sabato 27 febbraio 2010

Portami al centro di me. Nei corridoi della mia impavida irruenza. Corde di ricordi. Lasciami scivolare. Al centro. Dove pulsa la minuscola scheggia del cristallo pentito. Al centro di ognuno di noi ondeggia un cristallo. E si adagia nei suoi riflessi. Fiero del freddo che sa provare. Nella stanza bianca. Dove il sangue si inchina alla luce. Come un tappeto. E si sforza di guardarla negli occhi. Là le farfalle si strofinano le ali. In cerca di calore. Senza guardare fuori. Fuori è un altro inverno. In un punto impreciso e assolutamente sincero. Io cerco. Di insegnare parole nuove alle mie farfalle. E racconto loro fiabe. Dopo aver accarezzato le loro ali. E i loro colori. La solitudine è un baratro rivestito di specchi. E ci è concesso di essere piccoli imputi dell'oltre. Setacci di verità feroci. Io le lascio scorrere nelle vene. E non resisto. Le sento dimenarsi. Non so diluirle nel silenzio dei sensi. Nella loro voce morbida. Un immenso fiume di sangue che si fa luce e diviene sottile. Come un ago. Capace di ricamarci la trama sulla pelle.
Bacia i miei polsi.
Sono la foce in cui i miei fiumi si scontrano e poi adagiano.
Nella battaglia tra le loro correnti.
E la loro forza.
E rose e nuvole si mescolano.
Raggi di polvere e profumo di sole e spine tessono parole.
Prima di innondarmi le mani.
Fuori è il mondo e la sua luce.
Il mio muro di cinta ha pietre che asfissiano il fiore che mi cresce dentro.
E mordono le sue radici.

