domenica 23 maggio 2010

E io la conoscevo quella favola. E la inciampavo. Solo per ricominciarla. E per vedere gli occhi che si facevano fessura. E poi gustarne il gusto e lo stupore. Il piccolo guizzo rapace che si sporgeva dalle pupille e si protendeva paurosamente verso le parole. Per assaporarle fino al centro di un vago e presumibile significato. E senso. Il senso delle parole è deliziosamente indefinito. Lento. E a tratti assale. Come lo stupore quando mordi un frutto nuovo. Non sai se concentrarti sulla polsa o sul sapore. E ti perdi il succo. Ne trovi traccia dopo. Quando il sacrifico è compiuto. E pensi a quello che sarebbe stato. Se quel misero sangue di mela non fosse stato perso. Oggi ho sentito il passato nella testa. E sono rimasta sospesa tra la scatola cranica e il mio corpo. Con una assurda sensazione di inutilità. Troppi movimenti inutili. Per poco pensierio. E le parole non erano parole. Contavano gli occhi. Quando io voglio davvero bene, in momenti come questi, sono distante. E non ho scrigni o confessioni. Sono solo un fantasma evaso. Una senza dimora dell'anima. In cerca di un sasso su cui poggiarmi. E ricominciare a respirare. Come se fosse avvolgere tutta la distanza ed il non detto che mi circonda. Non è un segreto. E' placida astensione. Quasi angoscia.
In fondo per volare bastano solo due ali nella testa.
Come se fosse tutto oltre. E io aldiquastrettastretta. Stretta. E le gambe a far da culla alla mia testa. Io sono qua. Siamo il miglior cuscino che ci è concesso. Un cuscino tenero. Con un cuore che batte dentro. Come se il mondo, il mio piccolo mondo galleggiante, fosse nei miei talloni. In sospensione. E mi abbraccio. Sono embrione in cerca di pace. Io sono qua. O forse paura. O solo bozzolo silente ma gravido. Provvido di futuro. O nodo d'amore e odio. Mai equidistanti. Io sono qua. Le oscillazioni mi danno il senso dell'equilibrio. E io lo perdo. E ho la chiara percezione del salto. Una dimensione approssimata. Ma spalmanta sulla pelle sembra esatta. E l'attesa dello strappo me lo fa desiderare dannatamente. Nel baratro. E tutto è aldilaancorastretta. A cercare le risposte. Come se fosse carezze. Mentre sono pizzicotti. Io sono qua. E un pò mi slego. E mi slargo. E stingo. E bacio la placenta benedetta che mi avvolge. Sempre più lontana. Era la carezza silenziosa. Ma spontanea. La voce liquida di mia madre. Io sono qua. Perchè ricomprendere è non perdere nulla. E quello che si dona non si perde mai. Anche se non sembra amore. Lo è comunque. E ha altri nomi. Io lo chiamerei Gastone. E lo accerezzerei come un gatto. Una ciambella di peli. Mi ronfa sotto la mano. Ma sono qua. Guardami.
E mi rotolo e srotolo.
Come una pergamena stinta.
Voglio essere letta.
Ma non compresa.
Solo presa.
E masticata come un'ostia.
E dicevano che fosse peccato.
In un confine leggero. Impercettibile ma affilato. Il sonno mi scivola nel lobo. Sonno liquido e infido. E poi mi parla. Ma non è delirio. E' pensiero in gocce. Come un medicina. Le conto e nei numeri mi adagio. Ma non sono mai esatti ed evaporano. Rugiada. Qualcuno ha detto che l'anima è un fiore. Un fiore delicato.
Legami al gelsomino.
E lasciami là.
E dimenticami.
Senza abbandonarmi.
Voglio diventare ramo.
E fiore.
Quello che resterà di me dopo sarà il mio odore.
Nella testa.
E la passione si veste di pelle inesatta e di una maglia rossa. E volteggia. Coro feroce di erinni. Stanche e disilluse. Non hanno più denti. Folle tramonto cruento. Prima di sdraiarsi nel letto della notte. Stria con le sue mani il cielo. A scompigliare le nuvole. Ma ha mani fragili. E si divente a svolazzare con le sue ali perverse. E non è abitudine ma turbamento puro. Purissimo. Così tanto da sembrare inesistente. E ti fa annegare le pupille dentro. Senza diritto di replica. E per un istante senti respirare il Sole. Tutto Intero. Un Sole a Picco. Dentro. Nella pancia. A tentare di splendere. E gioca a nascondersi. Sotto la maglia. E mai a scoprirsi. Senza lasciarsi mai guardare. Nei suoi occhi equivoci di sole. Per comparire e ricomparire. E farti vomitare albe e tramonti. Non è un fantasma. Ma un leggero morso sul collo. Quasi sembra bacio. Rosso e bugiardo. Assolutamente umido. Una Nebbia Rossa. Tutto può essere. Ma non l'indifferenza. Quella fatta di buio. E di distanza. E tu lo senti quando arriva. E tutti che ti ripetono le tue sensazioni sono una inondazione di cavallette. Prefiche vaganti e liquide. Antico veleno. Conservato nella corolla. Di un una Rosa Nera. Si mimetizza nella notte e nelle sue tende. Ma quando torna il Giorno non sa spiegare il senso. Il suo. E tutto il resto. Ecco, io ho una rosa nera al posto della bocca. E ho paura di avvicinarmi agli altri. Per non ferirli con le mie spine.
