mercoledì 31 ottobre 2012


Bella l'idea di un foglio bianco. Su cui poter descrivere quello che voglio. Leggimi, sono il foglio su cui la mia vita si è adagiata, e lo ha segnato, imbrattato, lievemente sfumato. E forse voltato. In genere non mi allontano molto dalla verità. Anche se la confido a pochi. Credo che la nostra verità sia la parte più intima e sentita. Più vicina possibile alle ossa, a confine con il nostro sangue. L'anatomia dell'anima. E dunque condividerla, nel senso proprio fisico di offrirne pezzetti, sarebbe proprio come offrire ad un altro il proprio braccio, le proprie dita, il proprio collo. Senza aver paura. Perchè un amico può, al massimo, annusarti, ma non ti morde. Non mangia un pezzo di te, se tu non vuoi. Anche se glielo offri. Dicevo che mi piace trovarmi al punto successivo. Quando ho detto proprio tutto. E non ho più niente da ricordare. Io a quel punto mi volto e non ho altro da dire, non perchè mi trattenga, o nasconda i pezzi, ma perchè vedo solo un nuovo foglio, meno bianco del precedente, con i fogli più spessi e ruvidi, e mi piace osservarlo. Ne conservo il candore iniziale un pò più a lungo. Quel bianco è come se fosse la pausa da tanto e troppo colore, un meritato silenzio degli occhi. Un lieve oscillare della mente, quasi a dimenticarsi. Non perchè si voglia sfuggire dal passato, ma solo perchè si ha voglia di futuro. Senza raccontarsi ancora, ma solo aspettandosi, senza fretta.
Con tutto l'amore che so dare.
E che non nego.
A volte solo a me stessa.
E quello che devo ancora imparare,
a sentire,
a dare,
a riconoscere.
A rispettare.
E quello che provo e che non è mai sprecato.
Nessuna acqua va mai davvero persa.
Siamo fontane, siamo foci, siamo mari.
O solo rigagnoli.
Che conta?
Forse è un addio, ma non ci contate.
Io torno sempre.
Anche più di una volta.
Mi piacerebbe chiederti di non dimenticarmi.
Ma so che è impossibile
e dunque ti
chiedo di ricordarmi
un pò migliore. 

Solo una scarpa. Non ricordo dove sia l'altra. L'asfalto sotto i piedi. Forse l'ho persa in qualche strada, riversa insieme alla mia anima. Respiravano insieme, stordite dal vino. Scarpa di raso e anima di lana. Protegge dal freddo, per gli inverni del cuore. Capitano. Se volessi potrei descriverli, ma non voglio. E' quella la strana intimità in cui desidereresti, anche brameresti, si infilasse, come in una tasca, qualcuno, ma davvero speciale. Senza far rumore. Senza far domande. Senza delusione. Senza aspettative. Ma la logica del cuore sfugge ad ogni regola. E' una logica illogica. Un trucco, quasi un incantesimo. Dove i numeri vagano come nuvolette. Basta poco per essere felice. E se mi fossi voltata avrei capito. Chi ti ama non ti nasconde. Non ti annega in una tana. Non gioca con le figurine. Non si vergogna di te. Perchè il bene vuole luce. Vuole respirare luce con te. E non gli basta mai. Non ha misura. E io randagia ho osservato la guerra delle molliche. Ad una festa, sempre sola ad un tavolino. Tu sorridevi a tutti. Neanche un sorso, neanche un goccio. Sono morta di sete. E di noia. Oggi non voglio sapere nulla. Quando qualcuno ti piace non vuoi perderti nulla di quella persona. E sotto una pioggia di ciglia, ho atteso. Ma non ero la lettera giusta. Sempre abbastanza imperfetta. Troppo gelosa, troppo riflessiva, troppo passionale, troppo poco importante. Quell'imbarazzante "ti voglio bene" che tagliava come una katana. Come rassicurare una donna che ti ama? E che non ami? Mi sembra un delizioso espediente. Geniale direi, lo avrà inventato il primo uomo che si è imbattuto nel triste equivoco dell'amore non ricambiato. Immemore ed immonda, solco il mondo. Io non ero tra le carte giuste. Oggi sono scalza. E mi piace strusciare la terra e fregarmene. Alzarmi la gonna e mostrarmi alle onde, mentre ci salto dentro. Il mare in inverno è un pugno nel cuore. Arriva dritto in fondo. E ti toglie il respiro. Ha un odore speciale. Quasi violento. Ma io oggi non lo ricordo. Ho solo questa maledetta voglia di disegnare il mondo. Con i sensi. Come una luna inversa e perversa. Quando si piega, là,  al suo mare. Senza voglia di splendere, ma solo di affondare, nel buio, non in uno qualsiasi, ma proprio in quello. Non chiamatelo delirio, e neanche piacere. Perchè nome non ha. Ma è il tentativo di dimenticarli tutti. Sento l'aria ed il silenzio sulla carne. Ed un meraviglioso pozzo al centro. Oggi sono vita intorno a quel pozzo. A quel vuoto fecondo e vorace. Voglio che mi scivoli addosso e poi subito dentro. Senza parlarmi. A strapparmi ogni sogno, a deflorare ogni illusione. Voglio essere carne muta e smemorata. Scopami, senza fermarti. Fino a devastarmi. Scopa tutto quello che trovi; distruggimi. Sono solo una caverna. Dove nascondersi. Non ci sono segni, non ci sono vene, non ci sono pieghe. E la mia mente non deve pensare, solo sentirsi un incalzare di sensi. La loro deriva. Una specie di vento. Io sono donna, oggi, oggi così. Donna, quasi a rovesciarsi il sangue addosso. A mescolarsi le viscere. Ad ingozzarmi di luna furba ed un pò zingara. Oggi va così. Perchè c'è una immensa profondità nella leggerezza. E basta dimenticarsi. Impedirsi di farsi memoria. E voltarsi, come le maree che si rincorrono. Senza raggiungersi mai. Come una declinazione sbagliata. Oggi sono spersa. Sono un pugno di semi nel vento.E ho fame di terra.
Fottiti.