mercoledì 17 febbraio 2010

ritrovarsi diversi. Eppure uguali. Diverse parti della stessa pelle. Nella periferia del corpo. Intorno al cuore. Con troppe parole. Cucite addosso. E poi strappate. E ricucite. O ricami di assenza. Vortici. E dirsi troppo senza dirsi nulla. Senza. E volare senza ali. Vuol dire strisciare. Solcarsi. Ritrovare i fiumi che ci scorrono dentro. Sotterranei. Incroci di anima. Pensieri contratti. Contorti. Affinchè tutto possa contenere il massimo possibile. Ed il massimo possibile viene ritenuto tutto. O lo sforzo di protendersi. Le dita a sfiorare il vuoto. Fino al confine. E là contenersi. Rimbalzarsi addosso. E la voglia di nascondersi. E di mordere all'improvviso. Come una licantropa assonnata. Si veste di luna. E si addormenta. E si dimentica di mordere. Invece di azzannare. Mi sveglio sempre all'alba. E l'odore del sangue è scivolato tra i raggi della luna. Una scia o un percorso. Forse bava del cielo. E la luna furtiva ha strappato via la coperta. E hai freddo e una strana fame. E tanto freddo. Io non riesco a lasciare le mie mani vuote. Le riempio. Raccolgo. E poi le svuoto. Ma non sono mai vuote. Ma non ci trovo quello che vorrei.
Apro la mia finestra. Solo un poco. Uno spiraglio. E gioco a nascondino. Con le onde del mare.
Ci sono sensazioni negative che non hanno dignità tale da potersi chiamare dolore.
E nelle conferme mi creo una forma. Mi plasmo e mi cancello. E non è nuvola. Attraverso parole. E le parole attraversano. Affiorano come foglie morte su un fiume. A pancia in su. Sirene di palude. Donna e pesce. Perchè chiamo le cose con ardore. Fino a farmi bruciare la lingua. E ne dimentico il nome. E con la lingua disegno. Con cenere e saliva. Qualcuno le chiama lacrime. Io le chiamo resti. Discutibili resti. Fino alla nuova forma. E non è ancora nuvola. Solo pioggia asciutta. Una finestra segreta. E' una finestra murata. E ci disegno me che guardo attraverso quella finestra. E nessun piumato eroico potrà venire a deporre le uova sul davanzale. Io non lo so se i miei gerani hanno voglia di sbocciare. Ne sento i lamenti nel freddo. E le risatine nel sole malato. Sento che stanno facendosi la strada. Fino al cielo. Fino al pezzetto di cielo che gli è concesso. Disegno una storia. Parole che non lasciano traccia. Una storia astratta e senza inzio. La fine è sempre la stessa. Basta il vento. Per cancellare. E snaturarmi ancora. E la belva si rovescia nella voglia di dolcezza. Fino a farmi tremare. Mi fa tremare la mente. La belva sputa i suoi morsi. Uno per uno. Nella mia ciotola rossa. E non sai se ti viene voglia di piangere. O di ridere. Se è gioia del cambiamento. O l'imbarazzo della dignità liquefatta. Senti solo la voglia di un abbraccio. Di una coperta. Di due braccia intorno alla pancia. E sentirti le orecchie piene di ombra. Di storie senza senso. Di leggerezza fatta a spicchi. E vorresti essere imboccata. Piccoli e deliziosi spicchi di dolcissimo veleno. Biscotti e luna. Quelli che sanno scavarti un buco dentro. Un buco che è solo un viottolo di campagna. In fondo c'è l'estate.
Nella casa della mente pensiamo pensieri che per noi sono mondo.
E li pensiamo con tutto quello che ci è consentito.
Quando la casa freme vuol dire che stiamo varcando la soglia.
Secondo me ne vale la pena.
Ogni finestra apre un mondo nuovo.
E c'è un mondo di farfalle che ruba pezzi di sole e te lo spalma dentro.
E le mie labbra hanno rubato baci. Hanno strisciato il cielo. E se lo sono sparso addosso. Come polvere e lascivia. Ed echi di farfalle. Un tremito. O un fruscio. E nessun sorriso. Perchè io non so dare importanza alle cose. E la dolcezza si è schiusa come dita e meraviglia. Non la merito. Ma un pugno fatto di parole mi ha sfondata. Tra pancia e anima. Mi ha attraversata. La lama dell'errore. Digiuno e fame inversa. E' così difficile distinguere debolezza e fragilità. La debolezza non ha vene. E scelta e rinuncia. Occhi come risposte. E la carezza amputata come uno sputo tra le dita. Le mani a coppa. A raccogliere pioggia benedetta. Come un pozzo verso l'inferno. Hanno rubato baci. Meravigliosi angeli sbronzi. E si sono perse. In un bosco. Solo per poterli seminare. Fuggire. E credere all'ancora. E non è la mia coscienza. E adesso tacciono. In una apnea verde muschio e morbida di pane. Liquida. Da nuotarci dentro. E lasciarsi avvolgere. Perchè così si creano i confini. Tra indegnità e maledetto sbaglio. Mi perdo. E tra le ombre io non so. Nè voglio sapere. Non voglio vedere. Perchè il freddo ha devastato le mie labbra e le ha rese crosta di deserto. E il mio giardino cresce al di sotto. Senza luce. Nè parole. Ogni passo le riempie di crepe. E non riescono più ad atteggiarsi a nuvola. Nè a deliziosa caramella. O a ciliegia ubbidiente. E senza forma i pensieri si staccano dalla mente. Come polline. Senza direzione. Ma con la voglia di andare via. Domani sarò felice. Ma adesso è ancora ieri.