E quando va via la belva rossa strappa il suo vestito in mille strisce.
Allora hai poca stoffa e tanto freddo che ti riveste le tue braccia nude.
Chiedono brividi in prestito.
Ho preso appunti sui miei Polsi.
Dopo averli lisciati.
Sembravano tela.
E ho inciso sopra di loro ogni dettaglio.
Ho indugiato su quelli apparentemente insignificanti.
Perchè l'apparenza è pregna di rilevanza lontana.
E ho ripercorso con le dita l'inizio.
Nel punto in cui le vene sono un ingorgo.
La vita è piena di inizi.
Ed ogni inizio è incanto.
Come se tutta la vita si concentrasse là.
Nell'attesa e nello stupore.
Quasi vorresti non finesse mai.
Ma non c'e più spazio sui miei polsi.
Ho spostato ogni vena per poterci scrivere.
Più che posso.
L'ho domata e donata ad un campo.
Così dimenticare sarà difficile.
E io dimentico difficilmente.
Colleziono graffi.
Come segnalibri.
E mi convinco che siano fili d'erba.
Stanotte vorrei in prestito la voce di Una Stella.
E' quella che uso quando ho voglia di giocare.
E di mentire.
E mi riduco bestia di gioia.
Come se le parole fossero esche. Erba e carne per ogni fame possibile. E io pesce. Ad inseguirle. O solo ad immaginarle. Con la pancia che sta per esplodere. Un mondo di parole nella pancia. Nel piccolo mondo dei nostri fremiti morbidi e comodi. Di piccoli sdegni e dignità perplessa. E poche arrivano. Poche entrano in circolo. Le altre si sedimentano. In strati che foderano di non sentire. Isolano. E siamo isole nel nostro mare privato. Nel mare di casa nostra. Amebe di periferia. E tutti si prendono troppo sul serio. E prendono sul serio ogni plausibile ammutinamento. Tranne il proprio. E' un gioco. Un baratto tra parole e pezzetti di anima. A farsi compagnia. Senza mai guardarsi negli occhi. Perchè sono stati smarriti. Gli occhi vagano soli. In un bosco a caccia di farfalle. E si guardano gli altri senza occhi. Solo con la pancia e con tutta la fame di cui siamo capaci. O ci neghiamo. Di tutta la fame di cui siamo fatto e di cui siamo stati nutriti. Piccoli giganti bulimici ed invisibili. Su piedistalli distanti. E la presenza degli altri è solo un modo per sentire i nostri contorni. Per farci muovere l'aria intorno. E circondarci di presenze. Mai troppo presenti. Senza arrivare al nostro confine. Nè centro. Nè periferie. Pendolari dell'anima. Sospesi. E soffusi e diffusi in strati di bellezza ed orrore. E poi è lo stesso.
Oggi vorrei una fame asciutta.
Senza parole.
Fatta di morsi esatti e precisi.
Un boccone.
E una sazietà composta.
Nessuna favola da slinguare.
Slurp.
Ops.
Mi sono sbagliata.
Mi guardi le labbra e attendi. Placido e dondolante. In una tenera attesa. Mi guardi negli occhi. Fino a strapparmi le pupille. E a farne zucchero. Sembra neve. Ma non è fredda. E' neve calda. Come la saliva del mare. E ti adagi sul mio mento. Mi coli come marmellata di passione. Poi risali. Impaziente. E io taccio. Non so dire le cose che penso. Proprio tutte non ci riesco. Un pò ne scrivo. E' facile graffiare fogli. E soffiarteli addosso. Come piccoli aeroplani. Carichi e traballanti. E ti arrivano sul collo. Come se avessero baciato le nuvole. Io non so scandire parole. Non riesco a pronunciarle. Non quelle che vorrei e che ho dentro. Mi limito ad osservare. E quelle che pronuncio sono diverse. Parole diverse dalla fontana viola che mi zampilla dentro. E non smette. E i miei pensieri restano incastrati. In una forma equivoca e complessa. Come farfalle zebrate. E si vergognano di dover attraversare il loro pratosavanaforestadierba. Sono destinate a sentirsi fuori posto. Non diverse. Perchè hanno imparato che la diversità rende bellissimi. E forti. Ma nessuno lo sa. Nè deve saperlo. Perchè non comprendendoti ti rendono migliore.
Le mie parole le sto pensando tutte.
Una per una.
Nelle orecchie del tuo cuore.
Imbuti lenti.
E solo quella giusta arriva in fondo.
O forse in cima.
Capovolgendo le cose il mondo resta lo stesso.
Strappami le parole.
Dalla bocca.
Ma fai piano.
E poi strappamele ancora.
Inventami il cuore.
Posalo dove vuoi tu.
E strappale in quel punto.
E mentre io dormivo, hai disegnato una incauta primavera sulla mia schiena.
E il ramo di ciliegio furioso ha lacrimato.
L'amore è il tabernacolo della indecenza.
Dove tutto può.