domenica 28 ottobre 2012


Bella l'idea di un foglio bianco. Su cui poter descrivere quello che voglio. Leggimi, sono il foglio su cui la mia vita si è adagiata, e lo ha segnato, imbrattato, lievemente sfumato. E forse voltato. In genere non mi allontano molto dalla verità. Anche se la confido a pochi. Credo che la nostra verità sia la parte più intima e sentita. Più vicina possibile alle ossa, a confine con il nostro sangue. L'anatomia dell'anima. E dunque condividerla, nel senso proprio fisico di offrirne pezzetti, sarebbe proprio come offrire ad un altro il proprio braccio, le proprie dita, il proprio collo. Senza aver paura. Perchè un amico può, al massimo, annusarti, ma non ti morde. Non mangia un pezzo di te, se tu non vuoi. Anche se glielo offri. Dicevo che mi piace trovarmi al punto successivo. Quando ho detto proprio tutto. E non ho più niente da ricordare. Io a quel punto mi volto e non ho altro da dire, non perchè mi trattenga, o nasconda i pezzi, ma perchè vedo solo un nuovo foglio, meno bianco del precedente, con i fogli più spessi e ruvidi, e mi piace osservarlo. Ne conservo il candore iniziale un pò più a lungo. Quel bianco è come se fosse la pausa da tanto e troppo colore, un meritato silenzio degli occhi. Un lieve oscillare della mente, quasi a dimenticarsi. Non perchè si voglia sfuggire dal passato, ma solo perchè si ha voglia di futuro. Senza raccontarsi ancora, ma solo aspettandosi, senza fretta.
Con tutto l'amore che so dare.
E che non nego.
A volte solo a me stessa.
E quello che devo ancora imparare,
a sentire,
a dare,
a riconoscere.
A rispettare.
E quello che provo e che non è mai sprecato.
Nessuna acqua va mai davvero persa.
Siamo fontane, siamo foci, siamo mari.
O solo rigagnoli.
Che conta?
Forse è un addio, ma non ci contate.
Io torno sempre.
Anche più di una volta.
Mi piacerebbe chiederti di non dimenticarmi.
Ma so che è impossibile
e dunque ti
chiedo di ricordarmi
un pò migliore. 

martedì 23 ottobre 2012


Rovisto nella cesta della gioia, tra panni smessi, e sporchi di succo di more, con cui tingevo la mia bocca, a caccia di un segno, di una traccia o di uno sberleffo. E calze smagliate, dopo aver avvolto i miei passi, e forse qualche caduta. Un piede avanti all'altro, in  un equilibrio, che ora sembra così ridicolo, quasi tenero, e forse era un velo o un lenzuolo. O tulle turchino. Eppure non smetto, perchè so che c'è. Forse proprio in fondo, c'è, deve esserci, non può essersi perso. Il mio braccialetto di margherite gialle. Sembravano pezzi di sole rubati al cielo. Mentre erano solo timide corolle spezzate. E mi piaceva sentirmele sui polsi. Con l'odore della primavera vicina vicina alle mani. Mi faceva sentire quasi magica, quasi speciale. Nel rimbalzarmi addosso della più fragrante illusione. Tutta protesa indietro, come le spalle nel vento. Quasi in diritto di pretendere la gioia. Ci sono delle cose che facciamo e ci facciamo. Le strappiamo al mondo, senza curarci delle conseguenze. Pezzi di mondo che cedono il posto ad altro. Prestiti di dolore e dignità e gioia, tutto in fila, senza riporto. Io sono malata di ostinazione. Quella perseveranza, che adesso quasi mi da noia, al confine con il deliro, ma assolutamente vera, con quella forza che quasi spaventa, perchè non ha limiti. Un fodero di orrore e di indecente crudeltà. E a volte mi sono vista nel delirio. Mi sono guardata compiaciuta per la scena e per gli effetti intorno. Ho visto i miei occhi riempirsi e svuotarsi come navi nella tempesta. E poi mi sono sentita immensamente vuota, così tanto da cedere il posto alla speranza. Un piccolo e angusto spazio. E poi nuova vita. Colando a picco, come un sasso. Ma una volta è accaduto invece che io non fossi fuori, ma assolutamente e dispreratamente dentro a tutta quella disperazione, e c'erano strati di vite, mie, o forse no, e io ho provato a scostarle, per ritornare fuori, esattamente dove tutto è iniziato, ed ho sofferto per i muri di ostinazione e di egoismo che mi si sono schiantati contro, resistendo a tutta la mia furia. L'unica superstite nella valle delle ombre. Perchè a volte si crede che l'egoismo sia un diritto e chi lo crede è chi non sa più fare spazio ed in quello suo non sa farci entrare gli altri ed altro che colpe che non sa afferrare. Ecco, io sono uscita. E mi ritrovo anima e tre fili d'erba, forse strappati a quel prato. E adesso fuori, rivedo tutto il resto, un film quasi noioso, dove il consenso ed il bisogno facevano di spada, senza ferite nè sangue. Solo aria che si adagiava ad altra aria.
E così ho compreso che tra crudeltà e verità, il distinguo sono io.
Sono io che ho permesso.  
Ho chiesto morsi per capire che ero di carne.
Ed il mio biglietto è adesso questo, il sangue che scorre sotto questa pelle, 
e il bisogno di ricominicare a desiderare.
E poi l'inverso, con la necessarie inesattezza.
E' stato bello darti la mano e aprirti la stanza dei miei sogni, dove c'è ancora posto.
E accorgermi  finalmente del tempo.

