpo di tosse, un lenzuolo che si spostava, i passi dei miei vicini che rincasavano, il cancello di fronte che veniva aperto e richiuso, sempre alla stessa ora e le lancette che si inseguivano imperturbabili. Durante l'estate leggevo e leggevo, e non riuscivo a smettere. Seguire vite sconosciute, come ad affferrarne i polsi e lasciarmi trascinare dal loro corso. Poi la vita in alcuni momenti ci rende stanchi e pigri e forse un poco tristi o solo immensamente carichi di malinconia e ci sembra di di vivere per differenza, perchè ogni somma è una aspirazione troppo grande; come se la gioia fosse un debito, un pegno per il futuro. E quella stanchezza si sposta dal corpo all'anima e poi viceversa. Fino a nasconderci nel sonno. 
Vorrei tornare capace di sognare
e di sentirmi così libera e forte, 
come nelle notti d'estate.
Con le stelle negli occhi.

Mi piace giocare e prima mi piaceva di più, molto di più. Le dita nella luce nell'assurdo tentativo di scomparla, forse di afferrarla, o solo scoprirne il mistero. E i baci che non finivano mai. Non smettevo di chiedertene e tu ridevi. Correvo per le scale incontro a te e ti spingevo con le mani sugli occhi verso sorprese più o meno plausibili, che si rivelavano sempre autentiche cavolate. Poi il viaggio a Phuket ed il mondo incominciava a stridere, e ancora viaggi, come se nei suoi ingranaggi ci fosse troppa polvere e poco vento. Spiarti, mentre non sai che ti guardo. Ancora lo faccio e ti dono quel vento. Prendilo, e se puoi perdonami. Osservarti mentre vivi una vita inconsapevole, isolata da un vetro offuscato per il mio respiro, e sei opaco oltre i miei occhi. Non riesco a non essere sbagliata. Ti squilla il telefono e sento, sento che parli con lei, una delle tante, delle altre. Ripeti cose che io conosco e che pensavo avessi fatto per me.  Fossero mie. E poi mi ricordo che nulla è per sempre ed anche quando credi che lo sia irreversibilmente non lo è.
Niente più vetro, adesso mi mostro io.
E i tuoi occhi nella mia scollatura potrebbero essere quelli di chiunque.
Ma tu non lo sai.
Nè io te lo sussurro mentre mi spogli.
Ho scritto un messaggio e l'ho affidato alla terra, alle sue radici munifiche, provvide e prodighe. Io stessa non capisco i miei messaggi e le mie parole. E le affido ad un senso differente, nella speranza dell'incanto della comprensione. Quando le parole non contano molto, ma esiste la capacità di afferrare il filo sottile che le ha pervase. E scanso il disprezzo, l'indifferenza, l'alterigia di chi gioca con il mio cuore e con la mia mente. Come se fosse una toppa in cui infilare una chiave che non può girare. Ho sofferto, e a volte soffro, per cose inutili. Ma sono solo io la vittima e l'artefice. E vorrei sapere dire cose diverse e descrivere e saper intrigare e poi sedurre e giocare.
Ma io mi limito ad essere la versione più approssimata di me stessa.
Nella periferia di questa pelle.
Dove mi capita di provare troppo e troppo male.
E sento delle cose che non vorrei neanche descrivere.
Perchè sono solo mie.
E lei mi ha detto che vorrebbe raccontarsi. E io sogno di essere il suo braccio. Le dita. La prolunga del suo sangue. Di setacciare le parole dalla sua anima. E riversarle in fatti. In una storia che è quella della nostra famiglia. Mentre le vene, le sue, si riempiono di voglia di farcela. Di voltare un foglio, o forse un poco in più. Dovrebbe capitare, o essere accaduto, ad ognuno. Prima o poi.  
E a volte penso che l'attesa sia solo un pretesto per negarsi la vita.
L'attesa ci mangia il tempo.
Ed in un modo o nell'altro siamo fatti di tempo.
Sconosciuti nelle vostre vite lontane, non possiamo che donarci la speranza che la bellezza dell'amore e l'amore per la bellezza, nonostante tutto, non ci lasci.
E continui a farsi scegliere ed animarci.
Forse non è un augurio, ma vorrei lo fosse.
Perchè dei sogni non si può fare pacchetti.
Io vorrei sperare che i sogni si avverino, o forse anche solo
che non smettano di esistere.
Nella loro dimensione rarefatta e di difficile presa.
Raccogli quella foglia, l'ho lasciata là alcune vite fa.
Per ricordarti che io ci sono stata.