sabato 13 febbraio 2010

E' strano come un desiderio che credevi fosse impregnato di infinito all'improvviso riesca a vacillare. A cadere. Ad inciampare. Tra le fronde della palude delle tue paure. Una diga che freme e trema. Di un canale arido. Si accascia. Come una torre di cartone. Senza far rumore. Senza far male. Senza una parola. Senza aria. Senza. Come se la mancanza fosse l'anticamera del dopo. Il riparo del rimpianto. La sua tana. Un corridoio verso il paradiso. Solleva polvere. E copre tutto. E ti impedisce di respirare. E di vederti. E di vederti respirare. Hai ali di cera liquida. Cambiano la forma. Perchè non hanno direzione. A spasso tra carne e cuore. Vuoi solo aria. Come se fosse magia. L'incanto che cercavi è nel calore della fiamma. Ricopre di luce e ombra. Ma ruba aria. E non riesci ancora a respirare. Sarebbe semplice come capire. Ma non capire rassicura. Senti che l'inquetudine ti vuole parlare. E le sensazioni antiche ti hanno morso i polsi. Tanti morsi equidistanti. Una mappa incerta. Ma i suoi discorsi non ti turbano più. Come i colombi dal cilindro. Forse era una stalla. C'è una patina tra me e il mio cuore. E io non tremo più. E neanche respiro. Solo poco. Rubo aria al mondo. La permuto in deliri. Quello che temo è questa polvere asfittica. Figlia del tempo. Non voglio che mi tocci. E contamini la mia tenera molestia. La mia lurida voglia di essere migliore. Voglio una benda. Fatta di cielo. Bendami. E portami nel vento.
E così. Accovacciata. Setaccio il calore. Come oro rosso. E mi avvolgo. Nell'equilibrio. Mi riscaldo del mio gelido fiato. Come se sputassi neve. Un albero rosso mi volta le spalle. Senza radici. Si nasconde nel buio. Ne sento ancora gli spasmi. Il ricucirsi le foglie addosso. Dopo aver slinguato tenera rugiada. La scia degli amanti. Della loro notte segreta. Dei loro orgasmi che hanno separato i loro corpi ed evaporano al primo sole. E mi respiro contro. E il mio letto è il bosco della mia notte impiccata. La selva della indifferenza. Dove posso immaginare gli odori che mi rassicurano. Mi intreccio al volo di una farfalla. Al suo gioco ad alternarsi tra l'aria e la luce. Come se fossero colonne da schivare. Ho cercato di descriverla. Ma nessuno la vede. E lei continua a svolazzare. Nessuno mi crede. E le storie che mi racconta le tengo per me. E mi lego al senso più vago della dolcezza. Quello sfuggente e leggero. Quasi una carezza. Quasi uno schiaffo. Per resistere devo recidere tutto. Devo rimuovere. E vangarmi l'anima. Ed il senso di distanza che credevo fosse un muro d'edera è la coperta sincera che mi sta abbracciando. Dove il mio alito si scioglie in un prato e va incontro alla mia amica segreta. E alle sue ali. Solo per poterle guardare mentre fendono l'aria.
E crediamo di non meritare o di meritare troppo.
E non conosciamo la misura.
Oltre, niente è più come prima.
La mente ha una temperatura diversa dal corpo.
La mia è affetta da una strana febbre rossa.

mercoledì 10 febbraio 2010

Mi ero persa e mi ero ritrovata. Da parentesi di carne. Estranea. In un equilibrio obliquo. Mollemente adagiata. Concava. Foce di assenza. Fiume arrogante di donna. Onda. Pudore. Fianchi. Pioggia. Foglia. Mano. Dita. Anello. Cerchio. Donna. E il mondo era lontano. Così tanto che stelle taglienti mi pulsavano nella pancia. Graffiti di lontanza. Immensamente crudeli. La lontananza è una luce implosa. Posseduta dall'ombra. Dita che rovistano tra le parole per scegliere quelle giuste. E non sempre quelle vicino al cuore lo sono. Oltre. Con la illusione umida che nulla potesse toccarmi. La pelle è la coperta della mia anima. E il mondo sarebbe tornato. Piano. Prima o poi. Nei polpastrelli. Donna. Fuoco. Papavero. Seme. Frutto. Morso. Terra. Albero. Mentre la protezione e le sue spire mi rubavano l'anima. Fili di anima come coriandoli. E scrivere era coprirmi di parole. Per non dire. Ne sarebbe bastata una. Una sola parola. E me la nascondevo. Tra una vena e l'altra. Poi incominciò a piovere. La danza del cielo. Aghi che ricucivano gli strappi. E gli echi si ribellarono. Raccolsero la loro coda. Come comete scalze. E come debuttanti al loro primo ballo la arrotolarono sul braccio. Fino al gomito. Ricordai. Ammiccavano. Perchè non stavo ignorando. Solo spingendo a fondo.
Albero. Rami. Cielo. Nuvole. Profumo. Capelli. Radici. Fili. Rete. Immenso mare.
Ancora mare.
Il cielo dei pesci.
E non mi sono ritrovata.
Perchè a volte ritrovarsi vuol dire rinnegare.
E non so farlo.
Provare a volte è solo l'ombra della voglia di provare.
Una fame bastarda.
Una piccola e minuscola goccina. Un puntino che si dilata. E vaga. Si infila. E si insinua. Come un'iride egizia. Un palloncino cattivo. Gioca con il mio respiro. Quasi lo morde. E ti respiro a tratti. E attratta. Un buco verso l'infinito. E il suo portentoso orrore. La testa di uno spillo. Spingilo dentro. Squarciami le viscere. Bevi la gioia dai miei occhi. La sto espellendo. Come se fosse veleno. Mi fa paura. Ma resta sempre quella gocciolina. E io lo so che poi passa. Un colpo di palpebre. Un incantesimo al contrario. E i miei occhi saranno asciutti. Come le mie cosce. Nessun umore a disegnare la mia solitudine. E mi farai male. E farà male. Perchè l'innocenza mi scoperchia il cranio ogni e ogni volta. E me la lascio pulsare. Fino ad aver voglia di vomitarla. E la mia iride è divenuta una mongolfiera. Senza cielo. In una gabbia. Mi urta dentro. Ma non ha il coraggio di urlare. Neanche fiata. Muta. E la voce nella testa. Nella foresta dei mille fantasmi. A forma di albero. E le sue fronde sono ragnatele. A caccia di un imperativo che mi faccia sentire padrona. Un tuono a testa in giù. Senza vedere il mondo. Solo con la voglia di lasciar precipitare il sangue. Regina dei mille sassolini scalzi. C'è un aurora furiosa nel mio desiderio. E prende a calci la notte. Perchè non fa differenza. Non è cambiato nulla.
Sono una geisha impura.
Baciami come l'acqua bacia la roccia.
E scorre.
Sono la valle che raccoglie un fiume ignoto.