Ed ogni sensazione si è fatta foglia. Coppa di luce. Prisma di anima. Transulce. E sputa verità. Quella che secerne la mia mente. E se la stampiglia ovunque. Fino a non saper vedere. Intrecciata. Come edera che scavalca muri solitari. Mi sono sporta. E ho sentito la luce sulle labbra. Fino a spaccarmele. Come quando mi baciavi. Non riuscivi a non assaggiarmi. Ogni dubbio si è dilatato ed è divenuto mano. Prepotente ed inerme fiore di carne. Mano aperta. A dita spalancate. Sole spalmato. A rovistare. E trattenere. Tra i suoi petali. Tutta la rugiada che scappa dal mattino. In fuga dal punto in cui luce e buio si sfideranno. E poi restare in superficie. Dove è più facile accarezzare. Dentro, fa male. Nella profondità più rossa. Papaveri ondeggiano sul cuore. E polvere scivola. Non è dolore. Solo delusione. Quanto copre. E sotto li campo si muove. Nonostante tutto. Anche l'apparente immobilità che lo avvolge. Sembra sentire ma è dimenticare. Il campo ondeggia e scava aria. E se la rovescia addosso. Come una doccia nella calura. Si dimena. Ha la voce di una tempesta lieve. Perchè deve fingere. Quasi graffia la pelle. Al contrario. Genuini graffiti di sensi. Fino alle tempie. Catene liquide. Scioglimi. Ognuno pensa di sapere. Ma non sa. E si accovaccia dentro la crepa. Ma il punto è ancora lontano. E' un sole che gioca a nascondino. Sotto la pelle.
La foglia non trema più.
Spezzata dal ramo.
E' nel vento.
Nell'immobilità del non sentire.
Forse comprendere.
Mai capire.
Non è oblio.
Non è dignità.
E' finalmente respiro.
Quasi libertà.
Del resto non importa.
E non mi importa.
Ho voglia di fragole.
E di terra.
Ma ho smarrito il mio campicello.
Specchi di carne.
E l'anima si sdraia.
Ha solo voglia di specchiarsi nella carne.
E diventare solida.
Ma non sa fare altro che contemplare il soffitto.
Della sua gabbia.
Lo chiama vita.
E ci dipinge stelle di fiato.
Un prato ribaltato.
Dove annegano i fiori.
E la memoria.
Così si rinasce.
Ridicola metempsicosi delle mie tempie.
Farfalla o elefante.
O ragno tremante.
Restano tempie.
Muro dell'anima che spinge.
Forse è curiosità. Solo è una idea. Solo una goffa e gonfia idea. Una palla di pensiero. E vaga. Oltre ogni plausibile motivo e ragione. Al limite tragico del fraintendimento. Stride. Freme. Stella di aria. Come una bolla di sapone. Sputa riflessi e si lega a meraviglia. Il senso del magico ed innocente contro le iridi. Ti esplode tra le dita e rinasce aria. E l'anima si fa materia. E la materia ti ruba anima. E la ritrasforma. Sospirare e cercarti tra le lenzuola ed il mio gomito. Nella parte più interna. Dove deponevi baci. Pessima abitudine di baciarmi i gomiti. E vi ritrovo l'odore del muschio. Del bosco della mia mente. E tu mi gemi nella testa. Come un'ape. Furiosa e spersa. E' così che ci si sente. Pieni di un dentrochevuoletrasboccare. Ma incapaci di dosare. In una attesa che svilisce ogni arrivo. Perchè la fame divora ogni possibililità ed ogni possibile senso di sazietà. Forse è curiosità o forse è pioggia. Una pioggia inversa. Asciuga e continua a circolare. E mi ricerco. Perchè ritrovarsi darebbe una misura vagamente esatta. Alla ammissione di non volersi ritrovare. Di non sapere che farcene di noi. Soli e costretti dentro questa sagoma. E vicoli e strade. Sotto piedi che non sanno mai essere nudi. In uno specchio fatto di mente. Come uno stagno sul quale planare. Piccolo insetto tremante. Sei tu che mi hai insegnato a tremare. Come un piccolo ragno equilibrista. Attaccato ad un filo che poi è una tela. Anche quando non ho paura. Mi intreccio la luna alla schiena. E a te non resta che scioglierla. Sciogliermi il groviglio di luna e ragno che iosonoesoessere e mi ricopri i graffi. E li ripercorri di baci e favole silenziose. Le sto chiedendo. Chiedo solo una minuscola fiaba. Un piccolo percorso verso la bestia. Riaffiora all'improvviso dal mio stagno. E io smetto di essere per divenire. Ed incomincio ad esistere e poi mai più. All'improvviso. Ritrovarsi oltre noi. Inaspettatamente nel sorriso o in uno sguardo. Degli altri. In uno stelo che si piega come una voce che racconta e ci racconta. E poi ci offre su un vassio fatto di vento e polline agli altri. Piccoli mondi. E pezzetti di un mondo più grande. Ancora più affamato.
Rinasco ancora.
Ma prima ho dovuto morire.
E morirmi un poco per volta.
Spicchio per spicchio.
Come una arancia
che si credeva un frammento di sole.
E dimenticarmi.
Senza essere fiore.
Insegnami l'incanto e lo stupore.
E poi sarà tutto fragilmente imperfetto.
E se lo vorrai incomincerò a tremare ancora.
Fa tanto freddo dopo che mi hai preso dal mio vassoio di polline.
Un freddo pazzesco che spinge tutto a picco contro il pavimento.
Anche l'ombra e la dignità.
A volte chiedere è un pò morire.