E che sono passata dalla tua vita.
Più veloce del sangue.
Per una volta ho osato con le parole. Ho provato a dire più che potevo. E mi è sembrato strano. Mi sentivo ridicola nel rilasciare l'affetto, il bene, su un biglietto. Come quando ero adolescente e macchiavo fogli sparsi, perchè non mi piaceva tenere un diario, con i miei pensieri e le mie confidenze. A me. A me stessa. Ero l'unico diario su cui appuntavo le mie emozioni, e tutto quello che sembrava tale.
Era Natale e mi trovavo con gli amici ad una festa. Qualcuno ballava, qualcuno beveva, mentre c'era chi socializzava, in ogni modo possibile e plausibile. Altri osservavano silenziosi, assorti in una distrazione quasi affascinante. Si trovava sempre un posto dove fare festa, o una cosa simile. Una grande stanza, dei genitori tolleranti, qualcosa da bere e la musica, perchè la musica avvolgeva ogni cosa e le dava un vestito speciale. Mi sentivo strana nella gonna nera nuova, regalo di mia zia, e mi ero rifugiata in una poltrona di velluto. La mia amica Mara ballava, Angela giocava a carte mentre io e Daniela ci raccontavamo quello che era accaduto in quei giorni. Non credevo dovesse esserci anche lui alla festa, come mi avevano detto gli amici. Lui restava in famiglia, in quei giorni. Lo avevo conosciuto per caso, forse ad un'altra festa e mi aveva accompagnata a casa. Avevamo parlato un poco, ma era alto e la cosa mi piaceva. E poi gentile. COn le mani belle. E anche quella cosa non mi dispiaceva. Prima delle vacanze di natale mi era venuto a prendere a scuola qualche volta. Lui lavorava e mi sembrava un adulto. E io mi lasciavo circondare dal suo odore buono. Ci hanno abituati ad immaginare l'amore come qualcosa di angelicato, mentre le cose che ci restano impresse, sono gli odori, i respiri, la saliva, gli umori; tutta roba dotata di una corposità media. La mia amica scivolò sul bracciolo prendendomi in giro. E io ne ammirai i capelli lunghi e ramati e la linea perfetta. Io ero diversa e non mi sono mai piaciuta. Ma questa è un'altra storia. La lasciai alle spalle mentre si aggiungeva ai danzatori solitari e mi diressi verso la finestra, mentre la musica copriva le nostre parole e le nostre risate distratte. Echi di una spensieratezza così lontana da sembrare non essere mai stata nostra. E mentre guardavo la strada lo percepii dietro di me, non vicino, ma solo presente. E mi voltai con una faccia tra l'ebete ed il sorpreso, mentre mi spettinava, come sempre, prima di sporgersi cortese per farmi gli auguri. Gli auguri di cosa, chi lo sa. A quel tempo tutto era occasione per toccarsi, per scoprirsi, perchè si ignorava la preziosità della intimità, quella che solo la maturità ti fa apprezzare. Nell'altro angolo della stanza c'era lui, il ragazzo che avevo voluto da sempre e che avrei amato, o giù di lì, ancora per molto. Mi sembrò che ci guardasse mentre ballava con una ragazza mora che mi sembrava altissima, o solo una stronza che si stringeva a lui mentre si parlavano nell'orecchio. Ed era così difficile restare indifferente. Da poco avevamo smesso di fingere di volerci bene. Uno dei suoi tradimenti. Una strana vertigine mi turbò, prima di guardare il mio nuovo amico, e mi sentii tagliare da una gelosia affilata, mentre la sua mano si infilava tra i jeans ed il maglione verde della stronza che ridacchiava. "Portami via" dissi, sorridendo  disperata, o solo felice di vederlo, in uno stato di grazia indotto. La mia amica decise di non seguirci e io mi stringevo nel cappotto mentre una sconosciuto mi teneva per mano, giù per gli scalini, come se fosse un gancio, e la musica si allontanava e mi sentivo meno contratta e più audace, quel tanto che basta per fare una cazzata, perchè solo quella mia avrebbe salvata e ne avevo bisogno. Quale è il confine tra l'essere triste o incasinata? A quei tempi avevo già perso il bandolo della matassa. "Dove andiamo?" mi sussurrò facendosi vicino e passandomi il braccio intorno alla vita. E tutto questo mi inebriava, mi dava una deliziosa sensazione, quasi vicina alla vendetta. "Metti in moto, giriamo un po', così parliamo". E mi sentivo assolutamente capace di sbagliare e lo volevo. Avevo bisogno di stordirmi e mi resi conto che esiste una energia che va oltre il sesso, e che forse sta anche prima, e che quasi si avvicina alla perversione, senza esserlo, uno strano magma che copre e trascina i sensi e io volevo essere sommersa, non respirare, stare sotto, senza soccombere. Rifugiarmi nel mio corpo, come se fosse la tana del piacere. Ed esercitare, dosare, per poi precipitare, nella perdita del controllo, mia e, ancora di più, sua.  Sogniamo le grandi passioni e le immaginiamo come falchi in volo, dalle ali immense. E se fossero invece tutto si riducesse a vene che si intrecciano, si scontrano, si adagiano contro e si mescolano alla carne, avvicinandola, senza condividere mai, ma preservando il nostro egoismo nel modo più elementare che conosciamo. Non pensai sicuramente tutto questo, pensi molto meno, mentre lui tentava di prendermi la mano e io lo sorpresi. Come la peggiore delle ragazze. Cruda come la terra che si spacca nel gelo. 