Rovisto nella cesta della gioia, tra panni smessi, e sporchi di succo di more, con cui tingevo la mia bocca, a caccia di un segno, di una traccia o di uno sberleffo. E calze smagliate, dopo aver avvolto i miei passi, e forse qualche caduta. Un piede avanti all'altro, in  un equilibrio, che ora sembra così ridicolo, quasi tenero, e forse era un velo o un lenzuolo. O tulle turchino. Eppure non smetto, perchè so che c'è. Forse proprio in fondo, c'è, deve esserci, non può essersi perso. Il mio braccialetto di margherite gialle. Sembravano pezzi di sole rubati al cielo. Mentre erano solo timide corolle spezzate. E mi piaceva sentirmele sui polsi. Con l'odore della primavera vicina vicina alle mani. Mi faceva sentire quasi magica, quasi speciale. Nel rimbalzarmi addosso della più fragrante illusione. Tutta protesa indietro, come le spalle nel vento. Quasi in diritto di pretendere la gioia. Ci sono delle cose che facciamo e ci facciamo. Le strappiamo al mondo, senza curarci delle conseguenze. Pezzi di mondo che cedono il posto ad altro. Prestiti di dolore e dignità e gioia, tutto in fila, senza riporto. Io sono malata di ostinazione. Quella perseveranza, che adesso quasi mi da noia, al confine con il deliro, ma assolutamente vera, con quella forza che quasi spaventa, perchè non ha limiti. Un fodero di orrore e di indecente crudeltà. E a volte mi sono vista nel delirio. Mi sono guardata compiaciuta per la scena e per gli effetti intorno. Ho visto i miei occhi riempirsi e svuotarsi come navi nella tempesta. E poi mi sono sentita immensamente vuota, così tanto da cedere il posto alla speranza. Un piccolo e angusto spazio. E poi nuova vita. Colando a picco, come un sasso. Ma una volta è accaduto invece che io non fossi fuori, ma assolutamente e dispreratamente dentro a tutta quella disperazione, e c'erano strati di vite, mie, o forse no, e io ho provato a scostarle, per ritornare fuori, esattamente dove tutto è iniziato, ed ho sofferto per i muri di ostinazione e di egoismo che mi si sono schiantati contro, resistendo a tutta la mia furia. L'unica superstite nella valle delle ombre. Perchè a volte si crede che l'egoismo sia un diritto e chi lo crede è chi non sa più fare spazio ed in quello suo non sa farci entrare gli altri ed altro che colpe che non sa afferrare. Ecco, io sono uscita. E mi ritrovo anima e tre fili d'erba, forse strappati a quel prato. E adesso fuori, rivedo tutto il resto, un film quasi noioso, dove il consenso ed il bisogno facevano di spada, senza ferite nè sangue. Solo aria che si adagiava ad altra aria.
E così ho compreso che tra crudeltà e verità, il distinguo sono io.
Sono io che ho permesso.  
Ho chiesto morsi per capire che ero di carne.
Ed il mio biglietto è adesso questo, il sangue che scorre sotto questa pelle, 
e il bisogno di ricominicare a desiderare.
E poi l'inverso, con la necessarie inesattezza.
E' stato bello darti la mano e aprirti la stanza dei miei sogni, dove c'è ancora posto.
E accorgermi  finalmente del tempo.

E poi trovarsi al centro di un'assenza. Lenta ma efficace. L'odore puro della campagna e dei suoi muretti tormentati dal caldo. Come una medicina. Gocce che ingoi come una campana nella notte di cui non riesci a contare i rintocchi. Ti fa pensare di avere un tempo indefinito da masticare, da suggere, da lasciarti rimbalzare sotto il palato. "Recondita armonia". E i brividi ed un tuffo in un mare, quello che non smette di incalzarti. Tutti abbiamo il mare dentro. Abbiamo tutto quello di cui abbiamo bisogno. E tanto più vero ed autentico, quanto è più silenzioso e fa capolino in istanti che tu consideri inutili ma decidono di afferrarti la vita e per una volta non di essere afferrati. E non sono momenti inversi solo diversi. Dove non serve contare ma esistere con tutta la naturale semplicità che la vita richiede. "Dammi i colori". In una notte qualunque d'estate. Con un tappeto di stelle sul capo, così tante che, appena inclini il capo un poco all'indietro, ti accorgi di loro e ne contempli gli intrecci e le forme, appoggiate al cielo. In una mutevolezza che non delude ma incanta e lascia sognare, e non ci fa smettere di desidere di guardare il cielo. E dentro e intorno e a fondo, un vuoto sincero, come se fossi una canna liscia e pulita e ti chiedi se anche dentro ci sia un pochetto di cielo. E sai già, da sempre, quale sia la risposta, ma ti sembra banale dirtelo, e allora lo senti, in uno strato più profondo, solo che non sai come tirare il telo, e iniziare a goderti lo spettacolo. "Le diverse bellezze insiem confonde". Quasi rassicura di avere tanti pensieri e non solo uno, finalmente. E di trovarsi al centro di quell'assenza. Finalmente e precariamente cauta e leggera. "Di bellezze diverse". Sorseggi il tuo succo di vita e non neghi un sorriso a nessuno. Neanche al mistero della notte che si fa giorno, e non dura mai. Come le foglie degli ulivi che non smettono di protendere le braccia al cielo, senza paura di restare nudi. Sogno silente di una notte di un'estate matura e in superficie.
Con poche parole.  