mercoledì 5 maggio 2010

Un tempo la distanza tra sè e gli altri era fatta di silenzio. Sassolini bianchi e levigati. Con piccole vene. Lunghe e contorte file di sassi. E avevano la traccia amorosa del mare nelle strisce quasi impercettibili che li attraversavano. Una catena ideale per attestare che un tempo lontano anche loro ci erano stati. Erano passati da quel punto. Una promessa. Un tatuaggio. Un minuscolo giuramento nella pietra. E dimenticare sarebbe stato difficile. Forse impossibile. Era nel solco sulla sabbia il varco. Adesso la distanza tra lei e gli altri si è riempita di parole. Buche ricolme di parole. Fontane immonde. Così tante parole da varcare il bordo e aiutare a perdersi. A non ritrovare alcun segno. Alcuna traccia reale. Perchè tante parole avrebbero diluito il senso. E la sua voce intensa. E quando donava parole sapeva che era promessa di addio. Lei sapeva amare solo con il silenzio. Perchè in quel silenzio galleggiavo gli immensi spasmi che sapeva trappare alla sua recondità intimità. Nel labirinto della donna che la abitava. Il suo corpo era solo la ragnatela che rivestiva il suo nido. Era il solo mezzo per impedire a tutti ad arrivarci. Dove deponeva il suo tormento. In attesa della primavera. Le serviva a non provare freddo o forse solo a trattenere per un istante in più la linea goffa del calore. Quando la ritrovava. Prima di lasciarla andare via. Ancora e sempre. E allora quella ragnatela diveniva ardita seta.
E il baco del peccato scivolava e si dipanava nella sua mente.
Mai mescolare sacro e profano.
Credo che sia blasfemo mortificare il divino che è in noi.
Meravigliosamente imperfetto.
Nessun nido potrà contenerlo.
E mi perdo. Nel mio tulle. Smangiato dal tempo. E dal vento. Dal verme e dal sole. Ho nascosto segreti e fiorellini. Tra i buchettini. Li ho schiacciati in fondo. Nel fondo. Di una bimba che non conosceva la misura. Abulimia di baci. E di rimproveri. Senza un equilibrio. Sul bordo della vasca. E sotto un precipizio immaginario. Ed un ombrello finto. Celeste come le nuvole. Nella testa. E nelle parole. Ondeggia. E io mi fletto. Un gancio verso il cielo. Che a volte è un soffitto bianco sporco. E tu ci ribalti i sogni. lo sfondi con la mente. Fino a farlo ritrarre. Come tutti i bianchi che si rispettino. Un millepiedi ha ricamato il suo stupore sulla mia gonna di tulle variegato alla fragola ed al pistacchio. La mano di mia nonna nei capelli. A scandagliarmi la mente. E a scacciare pensieri tristi. Mi pettinava le paure. E le raccoglieva in una crocchia di sole. E sale. Le sue dita come steli di tulipani. Per lasciarle evaporare. E io mi perdo. Senza voglia di ritrovarmi. Solo essere cercata. In fondo al mio tunnel di bimba pentita. IDove sento rimbombare ogni pensiero. COme gocce. ntreccio il disappunto al divenire. E lego. Lego. Lego. Pensieri con ricordi. Come una margherita senza petali. Strappati dalla rabbia. Incollati al muro. Per disegnare una primavera che è già stata. O forse non arriverà. Era ieri? La forma delle mie dita. Nel percorso verso la luna. Oltre il vetro. Dove disegno storie e parlo con le mani. Carezze acerbe. Quasi amputate.
E mi disegno le labbra con fragole mature.
Oltre il bordo di una bocca che sa dire solo la verità.
E stampa aloni impuri.
Fatti di baci.
Strisciati.
Fino a sembrare che sia sangue.
E forse lo è.
La verità è fatta di sangue.
Puoi guardare una scena comunque.
Ed è sempre vita.
Anche se non ti sembra.