Ammalata. E mi è tornata la tosse. Brutto segno. 
Non scrivo mai delle mie cose reali sul blog. 
Ma questa volta non ho resistito.
Ho la testa in un'ampolla.
E i pesci rossi mi fanno ciao ciao.
E la cosa bella è prendersi del tempo perchè se ne ha bisogno.
Strano, viviamo carichi di fardelli e di sensi di colpa.
E solo ammalandoci ci sentiamo in diritto di prendere del tempo per noi.
Ma quando passa?
Il rumore della pioggia, prima ancora di divenirne il suono, come una catena verso il quotidiano incedere, si intreccia all'aurora. Fine tra le ciglia, si insedia, con l'odore della speranza. Troppi sogni, come se i numeri ci cambiassero il nome della vita ed il suo corso. L'odore della terra e del rosmarino selvaggio, sotto la muta luna, e il resto non ruba nè toglie. Non so se la bellezza salverà il mondo, ma a volte gli presta i suoi occhi, quasi a renderlo cieco. La magnificenza dei sensi colora il sangue. Forse. Già perchè la bellezza non aggiunge, non scarta, nè scarinfica. Ma rende l'essenziale. Quasi trasluce.
E io ritorno, da dove non ero mai andata.
Non saprei.
E le consapevolezze sono piume.
Anche il disprezzo e la leggerezza.
Senza passato e senza futuro.
Solo una freccia feroce all'arco.
Contratta nella resilienza della passione.
La farfalla indaco non ha ancora rilasciato le sue ali al vento.
Lo strano silenzio di dentro rende irrilevante anche quello di fuori. L'esterno aderisce all'anima come una strana pelle che si cumula e leviga e si sfoglia in giorni. A volte la stranezza è una patina, una coperta, una forma per non spiegare. Non chiarire, nascondere le impronte, verso la casetta nel bosco. Io la sento. Ognuno di noi ha la sua casetta nel bosco più segreto, con il tetto rosso ed il comignolo che sfumacchia. Forse un richiamo, o solo uno sfogo, o uno schizzo d'ego. Non ho perso l'abitudine di sentire, di percepire ogni variazione negativa, ogni imprevedibile flusso inverso, come se smangiasse la serenità, pregno di quel silenzio. Un silenzio innaturale, quasi un buio indotto, dal quale non è possibile scacciare la luce per davvero. E il cielo era pieno di stelle. E quando accade mi piace guardarle a più non posso. Farne incetta, fino a non poterne più. Non cerco assiomi nè ne detto. Li scaccio sempre e mi sforzo di capire. Ho questo maledetto vizio. Ma detesto la debolezza che si proclama fragilità, nell'errore persistente e sfilacciato. Sarebbe facile, ed altrettanto deprecabile, almeno dal mio punto di vista, dire per dire e dire per fare male, o comunque meno bene possibile. Solo che a volte il dolore che si prova non giustifica tutto. E neanche la noia. Perchè ho la spiacevole sensazione che sia proprio la noia, l'assenza di futuro nella mente, la mancanza di sogni, che partorisce la crudeltà più sottile. Un filo di ferro che rende ridicoli. E muove le viscere, come un serpente. Senza sangue. Perchè taglia da dentro e lo nasconde. Quasi fosse un fiume segreto. Spesso accade che si riesca a lasciare traccia di questi pensieri negativi e questo significa in un certo senso separarsene.
Come se il foglio fosse un cielo senza direzione.
Una mare magnum del destino.
E dell'ignoto.
C'è poco da imparare dal male.
Molto dalla luce delle stelle.
E dalla sua inclinazione.