Era rimasta colpita dalla linea delle sue mani. Un inarcarsi, inaspettato e bellissimo. Non aveva guardato il resto, ma quella curva, che dal polso si rendeva piega ed istmo e che prepotente si piegava fino alle dita, aveva raccolto i suoi occhi come acini maturi e li aveva tenuti in sospeso. Una sorta di contemplazione lenta e pudica, astratta quanto bastava. Mani adorne di vene, come fregi, ed energia asciutta. E gli parlò, solo concentrandosi su quella linea indaco che si diramava come un fiume. Sulla pelle. E mentre parlava, nella assoluta incoscienza della sua bocca, come se fosse altro da sè, scandiva e modulava la voce, e se la sentiva solo separare dalla gola. Mentre avrebbe solo voluto afferrare quel palmo e toccarlo e seguirne le linee e poggiarci le labbra e schiacciarle su quel battito, come se in quel punto ci fosse stata una sorgente, forse un cuore lontano. Quasi come se avesse avuto voglia di bere. La voce di lui la distrasse e la costrinse a guardargli gli occhi e le ciglia fitte, fino ad intrappolare le sue pupille dentro la sua iride, come dentro una gabbia, una rete, un setaccio, dai quali si vuole solo colare, uscire, sfuggire. E la misura è solo lo sforzo per resistere e ricercare una forma plausibile. La misura che lo stato delle cose ci impone. Senza smettere di arrivare dall'altra sponda, oltre tutto il limo, oltre la corrente, dove quella misura non conta. Fosse pure con un balzo o con un battito di ciglia. O con un respiro. Tutto questo durò per alcuni istanti, durante i quali le sembrò di riesplodere, all'improvviso, dall'oblio, da una assenza o da un piccolo viaggio a ritroso. O solo da una vertigine. Ed ignorando, nella maniera più assoluta, quale fosse e fosse divenuto, nelle more, l'oggetto di quella plausibile conversazione, di quel rincorrersi di sillabe, si ritrovò estranea e distratta in un discorso vago. Infilzata sull'asfalto, come un sassolino lunga la strada. E lottando con l'idea di quella mano, e del suo bordo, e del suo confine con la luce, e del suo senso, suo e di tutto il resto, e della misura in cui fosse parte di quella creatura, e quanto di lui ci fosse, in un impeto si chiese piuttosto quanto di lei ci fosse nel suo sguardo curioso e assorto, lo stesso che l'aveva resa distratta e catturata e calciata come una pallina, il più lontano possibile.
Fissò il cielo.
Come si conviene.
Per non sbagliare. 
Perchè una donna a volte deve sembrare meglio di quello che effettivamente è.
E quella pausa dalla realtà in quel momento la divertiva, e non poco.
E con il suo modulo davanti, impigliato in una penna, senza direzione, propose una pausa, magari un sorso d'acqua fresca, o un venticello. 
E mentre camminavano, vicini e gentili, si impedì di sfiorargli il polso.
O forse no.
Bastava così poco...

Strano, tutto fatto e avvolto e rivestito di una stranezza evanescente, tanto che se ci affondi le mani, alla fine restano sempre deliziosamente e meravigliosamente vuote. Con i margini slargati. Come se la sagoma ne fosse la reale essenza. E' come quando sei felice di sapere che un cielo stellato è il tuo coperchio. E non chiedi altro e provi proprio quello strano disinteresse per ciò che non è per te davvero importante. In una via, quasi invisibile che porta sempre indistintamente ed inevitabilmente al cuore, e si sporca di cuore e non chiede nulla in cambio. Forse provare, sentire, riempirsi e svuotarsi. Come se l'anima fosse la scatola delle maree. O forse essa stessa una marea che le raccoglie tutte e le rovescia. L'anima è liquida, ne sono certa. Scorre, precipita e ritorna. Sempre più strano. Come accarezzare l'aria, o morderla. Una lite precaria con il fiato. E con il sangue. Lanciando il cuore più lontano possibile. Piccolo satellite di una vita che si proclama repubblica indipendente, ma supplice langue senza la sua luce. Pallidi e gracili tentativi di una tenera e pura inesistenza. Spostarsi di vita. Come in una corsa forsennata contro invisibili slinding doors. Fiato e mente si mescolano. Un salto sopra un nuovo vuoto, in un piccolo buio, e poi dell'altro nuovo. Fosse solo una nuova luce. Un nuovo sguardo. Una diversa visuale o una angolazione più vivida. Io non voglio specchi da altre vite. Io voglio sentire la mia, più che posso. Più strano di così non saprei. Ognuno proclama la assoluta originalità di quello che sente. Come se non vi fossero sentimenti già noti, provati, pensati, sognati, per affezione, per simpatia, per macabra emulazione, o in una simbosi inconscia e leale. Come ciò che ci avvicina di più a ciò che ci sembra affine. E affine sentiamo. Capita. E in quell'istante le vene diventano arpe.
E viviamo come bolle a metà, indecise se esplodere o continuare a brillare ancora nell'aria.
E non è mai la stessa.
E' fatta di mutevolezza la pelle del mondo.  
Anche se mi sembra difficilissimo mi piace vivere.
A volte ti seduce e manda in frantumi ogni resistenza.
Come se la follia ed il paradiso non avessero confini.
E tutto diventa più liquido e semplice di ogni plausibile piacere.
Come vestirsi di acqua.


Quando qualcosa mi irrita, ho imparato a fermarmi. Un tempo cercavo di capirla. Ma è inutile. Bisogna lasciare andare via, e far scorrere, tutto ciò che, anche solo istintivamente, non ci piace. E immobili voltare lo sguardo. E così ho compreso che la forza non sta nel dire la cosa peggiore ma nel leggerla e sorridere. Non ho detto riderne nè ridere di quella cosa. No, sorridere alla vita. E leggermente accarezzare ciò che ha la bellezza della semplicità e dell'essenziale perchè è quello che in fondo ci dà la forza e ci rende un pochetto migliori. Ciò che ci piace, senza artifici, senza orpelli e senza inganni. Senza troppe parole. E senza il bisogno, lo stesso bisogno che ci rende pezzenti impenitenti e capaci di ostentare una facciata d'ordinanza. E subito, al primo scossone, diventa veleno. Il rispetto è un filo invisibile e delicato e avvolge bozzoli di farfalle fragili. Non sono molto loquace, non riesco molto a parlare di me. Non è neanche riservatezza ma solo disinteresse per certi modi e dettagli. A me colpiscono altri. Qualcosa che mi attrae e che spesso è astratto. E mi piace afferrare i lembi di ogni traccia di bellezza che incontro, ma senza farne nodi. Come fossero vele. E se voglio bene non me ne vado facilmente, e questo gli sventurati/e che inciampano nel mio cuore, lo sanno bene. Altrimenti riesco a tacere ed a voltarmi abbastanza facilmente. Anche se non mi piace, anche se la mia indole e la mia natura è portata a spiegare ed a spiegarmi. E questo mi fa barcollare come una lampada nel vento. Ma solo per poco.
Brrrr...