Un tempo la distanza tra sè e gli altri era fatta di silenzio. Sassolini bianchi e levigati. Con piccole vene. Lunghe e contorte file di sassi. E avevano la traccia amorosa del mare nelle strisce quasi impercettibili che li attraversavano. Una catena ideale per attestare che un tempo lontano anche loro ci erano stati. Erano passati da quel punto. Una promessa. Un tatuaggio. Un minuscolo giuramento nella pietra. E dimenticare sarebbe stato difficile. Forse impossibile. Era nel solco sulla sabbia il varco. Adesso la distanza tra lei e gli altri si è riempita di parole. Buche ricolme di parole. Fontane immonde. Così tante parole da varcare il bordo e aiutare a perdersi. A non ritrovare alcun segno. Alcuna traccia reale. Perchè tante parole avrebbero diluito il senso. E la sua voce intensa. E quando donava parole sapeva che era promessa di addio. Lei sapeva amare solo con il silenzio. Perchè in quel silenzio galleggiavo gli immensi spasmi che sapeva trappare alla sua recondità intimità. Nel labirinto della donna che la abitava. Il suo corpo era solo la ragnatela che rivestiva il suo nido. Era il solo mezzo per impedire a tutti ad arrivarci. Dove deponeva il suo tormento. In attesa della primavera. Le serviva a non provare freddo o forse solo a trattenere per un istante in più la linea goffa del calore. Quando la ritrovava. Prima di lasciarla andare via. Ancora e sempre. E allora quella ragnatela diveniva ardita seta.
E il baco del peccato scivolava e si dipanava nella sua mente.
Mai mescolare sacro e profano.
Credo che sia blasfemo mortificare il divino che è in noi.
Meravigliosamente imperfetto.
Nessun nido potrà contenerlo.
Non solo nero. E il cielo già lo sa. Non gli si può nascondere nulla. Ha mani immense e rovistano tutto. Il posto delle emozioni è lontano dal cuore. E' alla periferia più sfacciata. Dove i sensi bucano la coltre di un nero indeciso. Non sa più annodare. Non sa divorare. Non ha più fame. Lecca quello che gli capita. Con la sua lingua indolente. E' cioccolata perplessa. E muta. Non riesce neanche più parlare. Una cioccolata silente. Rifugiata in un angolo della mente. Perchè siamo abituati a vivere in cassetti. E nessuna si accorge che la memoria è una prateria. Uno sterminato campo da arare. Perchè siamo fatti di passato. Di strati di passato che non si sono limitati ad adagiarsi. Ma hanno provato il lusso prepotente di plasmare un puntino pulsante. La chiamano identità. Io la chiamerei lasciatemiesserequellochemipareeilrestononlodico. E non è più nero. Il sangue dell'errore non è catrame. Resta comunque e sempre sangue. E macchia. Il posto delle emozioni è il giardino delle opportunità. Steli mozzati e corolle nude. Deve seguire rotte contorte e scivolare da precipizi. Archi di piacere che si convertono in preghiere convesse. E la terra ride. Ha nascondigli anche per il cielo. Alla fine lo fotte sempre. Lo ama. Ma non può farci nulla. E' una gran puttana. E forse lui lo sa. Lo ha capito dal primo momento in cui è riuscito a sorgere. A squarciale luce addosso. In quelle immense gallerie senza coperchio ci perdiamo. E ritroviamo. E là che si stempera e fortifica la pallida umanità che ci compone. Poca carne. Ma fiumi di anima. Perdutamente innamorati. Come vene che sono scorse. Quasi senza saperlo. E mi ritrovo questa. In questa periferia. Dove il cuore è lontano. Un bucaneve sommerso da neve immaginaria. Non vede il nero solo perchè non lo conosce. Sa solo che da qualche parte ci sono i colori.
Io l'ho sognato un comignolo rosso.
E sfiorava il cielo.
E là dentro terra e cielo si incontravano.
All'insaputa di tutti.
Un filo blasfemo. Forse un gancio. Un innocente nastro di seta. Un sospiro. Una benda. Una buccia cruda. La certezza più fragile. La favola del forse è un tappo. Del piccolo abisso che ognuno ha. E a volte è una ascensore verso il cielo. Altre un cielo orizzontale. Ed altre volte ancora è una caverna. Dove tutto rimbomba. Sette giri. Ed un altro sospiro. E con il sospiro un solco. E un ricamo d'aria. Nella intimità. Forse una promessa violata. E una vena prodiga. Sangue e brividi. Pericolosamente ondeggiava nella mente. Una stadera fatta di incognite e possibilità. Arcane e remote circostanze si ribaltavano come tende nel vento. E mi ritrovo a tremare. Come allora. E il desiderio crudo come una mela. Impigliato nelle pieghe del mio labbro inferiore. Sembrava furioso. Era solo piegato dall'arco del limite e dal rosso porpora di quella idea. Rosso come la bava della luna. E il filo scivolava come un serpente sulla soglia e la porta lo risucchiava. Si chiama ignoto. O forse peccato. O forse quellochediventononloso. E la donna sulla stadera si approssimava al centro. Senza raggiungerlo. Non aveva ali. Solo virgulti di ali erano le sue dita affamate. E strisciare non pareva conveniente. Forse opportunamente adagiarsi. E precipitare nelle oscillazioni. Alla ricerca del centro. In attesa dello strappo. Forse del morso. E di addormentarsi come una santa. Con gli occhi zeppi di desiderio. Come pozzi.
E la sua anima vagava.
Nel cercarsi si era persa.
Ma è la quella la possibilità di ritrovarsi.
Hai raccolto la bimba e i suoi sette fiori.
E tre petali.
Piccoli sigilli.
Su segreti che credeva ferite.
Erano rimarginate.
Mordi i suoi petali con dolcezza.
Ha paura.
Ma vuole solo quello.
Che le mangi il cuore silenziosamente.
E poi che tu vada via.
Senza una parola.
Al posto del cuore le crescerà un prato.
E sarà inverno e poi estate.
Ma mai più primavera.
Mamaipiù è un delizioso artificio perchè nessuno ha il coraggio di dire persempre.
Non ha più paura la bimba.
Non ne aveva neanche prima.
Ma non lo sapevo.
Voleva solo sbarazzarsi del cuore.