lunedì 8 febbraio 2010

Potrei dire che ho brividi in corpo questa notte. Come un serpente intorno al collo. Una colla vivente. Intorno al collo. Si allarga e si stringe. E mi percorre lentamente. Come una lingua indecisa. Potrei dire che i brividi stanno inseguendo il mio pudore. Ma non lo dico. E li trattengo. E me li liscio uno per uno. Come tappeti su cui sdraiarmi. E gattonare. E tu mi guardi. Lasciami bere. E non ho sete. Solo voglia di svuotare il bicchiere. E lasciare le goccioline farmi la gara addosso. E mi racconto una storia. Dove il più buono è solo il più distratto. Perchè se è troppo attento annega. Ed i bambini si tappano le orecchie. E il pifferaio si dispera con il suo finto incanto. C'è una galleria tra la saggezza e il delirio. La canna per la dannazione. E pochi riescono ad attraversarla. Basta aspirare. E chiudere gli occhi. Chiudili e prova. E chi più sa più sbaglia. Perchè ha imparato che errare è il mezzo per sapere. Ancora e altro. Ed i miei brividi sono corde di carne e aria e pensiero. Una miscela pericolosa. Ha voce e mani che si infilano ovunque. Fame di istanti che ti fa dimenticare di non aver cibo. E ti fa mordere aria. Senza sentirti. Senza provare il limite. E poi è quello che fa la forza. I denti sulla nuca. Indecisi se azzannare. Se raccontassi mi perderei nelle parole. E raccontarei senza nulla dire. Invece tento. E non racconto ma dico. E provo. Annodo i brividi alle mie braccia. Ed il resto non esiste. Domani torno. Adesso non ne ho voglia. Aspiro e riaspiro. Come tanto tempo fa. Quando la notte era impuzzata da stelle pazze. E io lecco gli odori. Come bacche. Aspiro e mi perdo in mille spire. E i brividi intorno agli occhi mi nascondono il mondo. Una benda. Dove sei? Il pifferaio è morto insieme ai topi. E ho la grotta tutta per me. Come se fosse una prigione. E invece è tana. E i brividi mi legano le braccia indietro. E mi colano dalle labbra. E poi sul petto. Un altro tiro. Un'altra nuvola sintetica. E poi mi ricompongo. Non è altro che una menzogna a pancia in giù. Tanto passa. Sono il mio nulla riempito di me. Non ho altro da spacciare. In cambio di emozioni. E non è poco. Ti chiedo solo di annusarmi i polsi. E di baciarli. Senza farmi male. Tutta passa.
Gelosa. Gelosa delle tue parole. Le ho sentite. E non dormivo. Neanche sognavo. Erano fatte di alito e vento. Avevano saliva che mi è scivolata sul collo. Ti sei fermato sulla nuca. Hai respirato. E ho afferrato quel respiro. Come un fazzoletto. Gelosa. E vorrei chiuderti in una boccia. Come un pesce. E girarti intorno. E accarezzarti. Contro il vetro. E scriverci quello che voglio. Affinchè tu possa cercarmi nella mie impronte. Madide di perversa follia. E ogni tanto aprirla ed assaporti. Mangiarti pezzetto per pezzetto. E farti nutrire di me. Piccolo pescecane. Come se fossi briciole. Deliziose briciole. Sempre meno. Ma l'amore non è un baratto. E il dono di chi non chiede. E muto osserva. Perchè non esistere è come esistere, se non voglio. Gelosa. E modello i fatti e i fatti modellano me. E resto sospesa. Con un graffio per segnalibro. E i suoi lembi come tasca. Solo tu puoi aprire la mia ferita e navigarci dentro. Non ho paura che tu veda. La mia parte orrida è il meglio di me. L'ho scorso nel lampo nel tuoi occhi. La fame delle mie briciole. Della mia terra segreta. E della polvere che ti conduce a me. Gelosa. Farei il calco delle tue labbra. Per dormirci contro. Gelosa. Ma tu non lo saprai mai.