Uno straccio al centro. Umido e silenzio. Paludi interiori. O solo oasi segrete. E quel panno quasi si contrae, come una spugna, come una stella che gronda sangue, come un fiore ebbro. E resta a suggere aria e vuoto. E un pò di rispetto, che come il sale non guasta mai. E questa è spesso solo una sensazione. Assonante e allitterata. E rende poco la realtà. Ma fa bene. Anche se le si avvicina e ha quasi paura di toccarla. Come una carezza di dita appassionate. Prima di superare il limite. Nei più precari e fragili degli equilibri, prima di sbordare e divenire una armonica imperfezione. Tracce di pensieri senza logica. Come sassolini. Senza pretesa. Uno dietro l'altro. Senza regole. File senza direzione. Senza l'ardire di spiegare. Sembrano frecce scoccate verso l'orizzonte. Lo straccio si ritrae e si accuccia. Come un piccolo che ha bisogno di calore. E di protezione. Quel cucciolo è dentro ognuno. Sotto ogni corteccia ed ogni lieve foglia e i suoi stomi e i suoi spasmi. E a volte nella notte vaga e cerca e ricorda. E si annoda. Ed è dolcissimo e struggente. Così tanto che devi trattenerti i polsi, devi intrecciarteli. Come tamburi che non segnano una marcia, ma una rincorsa. Per raccogliere quei sassolini. E non importa molto dove sia orientato il cammino, ma la sua scia, la sua eco fugace e leggera. Il suo profumo ottunde e segna l'anima. In una lastra che gioca con la luce. Per vestirsi di riflessi. E coprirsi quando ha freddo. Io detesto l'ostentazione. Anche quella che si nega. E si appalesa come pervicace modestia. 
Ed io confesso.
Ma mi pento poco e male.
E resto intrappolata nella rete.
Ed è la mia mente.
Ed è sedotta.
Ed è seducibile.
E mi sento pesce.
E mi sento conchiglia.
E maglia che stringe.
E carne che si riga.
E mi sento errore.
E mi sento dono.
E mi sento menzogna.
E mi sento sacramento.
In attesa di una lama che la tagli.
Senza pietà.
Con le dita umide di promesse.
Avrei voglia di strisciarle sulla tua bocca.
E di raccontarti il mio mare.
E mi rovescio disumana.
Tremula.
E ti offro il mio sangue.
Non voglio pensare.
E lo faccio.
E ho pensato che la voce dell'acqua non mente mai;e che la bellezza ha un tempo diverso, così tanto che brucia e divora ed accorcia e dilata. E l'amarezza non ti appartiene se sei capace di guardare il cielo. Resta uno strato sottile di vento a giocare con le foglie, come se fossero mani, più fine della malinconia, e più spesso della verità. E nel silenzio senti, potentemente senti, una finestra blu, dentro una casa rossa ed inespressa.

L'unica fede che ci unisce è il bene. Sembra così banale, ma riesci a sentirne la serpentina leggerezza mentre lo pensi, mentre te lo ripeti. Mentre lo scandisci. Senti quel desiderio forte sotto il palato. Prima del prossimo respiro. Prima di sbadigliare. Prima di annegarti dentro un pò di incoscienza. Un bene che non ha vestiti e non vuole forme. Niente è più nudo del bene. Di quella bellezza senza consistenza ed apparenza, che si adagia, si infila, arriva, scorre. Come acqua. Come un'acqua impalpabile. E che non bagna, ma asciuga. Senza strofinare, senza cancellare. Tutto il resto diviene altro che spesso bene non è. Tutt'altro. Strati di civiltà, sovrapposti, affinchè ciascuno riuscisse a cancellare i segni dell'altro, in favore del proprio, in una fila, in cui non si sarà mai l'ultimo. Non esiste il coperchio del mondo. E quella voglia di arrivare oltre, chi aveva preceduto, rende tutto una idea; alla fine resta solo l'idea, un senso fastidioso di grandiosità e pochi nomi. E l'oblio su chi non ha deciso ed ha subito. Come se la ruota scorresse sempre inversa ed affamata. E il tempo coprisse. 
Non sempre il fasto è bellezza.
Forse stupore.
Ma dopo il cielo tornano a guardare il cielo.
Come se fosse una spugna.
Mi piace pensare a tutto ciò che non sa di realtà.
A qualcosa che sta oltre.
E mi aiuta a non pensare, a non sentire, a spegnere.
Quel piccolissimo granello che può essere la mia delusione.

E le sento in fila irregolare, quasi come noccioli di ciliege rosse e tonde, lucida la buccia e irrimediabilmente dolce la polpa. Rotolano e scivolano, e fanno il cerchio e poi vanno a fondo; si sfiorano i fianchi, e li accarezzano, e poi li sfregano, fino a lasciarci il segno, un segno profondo. E poi sospirano, satolle e beffarde, loro. Le mie paure. Ed hanno forme occasionali. Triangoli morbidi e lisci. Dall'incastro difficile. Come se il dolore sgomitasse con la noia. La riempisse di lividi. E la noia gli piantasse un gomito in piena faccia. E ciascuno reclamasse il suo trono di dignitario. In un campanilismo eroico e triste. Quasi una bandiera sottile, ormai brandelli nel vento. Nella terra delle colonne piangenti. Le ho viste. ma non ho trovato i loro occhi. E trema tra di essi, come una fogliolina, sottile e fragile, la delusione. Il filo dei desideri, sottile e crudele.
Come se il ramo fosse il sogno.

Per sognare ci vuole una forza straordinaria.
Dove il valore si ottiene per differenza.
E sopriro contro il limite, fino a sentirne l'alito caldo e dolce, sui polsi. 
Mi sfiora, fino a legarmi.
Mi accarezza e mi graffia.
Come piace a me.
Giro dopo giro.
Come saliva di fata.
Il mio seno contro il muro.
E chiudo gli occhi, perchè mi piace trattenere le sensazioni.
Non voglie mischiarle con le immagini.
Renderebbe i colori meno puri.
E voglio tutto nella testa, la casa del mio piacere,
la tana dei miei sensi,
la culla dei miei pensieri.
Avverto tutta la incertezza di cui sono fatta diluirsi in attesa e ripensamenti.
Goccia e dopo goccia.
Ancora.
E non mi volto.
E' così che ti ho dato la mano.
Perchè volevo aria tra le dita.
A fremere sulla carne.
Non chiamateli brividi.
Meritano un nome diverso.
Neanche migliore.
A lisciare il sangue.
Non mento.
E ad occhi chiusi ho smesso di attendere.
Adesso ho solo voglia di respirare.
E afferro il piacere quando è autentico.
Ciò che è autentico ha una bellezza irresistibile.
Un giro di corda, un nuovo giro di corda,
sempre più stretto, 
indeciso se legare o segnare.
Perchè la verità è quella goccia che si nasconde nei miei occhi.
Chiusi.
E io non voglio voltarmi.
Io mi assolvo.
Nel mio egocentrico imbarazzo.
Non c'è rito senza incanto.
Lo sto sussurrando a dio.