Mi piacerebbe saperla sempre scorgere.
E scinderla dall'indefinito, impedendogli di  racchiudere tutto.
Un pugno che si apre, fino a rendersi carezza.
Coppa e contenuto.
E bocca che sugge.
Ci sono cose che non sembrano nostre, come se non lo fossero mai state, nel momento in cui le immergi nella lucidità, asciutta e ruvida, nell'istante dopo il distacco. Quando le cose hanno preso il loro posto, o comunque sembrano aver perso quello che avevano in te, o nelle tue vicinanze. Nella tua periferia più approssimata. E i lividi restano aloni, o solo simboli che prestano la loro traccia alla carne. Un percorso. Una caccia al tesoro per una dimensione imperfetta ma purissima. Non c'è neanche il dolore a fargli da culla. Per caso lei aveva compreso che le piaceva cucinare. Quasi una sfida in famiglia. Tagliare, trasformare, mescolare, in una chimica che sembrava elementare, e non lo era forse. Sentire l'odore della vita sulle sue mani. E negli occhi dei suoi amici. Era una specie di proiezione sacra della specie, quella. Così dovevano averle insegnato. O le piaceva pensare così. Nutrire chi si ama. Era il modo più immediato per prendersi cura dei propri cari. Anche se a volte riempiva le distanze come le pance. In fondo, la bellezza si può slanciare in lunghezza per diventare lontananza o forse futuro, o solo spingersi verso il cielo e compensare così la gioia in profondità.
E a volte mi fa paura.
Credo che la cura sia attenzione.
Per i dettagli, anche i più minuscoli.

E l'immedesimazione a volte si sovrappone alla dose di sensibilità che riusciamo a calare nelle situazioni. E forse è insensibilità quel velo che ci impedisce di calarci fino in fondo. O solo nel mezzo. E sentire. La dimensione che consente all'uomo di sfiorare la divinità. Io ti sento piccola bambina dal cuore di allodola e dalla pelle di porcellana. E sento tutti i miei limiti, la mia incapacità di proteggerti, mia stella dalle unghie rosse e dalle mani candide. Quandi sogni hai accarezzato e quanti continuerai a sfiorare? Perchè io lo intuisco il tuo sogno e non riesco a spiegarti, nè voglio. Voglio solo restarti vicina e vegliare il tuo sonno e la tua gioia e la tua forza di piccola sarta dell'amore. E ti sento, perchè mi ritrovo e avrei pianto per te e ti avrei abbracciata e l'ho fatto. Tanti piccoli bacini sulle tue fronte bianca. E ho provato l'orrore delle mie parole crude che mandavano in frantumi il tuo talismano d'amore. Ma dovevo. Perchè con me non l'ha fatto nessuno. E tu lo meriti. Il meglio, anche quando sembra far male. Sei migliore oggi, ma non lo sai. E poi passa. Credimi, passa.
Nel vuoto più grigio che si può, quasi a strofinarci l'anima. Ho graffiato l'aria, sospesa. E ho sentito la pelle lievemente cosparsa dai brividi, quelli dell'incerto. Come puntini di un discorso solo rimandato. Forse dentro la pancia di un indefinito e denso ignoto. Linee tra le ciglia come fili di luce. E l'ho trovata, sentendo l'astratto che diveniva carne e risposta e poi risveglio. Non so in quale successione. Mentre la coscienza si versava da una tazza. Ma non ne contavo le gocce. E precipitava da un nessun posto, esattamente dove mi ero astenuta. E trattenuta. Nello stesso tempo.
O in più tempi spersi.
E adesso il mio cuore batte
ed ogni suo battito mi spalma gioia lieve.
Come saliva che striscio sulle labbra
mentre le schiudo.
Esattamente là dove l'indefinito si è leggermente divaricato.
Come se volesse essere spiato.
Ed è promessa di ignoto la voglia di ripetersi ancora.
Vita su vita.
Come se fossimo zolle.
O pietre sparse.
Mano su mano.
Perchè il contatto è l'incanto di ogni pelle
che non sa smettere di essere sua.
E si reclama.
Nessun sentiero, solo una strada.
Ed è per quello che non resisto e mi perdo.
Ripetutamente.