E l'ho sentito tutto il tempo che mi è venuto contro. Ed era morbido. Come un mantello. Delizioso e dannato. E il silenzio è il vestito più austero del tempo. E intrecci papaveri con l'odore della primavera che arriva. E la mia essenza come una lisca di un pescedonna si è flessa. E non sapeva se ancheggiare o nuotare. O parlare di amore o del tempo o dell'infuso di gerbera e tiglio. O cantare la ninnanannaninnao ai girini sul bordo del mio sognostagno. Sul lieve cordone che lo circonda e lo trafigge. E il tempofiume ha intensamente dilatato le sue branchie e si è tuffato nel suo mare immaginariochepoièunpòdituttinoi. E si è disegnato le onde addosso. Onde e schiuma profumate dalla voce dei gabbiani. Solo per baciarla. E quando si è specchiato nei suoi occhilagochesembravamaremanonguardarmichemiturbi la ha baciata e morsa e percorsa. Nelle fiabe non tutto riga dritto. E lei ha riempito la sua scatola. Delle carezze delle rane e di una scheggia di corallo. Era rossa. Come l'acquario dei suoi sogni e delle scie. Era rossa come il sapore delle fragole. Quello che gli veniva in mente quando pensava a lui. Prima di tremare. E di addormentarsi contando i brividi. Uno per uno. Le corde del suo corpo. Perchè contare era il mezzo per ridurre ogni sentimento ad una somma o una differenza. O ad un semplice sminuzzarsi. Non esiste sinallagma del cuore. E dare richiede un saggio voltarsi. E non attendere. Scappare dal tempofiume che ti insegue. Solo allora si rovescerà l'incanto. Quello che abbiamo donato non torna. E' il posto di un fiore che sta nascendo. E sboccerà.
E di corallo immobile i pensieri.
Rossi.
Come l'alone della luna.
Sembra un airone in volo schiuso.
La tenda dell'indecenza.
O forse l'apoteosi del suo aprirsi.
E del suo morso.
Del mordere il cielo ed il mare.
I coralli erano appena il margine.
Erano l'occasione.
O solo la circostanza.
L'immondo ha il colore della nostalgia.
Oppure è la nostalgia a schizzare il mondo del senso del peccato.
E quella luna in mezzo al cuore.
Splende.
Oscilla e splende.
Una luna.
Una lisca liscia.
Ed un frammento.
Un'ombra.
E poi la musica dolce.
Nel guscio di una lumachina.
Apoteosi e tana.
O forse oblio.
Non ho nome.
Perchè ne ho infiniti.
Vorrei ascoltarti mentre li pronunci tutti.
Uno per uno.


Aiutami, piccolo sole.
Palloncino di luce.
Tu, minuscolo cuore.
Ti spalmi dentro.
Lasciami spiegare.
Donami le parole.
Quelle vere.
Quelle che sono radici di luce.
Corridoi della terra.
C'è una bellezza nel mondo.
E ogni giorno un raggio bacia il mondo.
A volte gli fa male.
Ed è un dolore insopportabile.
Poi diventa la carezza delle carezze.
Ma io non sempre riesco a a catturarlo.
Non riesco a cogliere il miracolo del mondo.
E non so spiegare.
So che devo ringraziare.
Sento.
Ma non comprendo.
Piccolo sole intreccia comprensione alla mia mente.
E alle sue pareti.
Sono fragili.
E infreddolite.
Ma non sanno sputare brividi.
E trattengono dentro.
Riscalda il suo capo.
Dentro ci sono inverni che deridono.
E lascia che la luce scivoli sui suoi dubbi.
Sono una fervida credente del Dio dell'amore.
Del velluto del mondo.
E non ha nomi.
Non ha chiese.
E si rifugia in angoli sperduti.
Fino a farti dubitare che ci sia.
E' nel dubbio che esistiamo.
E' nel buio che ho imparato a conoscere la luce.
La corda che mi scorre dentro.
Frusta.
E lascia segni.
E insegna a supportare.
Dilata le vene.
Fino a sentirle urlare.
L'amore non ha nomi.
Non ha forme.
Lo riconosci.
Pulsa.
Un nastro che ti fa perdere la voglia di guardare.
Perchè comunque vedi.
Vivi con le palpebre serrate e gli occhi splalancati.
Con il mio cannocchiale ho cercato le stelle.
Mentre mi rovistavo le viscere.
Tutto dipende dalla direzione.
E all'angolo mi sono fermata.
Mi piace osservare in tutte le direzioni.
E' fatto di neve questo cuore. Questo minuscolo cuore mio. Un puntino coperto da un velo di gelo, che fa una immensa fatica per riscaldarsi e riscaldare. E si inspessisce e si assottiglia. Vivere è quasi facile come respirare. Piccola folla di cristalli ribelli ed immemori. Si sfiorano i gomiti in cerca di calore. E quasi si abbracciano. E quasi si prestano il respiro. Quasi fratelli o assoluti estranei. Approssimato contatto che si verifica mai. Quello Istanti assiderati che hanno trovato un giaciglio. E ci strofinano contro il divenire. Perchè sono stati forgiati dal fuoco della fine. Ma quello che è destinato a finire in parte è già morto. E forse è lo stesso che non essere mai nati. Embrioni che vagano. Ma ogni verità ha due facce. E ciò che è destinato a morire è anche meravigliosamente stato. Ed è diventato. E i quasi fratelli sanno che il sole arriverà e scoperchierà ogni piccolo segreto. E saranno quasi sperduti. Perchè il sole è amico del tempo ed il tempo è amico dell'oblio. E l'oblio è amico della distruzione. E a volte la distruzione si fa chiamare cambiamento. E si affaticano per imprimere una traccia sotto. Più a fondo. Sulla pelle della terra. Fosse anche un piccolo graffio. E si spingono dentro. A caccia del punto fatto di corteccia. Dove potranno lasciare una traccia. Ma non sanno che l'unica traccia potrebbe essere quella che resta sulle loro dita.
E' fatto di neve questo mio minuscolo cuore.
Un vestito di gelo.
Una maglia.
E in fondo un fuochino.
Un tappeto dove si rotolano e si inseguono impronte sconosciute.
Rifugiate dentro per sfuggire all'arrivo dell'estate.
Per non sentire l'odore del mare.
Perchè dentro c'è silenzio.
E il silenzio è una mano impietosa che rovista.
Ho preso l'abitudine di trattenere ogni istinto.
on sempre ci riesco.
Ma quando non succede riavvolgere il rocchetto dei miei fili folli
è come ricamarsi sulle dita il senso del rimpianto.
Non è una storia fatta di neve questa.
E' solo una attrice non protagonista.
Destinata a dileguarsi.
E a non lasciare traccia.
Nessuna zingara leggerà la mia mano.
Ho appena mescolato le mie linee.