Mi ero persa e mi ero ritrovata. Da parentesi di carne. Estranea. In un equilibrio obliquo. Mollemente adagiata. Concava. Foce di assenza. Fiume arrogante di donna. Onda. Pudore. Fianchi. Pioggia. Foglia. Mano. Dita. Anello. Cerchio. Donna. E il mondo era lontano. Così tanto che stelle taglienti mi pulsavano nella pancia. Graffiti di lontanza. Immensamente crudeli. La lontananza è una luce implosa. Posseduta dall'ombra. Dita che rovistano tra le parole per scegliere quelle giuste. E non sempre quelle vicino al cuore lo sono. Oltre. Con la illusione umida che nulla potesse toccarmi. La pelle è la coperta della mia anima. E il mondo sarebbe tornato. Piano. Prima o poi. Nei polpastrelli. Donna. Fuoco. Papavero. Seme. Frutto. Morso. Terra. Albero. Mentre la protezione e le sue spire mi rubavano l'anima. Fili di anima come coriandoli. E scrivere era coprirmi di parole. Per non dire. Ne sarebbe bastata una. Una sola parola. E me la nascondevo. Tra una vena e l'altra. Poi incominciò a piovere. La danza del cielo. Aghi che ricucivano gli strappi. E gli echi si ribellarono. Raccolsero la loro coda. Come comete scalze. E come debuttanti al loro primo ballo la arrotolarono sul braccio. Fino al gomito. Ricordai. Ammiccavano. Perchè non stavo ignorando. Solo spingendo a fondo.
Albero. Rami. Cielo. Nuvole. Profumo. Capelli. Radici. Fili. Rete. Immenso mare.
Ancora mare.
Il cielo dei pesci.
E non mi sono ritrovata.
Perchè a volte ritrovarsi vuol dire rinnegare.
E non so farlo.
Provare a volte è solo l'ombra della voglia di provare.
Una fame bastarda.

venerdì 5 febbraio 2010

Ci sono parole che non pronuncio più. Neanche me le scandisco nella mente. Mi impedisco di pensarle. Un sussurro inverso. E' lilla la luna. Lilla e odorosa. Ha gli occhi chiusi. Come prima di un bacio. Pudicamente impudica. Protende la sua bocca al cielo. Labbra di luna. Non è un pensiero. E' un tintinnante delirio. Luccica. E mi fa bene. Una ipnosi inaspettata. Altre parole non le pronunciavo più. Poi le ho ricordate. Le ho estratte dal giardino dei sensi. La tasca della inconsapevolezza. Quel giardino che a volte coltivo. vango, curo e semino. E altre stermino. Distruggo. Perchè distruggere sembra l'unica forma possibile. E le annuso come posso. Sto imparando a pronunciarle. Esercito l'ugola. Ma non so cantare.
Ero rimastra incastrata.
Con l'orecchio sinistro.
Sui battiti del tuo cuore.
Una sveglia ubriaca.
Mi battevi dall'orecchio alla mente.
E non passavi dal sangue.
E poi mi spingesti giù.
Ad un tratto.
Esattamente dove volevo andare.
E precipitammo in quel giardino.
Ad intrecciare i sensi.
E a farne ghirlande.
A coltivare e a distruggere.
Nascere e morire.
Ci sono cose di cui ho sempre avuto paura. Come se la paura fosse un dannato bisogno. E temevo in momento in cui si sarebbero verificate. Poi sucedevano. E restavo immobile. Di una indifferenza crudele. E tutte le lacrime che avrei immaginato restavano nella mente. Dove le avevo pensate. Non mi piovevano addosso. E restare immobile era la rassicurazione del calore che riuscivo a provare. E tutto era impercettibile.
Pettino e ripettino i miei capelli.
Non ho più fili di luna.
E' impegnata a sognare il suo cielo.
Sciolgo le trecce.
Prima del taglio.
Netto.
Come i pensieri di cui sono capace.
Senza sfumature.
Il meglio dei colori.
Dove se ne perde il confine.