E mi accorsi che tutto quel cinismo era davvero troppo. Asfittico e meno sincero di ogni deprecabile dolcezza. E per compensare un eccesso, un ammasso, un troppo pieno, ci si cala dentro una galleria, dove la luce non scompare ma resta e ad intermittenza deforma. E se all'inizio il gioco della mente e degli occhi si intreccia ed interseca forme quasi allettanti, poi tutto diventa un rettilineo. Più diritto della noia. Più veloce di una freccia affamata. E nel tentativo di diversificare si banalizza il mondo fuori da quella galleria. Perchè nella banalità è più facile riconoscersi. E nessuno ne ha davvero voglia. E per quello urla la sua specialità. Quasi la pretende. "Nessuno ha le mie stesse mani" - sembra ripetere. Non so se mi è successo. Non ci giurerei. Anche se ho smesso di giurare da quando ho perso qualcosa di devastante ed importante. Quasi più forte delle radici. O meglio la mia radice. Il mio numero primo per eccellenza, decretato dal sangue e dal cuore. Prima ancora che ne avessi la consapevolezza. Si inizia ad amare per caso, per empatia. Per compenetrazione. Per immersione. E si ama, come se si respirasse. Tra apnee e rituffi d'aria. La vita è proprio quell'alternarsi, quell'incastro di aria e carne e sangue e fulgido pensare. Tutto avvolto in una normalità che solo la coscienza sa davvero spezzare. La interrompe con morsi decisi e poi cura. E forse ho detto troppo e male. Ma trovo irresistibile accarezzare le nuvole. Lo facevo sin da piccola, e non me ne accorgevo. Giocavo con le nuvole e ci credevo, ci giuravo, che un giorno le avrei toccate.
E forse è successo.
O forse no.
Ci penserò domani.

Quando poi...
quando poi scrivere serve quasi a respirare. Segna la pausa, la curva a gomito, la discesa. Così l'io mi moltiplica e perde in frammenti.  Forse si dimentica. E si veste di apnee fragili e sottili. Come gallerie. Ed è proprio così che l'ego si genuflette. Solo per cercare un lenzuolo che copra. La tenda di un palcoscenico che forse non si alzerà mai. Perchè scrivere è un pò dimenticarsi. E' annullarsi, allontanarsi, per ricrearsi. E' diventare altro ed altri. E' poi condividere. Dopo l'angolo e lo slancio. Magari solo per lasciare il segno attraverso parole. Perchè così diviene più reale, quasi tangibile, diviene entità un pensiero, e noi attraverso quell'idea ci intrappoliamo nella carta, nelle sue forme. Siamo quel pensiero senza esserlo mai fino in fondo. Perchè resta sempre un ostacolo e spesso siamo noi. Ed è così che qualcuno diventa profondo ed intenso, perchè scrive solchi, come se arasse l'anima deggli altri. Mentre altri restano lievi perchè sanno avvolgere le cose con le nuvole, quasi le intingono nella rugiada, e tutto sembra rivestito di un velo che stinge e soffonde. Mentre alcuni raccontano, perchè la parola non sia altro che tintinnante vita. Quasi gettoni da infilare, l'uno dietro l'altro, in silenti ed avare fessure. 
Scelgo io dove andare, adesso.
Perchè la realtà è nel mio respiro.
Contaminato dal desiderio.
Sento questo vuoto che è dolore o inconsistenza.
Un pieno che si contorce.
Una scia di foglie.
Avrei voluto coprirmi con il tuo pigiama, nelle notti fredde.
Al posto della tua carne, la mia.
Sotto la luce della luna.
E disegnare le tue mani, vicine.
Le tue mani solo mie.
Finalmente solo mie.
Scelgo io e so di non esistere.
Margherita senza dita.
Non ho mai contato.
Oltre questa mente che mi diluisce.
La verità ha osservato quel fiume di parole.
Dall'altra sponda.
E poi ha sorriso.
Così intrecciandosi, nutrendosi, flettendosi.
Come radici.
E tutto questo, tutta questa confusione,
può sembrare incomprensibile
solo
per chi da sempre 
conosce la verità.