Bevemmo un caffè inzuppato nella curiosità nella locandadeltempoperpendicolare, mentre tentavamo di deliziarci di briciole di giglio candito e rosa canina. Avevo una pila di storie da raccontarti: mi era adagiata sui miei gomiti con l'intento di lasciarle scivolare nelle tue orecchie e nella tua bocca ed aspettavo che cessassi di bere il tuo caffè meravigliosamente nero. Capita ad una donna di voler essere adagiata sul fondo di un caffè. E di essere bevuta. Come se la comprensione fosse più importante di ogni integrità. Ma non della propria dignità. Avvolgevi la tazza con la tua mano grande e sembrava che il mondo fosse là. Esattamente nel punto contattomanotazzacazzoquantomipiaci in cui le tue dita, senza comprimerla, si arrossavano per il calore della tazza, e la chimica si infilava dalla materia e dalla distanza asettica nelle tue fibre e nei miei occhi. Ero là ad inseguire la forza della tua presa. Come se nessuno al mondo avesse mai saputo tenere una tazza in mano come te. L'amore ci rende piccole divinità imperfette. Pieni di vene che poi sono crepe. E' così che si diventa eroi in un istante. Per morire l'attimo dopo. Nella mescolanza dell'umore ed umoamore di una donna. E nei suoi sobbalzi vividi. E tutti quei dettagli facevano ondeggiare paurosamente la mia caterva di storie. Un pò vere, molto vere in verità, e un pò bugiardine. Ma solo poco. Avevo anche io di una minuscola proiezione della mia minuscola dimensione eroica. Ed erotica. E avevo omesso nelle mie storie tutti quei particolari, inutili orpelli, ed ineducati vezzeggiativi, che facevano di me praticamente, ma questo è il segreto dei segreti, una autentica imbranata. E mescolavo i loro dettagli. E la pila impiccava le mie parole. Lamiapilachepoieraunaautenticastronzataforseunacolonnapernascondermi. E i fatti volavano come moscerini. E la voglia di non perderne neanche una mi induceva ad una asfittica ed ossessiva rimembranza. La luna ed i miei gerani e la mia spiaggia e la mia collezione di santini (forse quella è un pò da spigatasfigata ma forse avrebbe dato di me una idea ed un vago senso di meticolosa ricercatrice di una serie, ci avrei pensato dopo) e la mia passione per Keats e l'odore dell'erba e per l'amore per la carta e l'abitudine di scrivere sui libri (una oscena prova del mio delirio di onnipotenza mozzato e dissacrato, ancora ricordo il disappunto di mia madre perchèilibrinonlipaghituenonsairispettarelecose) e la passione per le scarpe e la mia caviglia dolorante ma disinibita e il tremito di fronte ai monumenti e le lacrime davanti a Millais. A quel tempo ero convinta di essere nelle mie parole saccenti e assunte ed asserite come sagge dal grillodonnina che mi giaceva nei gomiti e ogni tanto si permetteva di fremermi nella pancia. Bastava una spalmata di ciglia e si ricomponeva. E la realtà non era pane da mordere ma un foglio bianco e tremulo. Era lo specchio nel quale sbirciavo. Mentre dimenticavo il mio caffè che mi colava dentro e mi impediva di macchiarlo. Perchè l'abitudine smangia tutti i colori.
Non ebbi il tempo di parlarti e la tua mano mi baciò.
E non riuscì ad investirti di tutti i miei segreti.
Dei miei ridicoli peccati.
Della lussuria solo pensata che mi aveva avvolto e avvolta e tantevolte.
"L'amore non è la tana delle delusioni. E' un prato dove ci si dimentica di noi. E ci si ritrova. Ed è la corsa verso il punto in cui non serve nessuna dote e nessun fardello." Non lo dicesti mai. Ma io ti disegnai una nuvola esattamente in direzione delle labbra. E non mi baciasti. Dicesti solo questo, anche senza dirlo. O forse mi baciasti e poi lo dicesti. Non poteva essere altrimenti. Era così che io lo avevo desiderato.
Sono ripassata alla locandadeltempoperpendicolare.
Non è mai stata agibile.
Non ci è entrato mai nessuno.
E soprattutto non avrebbero mai servito caffè.
Solo infido succo di luna.
E ti tenevo il viso tra le mani.
E ti rubavo indifesa il paradiso e l'inferno.
Dagli occhi inermi.
E non opponevi nessuna resistenza.
Neanche la verità.
Mi modellavi l'istante.
Sulla punta delle dita mute.
Con cui ti ricamavo poesia.
Sulle labbra aride e furenti.
Prima di morderle.
Per sigillarle.
E io restavo appena sotto la pelle.
Tra i respiri impiccati.
Senza scendere a fondo.
Perchè era bellissimo.
Intuire senza voler capire.
Amarti senza pretesa.
Senza memoria.
E legarmi al ramo.
Di un albero ignoto.
Solo per potergli sussurrare una fiaba.
E annusare la sua primavera.
Assaporavo una leggerezza spoglia.
Perchè credevo di essere una farfalla.