giovedì 4 febbraio 2010

Ho intrecciato fili d'erba. Fili d'erba e parole. Corde di aria. Una matassa di luce e ombra. Non ho più ciglia per accarezzarti il volto. E strusciarti sussurri maledetti. Come se fossero capelli di angeli blasfemi. E le mie dita grondano pensieri incompiuti. Senza aloni. E senza macchia. Nulla mi tocca. E l'aria è mia compagna. La chiamano solitudine. Ma è solo orrore. Forse paura. La porta che si chiude ed apre. Ha una voce dolcissima. E non è fatta di parole. Quando quella porta si apre è come se mi precipitasse dentro la pancia con tutti i suoi cardini e chiavistelli. La chiave ed i suoi cigolii. Delizie per la mente. Squarciano il cuore. Ma il cuore non c'è. E' un palloncino che si è strozzato. Aveva paura del cielo. E ha preferito rotolare. Chiamando cielo la terra e terra il cielo. Non ne conosceva i nomi. E ha confuso l'amore con l'avidità. In fondo è lo stesso. Per chi non sa volare. Si può strisciare credendo di volare. Ma forse la delizia è nel non sentire dolore. Incuranti di quello che si incontra. E si urta. E che ci tocca. E per sporcarsi non serve la terra. Basta la mente. Sarebbe così bello saper colmare i solchi dentro di noi. Con terra. E fango. Ed erba. E pioggia. Servirebbe a darci un senso di fine e inizio. E forse a lasciarci accarezzare un seme. O forse solo a sminuzzarlo.
Non è solitudine.
E' proprio orrore.
Senso di onnipotenza interrotto. Imploso ed inverso. Piccoli dei imperfetti. Sostutuiamo i pensieri alle sensazioni. Lecchiamo la comprensione. Come fosse nettare. E' solo veleno. E il gioco delle ombre ingigantisce la nostra aura. Solo perchè abbiamo bisogno di ingoiare il mondo. E' tutto dentro. Non fuori. E il seme sperso e sparso. E il palloncino che ci rotola dentro. Hanno mille voci dissontani.
Non so più chi sono.
E forse l'infelicità è solo una colpa.
Erano cucite sulla sabbia le parole. Quasi scintillavano. Erano denti. E l'onda è arrivata e le ha travolte. E un pò di rabbia. E un pò di pentimento. Dove è la donna che ti parlava con i suoi fianchi muti ed avidi? Adesso tace. E' colata a picco. Ribaltata come una tenda. E tace l'onda. E morde. Ha placato la sua fame. Mi sta mordendo il cuore. E il mare ascolta. E le parole sono andate a picco. Io sono acqua. E come l'acqua distruggo. E a volte accarezzo. Ma dura poco. Perchè arriva il sole. E non resisto. Tutto brucia. E non esisto. Come se fosse ombra. Non più. Resta solo il sale. Minuscoli ed impercettibili granellini. Puoi soffiarci sopra. Ogni pezzetto minuscolo di ricordo.
In quale tasca si è nascosto l'oblio?
E trattenere. Resistere. Sentire i muscoli tesi. Come se i pensieri assediassero il corpo. E divenissero mani. E occhi. E piedi. E gomiti. Pancia. Fino a diramarsi come mercenari. Dove più gli aggrada. E le sensazioni. Modellare. Distruggere. Riresistere. Le sensazioni avevano anticipato ogni pensiero. Avevano lasciato precipitare la verità. Come una cascata. E ho asciugato tutta quell'acqua. Adesso il mio corpo ricorda e mi intreccia le risposte. Come radici. E un tappeto di muschio. Sui polsi. Ostento. E sono tavola imbandita. Di una tristezza solida e inutile. Si può affettare. Uno stelo senza corolla. Immagina i suoi petali. E senza forze li tendi al sole. Come lenzuola sgualcite. E guardo le parole. Piccole nuvolette tra testa e labbra. Casette del nostro mondo a cui viene scoperchiato il tetto. Siamo noi che nutriamo un pensiero. E gli diamo il colore che vogliamo. In fondo non ci sono pensieri buoni o cattivi. Felici o tristi. Nasce prima l'emozione e poi ci si tuffa dentro. Una bolla che diviene ampolla. E decide se espoldere. O godersi i riflessi.
E che nelle vene il sangue scorre, nonostante noi.
Il miglior modo per allontanarsi dagli altri è di restargli vicino.
Si dimentica solo se si resta immobili.
Voglio un pensiero futile.
Da masticare.
Come gomma americana.
E dargli tutte le forme che voglio.
Anche quella di una isola.