Mi piaceva inzupparmi la bocca. Non bevevo mai fino in fondo. E lasciavo le labbra immerse, come foglie riverse, per impregnarle, e poi usarle come stampo. Labbra ebbre e grondanti. Sarebbe stato facile allora raccontare. Bocca contro muro, bocca addosso, bocca sulla pelle, bocca sulla carta, bocca agli angoli di una strada; e così lasciare andare ciò che avevo sentito, pensato, ciò che era capitato. E che per qualche ragione si era incastrato e non aveva avuto la sua giusta spinta. Ed era rimasto inespresso, o solo dimenticato. Eppure era esistito. O forse lo avevo sognato, perchè follemente e fermamente voluto? E adesso il caso si faceva segno, invece; un segno rosso, quasi più del sangue, e denso. Capace di imbrattare, in modo invadente, quasi sconveniente. Perchè nel decidere di scrivere c'è quello scarto infinitesimo tra ego e timidezza. E le parole, alcune parole, ci spogliano più di mille mani. Sono quasi nuda, quasi del tutto, e ho freddo. Ma mi riavvolgo in un lembo di indecenza. E sbircio il mondo. E nell'osservare c'è sempre una avida assenza, un distacco, come se fosse il margine di un foglio, ripiegato, forse per rileggerlo; e fa quasi rabbia cercare di rilisciare la pagina al posto suo. Non tornerà più nuova, ma sarà inciampata in troppi segni, troppe paure, troppi ripensamenti. E poi in tutta quella distanza, tra gli occhi e la mente, c'è tutta la solitudine di cui siamo fatti. In un percorso che si dilata e che come un dardo arriva sempre, ma inevitabilmente dopo.
E una promessa pulsa già sulle labbra umide e vermiglie.
Ecco, io per caso, avevo conosciuto il freddo. Non uno qualsiasi, ma uno strano freddo, in cui la dignità sembrava essere la seconda pelle. E mi sentivo in alcuni punti quasi squarciata. Perchè mi ero data, e mi vergognavo immensamente, di ciò che non era tornato indietro, delle mie mani spoglie, delle mie dita tremule ed avide, della innocenza del desiderio, e della sua forza ostinata. E se avessi potuto lo avrei riavvolto intorno ad un rocchetto per farci mille nodi e cucirci la mia forza. O la mia dignità. E mi sono ritrovata più femmina nel rifiuto, che nell'accondiscendenza. Il mio ventre ha pulsato di sdegno e di piacere. Mi sono piegata e contorta come un tronco sul fiume. Solo per sfiorare l'acqua. Fino a raccogliere i suoi riflessi, prima di voltarsi. E negarsi alla corrente.
E oggi sono questa, mio malgrado.
Dopo aver morso tutta la inconsistenza che è capitata, che ho sognato, che ho cercato.
Ed anche quella che ho respinto.
Perchè quando ho freddo, come adesso, ne trattengo più possibile.
Così sarà semplice dimenticarlo, al primo alito caldo.

Capita di avere delle cose da dire. E di pensarci. E poi di lasciarle andare. E di non fare sforzo alcuno. Perchè non è essenziale dire, nè raccontare. Ed è istintivo lasciare andare via ciò che sembra normale. Perchè è tutto così irrimediabilmente immediato, ed è senza dubbio più semplice e leggero delle parole che poi dobbiamo usare per descriverlo. E' tutto così assolutamente ed assurdamente veloce da sembrare quasi evanescente. Cosme se pensassimo nuvolette. E spesso ti capita di ritrovare un pensiero, come per incanto, o per assurdo caso, oppure per inciampo, dopo tanto tempo. Ricordare è un gioco bello e pericoloso. Il gioco di ciglia che si muovono a velocità diversa e sezionano la vita in frammenti. Istanti che si accumulano fino a lasciare il loro posto ad uno solo. Quello che ha la scena finale. Prima della nuova serie. Di quella selezione occasionale. Come spari senza rumore. A chi non è capitato? Sentirsi esplodere il respiro nella gola, a dispetto di tutta la indifferenza di cui ci foderiamo l'anima. E così, come per caso, che ho rivisto quella porta, aperta e ferma, come milioni di altre porte, le chiavi che ancora dondolavano, e la vita di quella famiglia, che non conoscevo. Uno squarcio di quotidiana umanità. Lontana ma vicinissima. In fondo la vita degli altri è il filo di una matassa immensa che ci avvolge tutti. E siamo sconosciuti ma così evidentemente familiari.  
E quando quella porta si è rinchiusa, ho ripensato a quella famiglia, intorno al tavolo, e ai piatti colmi e fumanti, e ai calici macchiati dalle sagome di bocche, e alla televisione, e alle voci che si confondevano con le ultime notizie. Ed alle occhiate e ai sorrisi. O solo ad una fronte corrugata. Ed alle mani che mescolavano, spezzavano, dividevano, piegavano.
Un rito, chiamato vita.
Ed ho pensato che a volte l'uomo è complice di una divinità umile e sublime.
Non chiamatela.
Per lo meno non chiamatela amore.
E' più leggere dell'aria e più salda dell'acciaio.
In fondo cosa è l'amore?
E' tutto ciò che lasciamo andare senza perdere mai.
Lo sguardo di mio padre, per esempio, ed il suo azzurro meraviglioso.
E' appena sotto le mie palpebre.
 

Non ti ho mai detto quanto mi piacesse spogliarmi davanti a te. Senza staccare i miei occhi dai tuoi. E senza smettere di parlarti; del tempo, delle mie scarpe nuove, del caffè sul fuoco, della pioggia che mi aveva macchiato il bucato. Mi piaceva mescolare la mia nudità, composta, quasi pacchiana ed avvolgente, al nostro spazio ed alle tue risate. Era un modo per non esistere, per qualche istante, nella quotidiana ed omologata esistenza, che ci propinavamo, come una scodella troppo colma. Quando non sai se guardarne la profondità o gli schizzi. E se hai fame o paura di scottarti. Poi ti tenevo le mani sugli occhi, e mi rannicchiavo nel tuo stupore, divertito e blasfemo. Quando il limite non c'è e darselo è solo un artificio. E con le mani ti impedivo ti guardarmi ancora. Perchè volevo che mi raggiungessi nell'aria. Come se fossimo due farfalle senza direzione e vento. E mi sentivo polline, senza essere carne prepotente. Perchè si sa, la carne esige. Ed io esigevo il tuo desiderio, volgare ed incostante. Mi piaceva domarlo come una marea, per farlo crescere ancora. E quella volta in cui fummo vicini, deliziosamente vicini, al precipizio, ci spezzammo, come un'ancora nel cielo, come una luna ferma. E quel desiderio, che si incastrò a quel cielo, non si è mai interrotto, non si è mai sciolto su una fiamma che da qualche parte ancora arde, perchè nessuno se ne è accorto nè ha voglia di spegnerla. Ma se ti penso, non penso a quell'istante, perchè è solo mio, e, come le mie cose più intime e preziose, dico poco e male, e mal volentieri, e se ti penso, e ti assicuro lo faccio, io sento la primavera a cospargere la meraviglia dell'incompiuto che non smette mai di fremere e di fremersi addosso.
Mi sono rivestita e non te ne sei accorto, puoi riaprire i tuoi occhi.
Ho un maledetto bisogno di guardarli.
 