Frammenti di tempo ed i ricordi vengono soffiati via. L'alito del tempo, come polvere di deserti dimenticati, spogli di miraggi, asciutti come rami secchi. E quella goccia che ci salva la sentiamo diluita, quasi al limite della coscienza. Se chiudo gli occhi percepisco il mio respiro, come un filo d'acqua. Quello che ci regge è un filo di ferro che io non voglio chiamare speranza, perchè la speranza ha un'astrattezza che non sopporto. Sui miei polsi ho disegnato gelsomini, per impregnarli di sangue. Se li anussassi sapresti quanto io sia persa dentro i sogni. Sogni macchiati, sporcati, da grumi di realtà. A volte mi racconto la vita che non è stata ed in quei momenti scopro a quanto amore ci sia in quella in cui sono inciampata e magari lo abbiamo ignorato e sottaciuto. Non è la dimensione del sogno che ci rende meno vivi perchè forse nel sognare vi è una intesità più forte, vi è una strana concentrazione di vita, fitta e densa, come un bosco in cui orrore e meraviglie si mescolano ed urlano. E poi penso all'inutilità dell'odio. A quanto sia facile allontanarsi dagli altri per riempire ogni spazio di distanza. Al bisogno di sentirsi speciali, all'idea eroica di noi che abbiamo bisogno di sciorinare nel vento, sperando che le mollichine non si perdano, o comunque non troppo. Io non so comunicare, perchè la mia idea di sogno è la comprensione, la capacità di essere intesa, sentita e sorpresa. Con poche parole, sempre molto asciutte. Quello di cui avrei bisogno, come una dolcezza indecente, cruda e sincera, capace di segnare, di tagliare, di affondare. Fino al confine inverso della mia pelle. Nel solco in cui si cela, come un fiume sotterraneo, il segreto che ci plasma.
 
Il mio è nella mia testa e si rifiuta di ribaltarsi nel cuore.
 
E nel solco dell'errore si insinua l'abitudine. Goffa e stinta la sua veste. La meraviglia è nel sollevare il capo e nel tenere dentro quello che si è provato. Come un gomitolo di sensi, con la pretesa di saper invadere il sangue, come onde del mare. 
Mi assento e ritorno.
E non esisto, oltre l'attimo in cui il desiderio mi ha infilzato, come una spada.
Prima che il rorido oblio tutto plasmasse. 
E tra le ciglia la domanda.
E nei tuoi occhi la risposta.
Ma non li guardo.
Non ora.
Prima o poi.
E il cielo ha meravigliose striature. Le avevo dimenticate, impresse come erano in un celeste d'ordinanza. Oltre una coltre grigia. La penetra e la supera. E la ribalta. Perchè nelle nuvole ci sono sfumature indefinibili. Da non saperle spiegare. Sono la casa di un mistero impenetrabile. E quando mi capita di avvicinarle in volo, provo sempre un tuffo al cuore. E ci si sente là, dal di sopra di un mondo tutto spalmato sotto. Scrivo spesso cose inutili, forse banali, molto banali, ma non mi nascondo, perchè là c'è una parte di me, più o meno segreta, che non colpisce, nè seduce, ma è terribilmente mia. Senza pretese, densa di una normalità che non so togliermi dai gomiti. Striscio pensieri e li lascio inciampare nelle parole. Come vengono. Sbavature di questa mente labile che trema e mi lascia tra le nuvole. Forse nocchia urtate contro l'anima, o contro la sua anticamera. Una piccola casina gialla che sento dentro e che spesso spalanco. Dentro una intimità che non so descrivere e che vorrei fosse colta. Forse strappata. Estirpata. O solo condivisa. Come una spiga di grano matura. Di fronte alla bellezza della natura mi stringo nel silenzio, cercando di sperdermi nelle sensazioni, apparentemente lisce e mute, ma che parlano al sangue, lo interrompono e ne seguono il flusso. Lo sento nel battito che accellera. E non esiste emozione più bella. Senza mediare, senza trattenere, senza misurare. Un minuscolo impeto. E spesso, sempre più spesso, mi succede anche con l'arte.  Nella perfezione sento una meravigliosa inadeguatezza. Nel paradiso turchino concesso alla nostra piccola umanità. Incastri di tempo e colore. Ed è esattamente quello che facciamo, nel cercare fuori, quello che abbiamo dentro. Un percorso in cui la chiavi di porte segrete sono poste su sentieri sconosciuti. Oltre le barriere che spesso sono le paure che ci scorrono. Dentro e fuori.
Il fiume non ha smesso di scorrere.
E l'acqua non ha cancellato.
Non ha coperto.
Ed a valle la foglia dondola nell'ultima corrente.
Prima di aprirsi al grande mare. 
La vita è una foce ad  estuario, a volte.
Se i destriti hanno un carico troppo grande. 
Non fotografo più i posti che vedo.
Mi aiuta a non smettere di ricordarli.