martedì 2 febbraio 2010

Le nuvole hanno mangiato il cielo. Oggi. O forse già ieri. Perchè il tempo è il cilindro del mago pazzo. Estrae vita. E ce la spalma addoso. Come se fosse gelato. Alla rinfusa. E quello che stai vivendo adesso è il futuro di un plausibile ieri. Ma le nuvole sono buone e tenere. Si commuovono spesso. E sanno farsi da parte. Lasciando al vuoto tutto il vuoto che si può. E anche di più. Nella pancia del mondo. Vorrei restare con il rumore dell'acqua che bolle in sottofondo. L'odore della terra a navigarmi dentro. Fino alle Pupille. Ed i miei gatti sulla pancia. Ad occhi chiusi. Le ciglia profondate nel sonno. Immobili e tese. Come una preghiera. E io placidamente assorta. A sgranocchiare vento. Sembra il rito della catarsi della quotidianeità più sfrontata. E il mio gatto cerca la mia mano e si accarezza da solo. Strofinandosela addosso. Perchè sa prendersi quello che vuole. Io invece cosa voglio non lo so. Voglio non volere. Ed essere come il vento che mi bacia i denti. Dopo avermi spalancato la bocca in un sorriso. Soffiare finchè mi va. E poi spegnermi. Senza preoccuparmi di dovere. E dover esistere. E' così che ricompongo la mia mente. Modello la sua forma. E mi perdo tra le nuvole. E forse erano ancora e solo cielo. Non sono fatta di nuvole. Ma di questa voce che mi freme nella carne.
Anche quando tutto sembra tacere.
E l'acqua si deforma in bolle.
E le bolle esplodono.
La chiamano chimica.
Ma forse è magia.
Nebbia di lana. E respiro ad occhi chiusi. E forse l'aria è luce per le mie paure. Conto. E i numeri mi fanno compagnia. Senza una regola. Non chiedono. E riempiono. Come popcorn. Scivolati. E depositati sotto il divano. Dimenticati. Perchè il film è finito. The end. Mi ha sempre fatto sorridere. Perchè il meglio era nei titoli di coda. Quelli che nessuno guarda mai. E i popcorn reclamano la loro dignità di compagni di viaggio. Quel posto che ci fa sentire pieni di senso. O assolutamente soli. Estranei nella terra di mezzo. Nebbia di lana. Sottile. Mi stria il viso. E attraversarla è restare immobile. Con il fiato in prestito. I giorni si addossano ai giorni. In un equilibrio che si lascia precari. Siamo onde interrotte. Mai arrivate a riva. Affondate ed ingoiate. Forse per la curiosità del fondo. Forse per la paura di toccare la sabbia. In quell'istante in cui non si è nè terra nè mare. E neanche un miscuglio. Assolutamente puri nell'inesistenza. C'è il sole. E lo raccolgo a mani aperte. E lo cogpargo sulle labbra. Non ne ricordo più l'odore. Nebbia di lana. Non riscalda. Ma ruba. E il più povero è sempre il ladro. I fatti sono incastri di vita. Urti che segnano. E tolgono. Ma quanto male fa la paura di essere toccati. Più di ogni urto. Perchè fa più rumore una carezza che uno schiaffo. Rimbomba.
Senza posto. Ed ogni posto è quello giusto. Nella battaglia tra aria e carne. In quel minuscolo spazio dove si infilano i pensieri. Hanno bisogno di poco spazio. Per poter respirare. E lasciarsi pulsare i polsi. O implorare che siano legati. Fino a non poterne più. E vestirsi da idee. Il vestito della nudità più pura. Il cielo è il mio cappello. E i miei capelli grondano ignoto. Annusali. A volte hanno l'odore di mela. Altri di zolfo. Hanno raccolto conchiglie. Come reti di pescatori. Sono annegati in buche. Spingendo tutto alla deriva. Come zavorre. E io ho mangiato terra. Attraversando il divenire. Come se fosse un gioco. Graffiata la mente. Ha sanguinato delirio. E la terra dentro. Dentro la carne. Tra le vene. Fino a quello che crediamo sia l'anima. E ci parla da dentro. Attraverso il corpo. L'ho accarezzata. E schiaffeggiata. Ho scritto la mia storia. Con le mani. Fino ad immergere i polsi dentro il fango. Come se le dita fossero fiori e tuberi. E scavassero verità nella terra. E la terra era fuori. Ma anche dentro. E la rugiada il suo sangue. Ma il mare dell'inconsistenza ti spinge in buche sempre più profonde. Adesso cammino composta. E passo di lato dai pendii. Attenta a non subirne il richiamo ammiccante. Sirene e fragole. Ed osservo le parole. Osservo le parole che penso. E mi incanto sul suono che penso possano avere. Le distillo da ogni plausibile senso. E' la solitudine il fosso in cui scivoliamo. Scappare serve solo a cospargerci la pelle di graffiti incomprensibili. Quelli che hanno una voce vorace. Capace di distruggere ogni ricordo. Basta restare immobili. E ascoltare. Poi passa. Tutto passa. Ma tu non muoverti. E poi passa.
Affonda dentro la mia carne.
E prendi tutto.
Anche quello che non c'è.
Sono il banchetto del nulla.
Mordimi.
Perchè quello che voglio è un segno.
Tra la terra che mi pulsa contro.
E succhia ogni traccia di rugiada.
L'orgasmo impuro tra cielo e fango.
E forse pensiero segreto.
E' vero.
Scanso ogni buca.
Forse è una ferita del mondo.
E ho paura di scivolare nella sua pancia.
E osservo tutto da lontano.

