mercoledì 5 maggio 2010


Bevemmo un caffè inzuppato nella curiosità nella locandadeltempoperpendicolare, mentre tentavamo di deliziarci di briciole di giglio candito e rosa canina. Avevo una pila di storie da raccontarti: mi era adagiata sui miei gomiti con l'intento di lasciarle scivolare nelle tue orecchie e nella tua bocca ed aspettavo che cessassi di bere il tuo caffè meravigliosamente nero. Capita ad una donna di voler essere adagiata sul fondo di un caffè. E di essere bevuta. Come se la comprensione fosse più importante di ogni integrità. Ma non della propria dignità. Avvolgevi la tazza con la tua mano grande e sembrava che il mondo fosse là. Esattamente nel punto contattomanotazzacazzoquantomipiaci in cui le tue dita, senza comprimerla, si arrossavano per il calore della tazza, e la chimica si infilava dalla materia e dalla distanza asettica nelle tue fibre e nei miei occhi. Ero là ad inseguire la forza della tua presa. Come se nessuno al mondo avesse mai saputo tenere una tazza in mano come te. L'amore ci rende piccole divinità imperfette. Pieni di vene che poi sono crepe. E' così che si diventa eroi in un istante. Per morire l'attimo dopo. Nella mescolanza dell'umore ed umoamore di una donna. E nei suoi sobbalzi vividi. E tutti quei dettagli facevano ondeggiare paurosamente la mia caterva di storie. Un pò vere, molto vere in verità, e un pò bugiardine. Ma solo poco. Avevo anche io di una minuscola proiezione della mia minuscola dimensione eroica. Ed erotica. E avevo omesso nelle mie storie tutti quei particolari, inutili orpelli, ed ineducati vezzeggiativi, che facevano di me praticamente, ma questo è il segreto dei segreti, una autentica imbranata. E mescolavo i loro dettagli. E la pila impiccava le mie parole. Lamiapilachepoieraunaautenticastronzataforseunacolonnapernascondermi. E i fatti volavano come moscerini. E la voglia di non perderne neanche una mi induceva ad una asfittica ed ossessiva rimembranza. La luna ed i miei gerani e la mia spiaggia e la mia collezione di santini (forse quella è un pò da spigatasfigata ma forse avrebbe dato di me una idea ed un vago senso di meticolosa ricercatrice di una serie, ci avrei pensato dopo) e la mia passione per Keats e l'odore dell'erba e per l'amore per la carta e l'abitudine di scrivere sui libri (una oscena prova del mio delirio di onnipotenza mozzato e dissacrato, ancora ricordo il disappunto di mia madre perchèilibrinonlipaghituenonsairispettarelecose) e la passione per le scarpe e la mia caviglia dolorante ma disinibita e il tremito di fronte ai monumenti e le lacrime davanti a Millais. A quel tempo ero convinta di essere nelle mie parole saccenti e assunte ed asserite come sagge dal grillodonnina che mi giaceva nei gomiti e ogni tanto si permetteva di fremermi nella pancia. Bastava una spalmata di ciglia e si ricomponeva. E la realtà non era pane da mordere ma un foglio bianco e tremulo. Era lo specchio nel quale sbirciavo. Mentre dimenticavo il mio caffè che mi colava dentro e mi impediva di macchiarlo. Perchè l'abitudine smangia tutti i colori.
Non ebbi il tempo di parlarti e la tua mano mi baciò.
E non riuscì ad investirti di tutti i miei segreti.
Dei miei ridicoli peccati.
Della lussuria solo pensata che mi aveva avvolto e avvolta e tantevolte.
"L'amore non è la tana delle delusioni. E' un prato dove ci si dimentica di noi. E ci si ritrova. Ed è la corsa verso il punto in cui non serve nessuna dote e nessun fardello." Non lo dicesti mai. Ma io ti disegnai una nuvola esattamente in direzione delle labbra. E non mi baciasti. Dicesti solo questo, anche senza dirlo. O forse mi baciasti e poi lo dicesti. Non poteva essere altrimenti. Era così che io lo avevo desiderato.
Sono ripassata alla locandadeltempoperpendicolare.
Non è mai stata agibile.
Non ci è entrato mai nessuno.
E soprattutto non avrebbero mai servito caffè.
Solo infido succo di luna.

Nessun commento:

Posta un commento