Vuota la città e incredibilmente bella la luna. Una luna storta, dondolante e senza pretese, a macchiare, a timbrare, ad imbrattare un cielo liscio, strisciato di un blu intenso, quasi come quello di una pozione magica. Delle medicine nelle fiabe. Non ho mai amato particolarmente le pietre preziose. I gioielli che preferisco sono le foglie. Mi piacerebbe avere una stella al collo. Mi viene da pensare che niente sia più bello delle stelle. Rassicurano e sconcertano. Come se fossero il cappello di tutti, il coperchio del mondo, il nostro tetto. E poi l'inizio dell'altro, di infiniti mondi, degli infiniti mondi che ci avvolgono. Nei paesi, come il mio, un paese di mare, fatto da gente di mare, con l'odore della salsedine nell'anima, accade così, accade questo, dopo l'estate. Ci riappropriamo della regolarità della nostra vita e dei nostri luoghi. Ed ad una certa ora piomba un silenzio tutto nostro. Senti solo la voce della notte nei vicoli. E con il cielo sulla testa, mi sono sentita avvolta dal rumore fioco dei miei passi e dall'aria appena appena calda. Era tutto misteriosamente piacevole e sincero. Una solitudine imprecisa che non ha bisogno di parole. Ed i miei pensieri nella tasca, della giacca sbagliata, non quella che indossavo. Ho avuto voglia di sfilarmela, e sentirmi la notte sulle spalle, sulla pelle, a lisciarmi le ossa. E' esattamente questo che succede nelle sere di settembre, in paesi come il mio. La città dorme e tu riesci a vagare con la mente vuota; come in quello stato che precede il sonno e che non vuole sapere più nulla, del resto. Di tutto quello che vorresti non ti toccasse, e fosse dietro l'angolo. Così i passi, uno dietro l'altro, passi sicuri sulla mia terra, sulle strade che un pò mi appartengono e che sento mie, nonostante tutto, mi hanno riportato alla mia casa. Avrei camminato ancora, forse l'avrei egoisticamente spostata un pò più in là. La finestra del piano di sopra semichiusa e la luce oltre la tenda svolazzante. L'odore del ferro caldo sulla ringhiera. La strana e piacevole sensazione di non avere più nulla da dire. Di aver completato un discorso e di avere tanta voce a disposizione. Un cane in lontananza. Un altro dietro il cancello dei vicini a scodinzolare, in attesa della sua grattatina in testa. E' tutto così semplice e così complicato. Sono una canna vuota. E non sento altro suono che quello del vento. E una gran voglia di essere ascoltata, senza parlare. La voglia di essere abbracciata e protetta, come da questa, da quella, notte, con le sue braccia familiari, lunghissime e buie. E non sentire la delusione, la tristezza, lo sconforto, come è capitato. E poi a ridosso il timore che torneranno, come capita spesso. Anzi sempre. La sensazione di non esistere per chi conta per te è quanto di più triste possa capitare ad una donna. E con il tempo ho capito che la sincerità va dosata. Perchè sbiadisce. Ti rende troppo vicina a quello che davvero sei. E gli altri hanno bisogno di altro. Di frapporre altro tra te e loro, e che non sia verità. Quello che avrei voluto sempre dire, sussurrare, forse solo pensare, è che la coerenza, l'unica coerenza, è l'ascolto nitido di noi stessi. 
E mi ritrovo a dirlo.
E non volevo ma ho ripreso a pensare.
E intanto il cielo è ritornato sulla mia testa.
E' così ridicola e disordinata la dolcezza,
ma non so smettere di desiderarla.
Starei a guardare il mondo e la vita degli altri per ore.
Per imparare.


Mi piace che le cose abbiano la forma che capita. E non le osservo più nel divenire, ma solo quando mi arrivano, quando mi sfiorano, quando mi pungolano, mi sfondano e mi danno nuova forma. E io mi faccio piacere o dolore, o solo placida e benemerita indifferenza. Non ci sono eco che mi fermano. Mi piace prenderle tra le mani le voci che non mi piacciono. E sentirne i morsi e le unghie e le dita e la mia carne.
Perchè è la mia carne il confine tra me e gli altri.
Dentro ci sono solo io.
E quest'anima soffusa e diffusa,
come acqua,
che scorre e si ferma e poi all'improvviso sbotta
e inonda.
Fino a smarginare e poi ritrarsi.
L'anima è l'onda che ognuno non ha mai smesso di attendere.
La marea delle maree.
Quella che si ritrae prima di ogni aspettativa.
E si rifugia in meandri sconosciuti.
Dentro ogni volta ci sentiamo spinti più dentro.
Alla deriva di una nuova disperazione, o di una nuova improvvisa gioia.
O al margine di un nuovo strato di roccia, esattamente quello
che ci aiuta a sopportare.
Anche quello che non credevamo.
Pangea.
La madre di tutte le terre.
Ne abbiamo un frammento nel ventre.
E allora non c'era alba e tramonto.
Solo la luce ed il buio.
Mi piace sentire il mondo, scorrere sottile ed impercettibile.
Come una scheggia di immortale bellezza ed amore.
Immemore.
Perchè esistere non è mai stato così importante, 
come quando ci coglie e raccoglie la leggera e silente forza del tempo.
Oggi ho sofferto e mi sono dilatata e concepita ancora.
Ed ogni spasmo è nuova capacità di saper godere
esattamente dove prima c'era dolore.
Rivestire di vita un pezzetto in più.
La luce sa essere meravigliosa.
E non è mai più bella che nel buio.
Quando riesci a sentirla.
E diventa i tuoi passi scalzi in un corridoio
dove le pelle si mescola ai brividi.
Ed il sangue al suo battito.
Respiri tutto quello che non sai chiedere,
ma che disperatamente vuoi.
Esattamente là non mi sono sentita colpevole delle mie sensazioni.
Per una volta gelosa del tuo piacere
e non di te.
Del tuo fluire lontano.
Perchè l'acqua non si è infranta alla roccia, non ha intaccato la pietra,
non è divenuta altra acqua.
Forse sentirsi salire dentro, crescere, esplodere per poi naufragare,
sarebbe stata una inclemente e grandiosa prova di esistenza.