lunedì 1 febbraio 2010

E mi osservi. E osservo te che mi osservi. E i tuoi occhi mi parlano. Mi rovesciano parole tra le vertebre. Lente mi riempiono di silenzio. E presti gli occhi al mio tormento. Li lasci piegare. E piegarsi. Accarezzare la terra. Sono steli nel vento. E tremano. Non è paura. Quella è nella serratura. Il muro che ha scavalcato il tuo sguardo. E il vento li arcua. E mi scivolano tra i gomiti. E li sento come aghi nella schiena. Ricamarmi il silenzio. E le sue ali. Torbide e dimenticate. Sento i tuoi neuroni rotolarmi sulle ossa. Schiudersi come larve. Nella mia carne. E abortire farfalle. Ad ogni colore un sospiro. E si scioglie intorno alle mie braccia. E divora. La sagoma. E quello che dentro timido batte. Cuore di luna. Si spegne nel giorno. E il mio neo è il piccolo sole che tenta di sorgere. In direzione del cuore. E le tue ciglia sul mio collo. Senza toccarlo. Perchè sentirsi è lasciarsi fremere la mente. E annegarla nel corpo. Lasciarsi scorrere nel sangue. E levigare il corpo ad un pensiero. E mi osservi. Ancora. Come se fossi la parete che scorgi oltre il buco della serratura. Senza chiave. Giace sul fondo. In una coscienza qualunque. Leghi quello che resta di me in una scia. Una corda invisibile. Sta frustando il cielo. Solchi di cielo. Come se avessimo fame. E mi osservi. E i tuoi occhi sono i miei. Perchè vedersi attraverso gli occhi degli altri significa un pò rinascere. E ogni delusione è solo una piccola stella che si spegne. E il cielo continua a splendere. Respiro dopo respiro. E' anche l'occasione per osservare il buio. E un pò contemplarlo. Siamo fatti di buio e di luce. Basta accettarlo. Adesso puoi riprenderti i tuoi occhi. Il vento ha smesso di soffiare. E tutto tace. E va bene così.