domenica 23 maggio 2010

Come se le parole fossero esche. Erba e carne per ogni fame possibile. E io pesce. Ad inseguirle. O solo ad immaginarle. Con la pancia che sta per esplodere. Un mondo di parole nella pancia. Nel piccolo mondo dei nostri fremiti morbidi e comodi. Di piccoli sdegni e dignità perplessa. E poche arrivano. Poche entrano in circolo. Le altre si sedimentano. In strati che foderano di non sentire. Isolano. E siamo isole nel nostro mare privato. Nel mare di casa nostra. Amebe di periferia. E tutti si prendono troppo sul serio. E prendono sul serio ogni plausibile ammutinamento. Tranne il proprio. E' un gioco. Un baratto tra parole e pezzetti di anima. A farsi compagnia. Senza mai guardarsi negli occhi. Perchè sono stati smarriti. Gli occhi vagano soli. In un bosco a caccia di farfalle. E si guardano gli altri senza occhi. Solo con la pancia e con tutta la fame di cui siamo capaci. O ci neghiamo. Di tutta la fame di cui siamo fatto e di cui siamo stati nutriti. Piccoli giganti bulimici ed invisibili. Su piedistalli distanti. E la presenza degli altri è solo un modo per sentire i nostri contorni. Per farci muovere l'aria intorno. E circondarci di presenze. Mai troppo presenti. Senza arrivare al nostro confine. Nè centro. Nè periferie. Pendolari dell'anima. Sospesi. E soffusi e diffusi in strati di bellezza ed orrore. E poi è lo stesso.
Oggi vorrei una fame asciutta.
Senza parole.
Fatta di morsi esatti e precisi.
Un boccone.
E una sazietà composta.
Nessuna favola da slinguare.
Slurp.
Ops.
Mi sono sbagliata.

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