Sono solo il mosaico fatto dalle impronte che mi hanno scorsa. E percorsa. Soffi. Carezze. Graffi. Solchi. Giri di parole. Una macchia che si apre e stringe. E si adagia e poi ritrae. Si tuffa e poi riemerge. Nella anima. La fonte nel centro di noi. Una fontana rossa. E la morde. Sono il gioco delle ombre che divorano le figure. E delle immagini che strappano i lembi delle ombre. Come fili di una stoffa sgranata. Sono la soglia di un campo sconsacrato. Dove c'è una fede sincera e primitiva. E il bene calpesta il male. Con i suoi passi incerti. Nel buio l'anima è una lama. Cospira contro la carne. E sceglie vene. Vi strofina il suo gelo. E le lascia prostrate. In attesa del veleno che sappia redimerle. Sono una insalata perversa di carne e luce. E fiori silenziosi. Colati a picco dentro il corpo. Come rimmel sbavato nelle pupille. Nella prigione delle infinite possibilità. In attesa dell'amo che sappia estrarle dalle certezze. Potrei fingere di non avere un viso. Dove i miei occhi lasciano scivolare ogni emozione. Come dentro un labirinto. Di non avere labbra capaci di incastrare parole e sorrisi. Di non essere voce che si asciuga sul palmo. Voce da soffiare come polline. E come desideri da affidare all'aria. Affinchè sappia custodirli. Sono l'incastro immondo tra le tessere smarrite.

E quello che lascio vedere.

Un gioco.

E invoco redenzione liquida.

Dentro cui nuotare.

E poi arrendermi.

E annegare.

Con le mie lacrime spente disegnerò un arcobaleno.



E io ballo.
E la mia danza spinge il seme a fondo.
E lo annega nella terra.
E una piuma accarezza le viscere della terra.
E sembra che lei rida.
E forse sta solo fingendo.
E intanto sputa sorrisi.
E io ballo.
E calpesto.
E tocco il guscio della terra.
E non dimentico.
E sollevo.
E accarezzo.
E mescolo aria e materia.
E poi ripenso.
E non ritrovo.
E il dolore evapora come acqua.
E poi ricola addosso.
E come acqua che riga e separa e scivola.
E il tempo è la menzogna più crudele.
E ho lancette dentro il cuore.
E fanno un pò male.
E un pò bene.
E sanno tremare.
E io ballo.
E non mi fermo.
E non sono sola.
E le nuvole sono con me.
E me le stringo contro.
E sono il mio vestito.
E il mio respiro.
E la colla del mio collo.
E ho voglia del loro imperfetto candore.
E ho voglia di poterlo dire.
E lo lecco nelle tue orecchie.
E non interrompo.
E i tuoi occhi hanno baciato le mie caviglie.
E io li ho raccolti.
E li ho nascosti tra le dita.
E se adesso apro le mani ci trovo un filo.
E lo lego al mio polso.
E il nodo è stretto.
E mi sento palloncino ribaltato.
E sono destinata a fluttare al contrario.
E sono aria che strofina la terra.

Viva.
E' spesso sembra semplice e bellissimo.
Ero un solco interrotto.
Ho ricominciato a scorrere.
Senza ali.
Perchè ho voglia di toccare il mondo.
Con il palmo aperto e pieno.
Niente più segreti sussurrati alle conchiglie.
Le ali le conservo nella mente.
Hanno i contorni di petali.
E la voce delle margherite.
Io l'ho sentita.
Forse una volta.
Rovisto nella terra.
Ho perso una parola.
Ma non ricordo il punto.



E ricomincio.