mercoledì 8 agosto 2012


Ho sgranocchiato con petulante imprecisione la mia innocenza. E mi sono voltata, una e un'altra volta. E poi ancora. Come se fossi un ventaglio. O solo una donna ferita. Volevo essere sicura di non aver dimenticato nulla. Di non lasciare nulla di intentato e di non detto. E ho provato, e mi sono provata e data. E poi ripresa, per darmi ancora. Con tutta la foga che conosco. E poi mi sono astenuta dal fare, per paura, o per scarsa rispondenza al sogno. Al mio sogno. Al sogno che mi riempie tutta. Fino a non poterne più. Perchè in quello specchio io ci vedevo infinite foglie, e mi è sembrato di amarle tutte. Foglie orfane del proprio ramo, forse destinate a diventare stelle silenziose in un cielo inverso. Avrei dovuto interrompermi e riavvolgermi intorno al mio racchetto, 7 stagioni fa. O forse prima. Avrei dovuto lasciarmi piovere addosso e sopportare. Ed invece mi sono ritratta e rifugiata dentro un bel nido indaco, come una rondine senza primavera e senza bocche stridule da sfamare. Ed ogni volta mi sono riaffacciata e non ho trovato nulla. Mentre il sogno tremava ed imprecava. Solo un cielo infido in cui credere di sentire, laddove il confine tra sentire e provare quasi si perde. Diventa filo e si muove e si adagia con scarsa cautela. Come un burattino a caccia di anima.
Io non la voglio l'amarezza,
e neanche l'incomprensione.
Volevo essere abbracciata,
come la terra con il cielo.
In alcuni punti accade.
Come se fosse un segreto,
quello
in cui si cela il mistero della vita.
Dell'accoglierla, del particarla, nel continuare a crederci.
Vorrei urlare al mondo che se ho sbagliato è stato per amore.
E per la voglia di essere amata.
E ancora adesso mi sento marchiata da una indegnità che non comprendo.
E vorrei che qualcuno mi aiutasse a strappare questo velo che
come una pelle improvvisa
mi avvolge, senza tregua.
Senza cautela,
senza rispetto.
E se ho chiesto
e se ho preteso
e se ho distrutto
ed inseguito
e vomitato
ed inveito
era per spezzare quell'involucro dentro il quale io non respiro.
E mi limito ad esistere nel suo atteggiarsi ed indugiarmi addosso.
Notte, tu che mi spalanchi e mi lasci spalancare anima e corpo questa volta cullami e rivestimi di oblio. Affinchè nessuno si nutra ancora del mio tormento. E del mio rancore. Solo verso me stessa. Perchè non so odiare. E quello che non sono stata e quello che non ho saputo lasciar vedere. Ci sono sette strati di paura intorno al mio cuore. E ad ogni delusione se ne aggiunge uno nuovo. Dendo e spesso. Ma io ho fede nella vita e nella bellezza. Nella carezza del mondo e nelle sue dita prodighe.
E se mettessi sulla mia ferita due punti, equidistanti e sinceri, diventeri battito.
Prima di riprendere a scorrere. 
Sogno l'immenso e sbocconcello la realtà.
Senza una fame vera.
Notte, per una volta, inverti le mie linee, capovolgile, contorcile.
Mescolale alle radici di quell'albero.
Io voglio rinascere foglia.

venerdì 3 agosto 2012


Perchè io le tue dita io le ho strette. Le ho tenute vicine alle mie. Ne ho sentito tutta la muta ed intensa voglia di vivere, di amare e di amore. E ho infilato, come fa l'aria dentro la vita, o il vento tra i fiori, i miei occhi dentro i tuoi. E tu dentro ai miei. Fino a scorgervi tutta la fragilità, la forza, la tenacità, la voglia di sogni, mai abbastanza urlate, ma lasciate dentro, abbandonate, nascoste, frustate. Perchè siamo rocchetti di fili segreti, riavvolti, annodati, e slegati, senza incuria per il dolore, come se fosse il dazio di una lealtà; quella che si deve alla propria anima, al mondo interiore al quale non può mentire. Dentro di te. Come dentro di me. Specchi di uteri e di sangue e di ombre riflesse e promesse. Senza scavare, come se la vita mi avesse messo davanti a quel lago, a quel lago scuro, impetuoso e sincero, ad un mare di velluto, senza trovare e cercare risposte, ma perchè così deve essere ed è bene e bello che sia. E ti ho abbracciata, te e la tua vita, ed i tuoi slanci e il tuo modo di esserci. E mi hai abbracciata. Fuori dalle parole, senza le parole, oltre le parole. E non ha avuto senso il resto, quello non detto, o detto troppo, e a volte strappato e ricucito, masticato e sputato. E ogni volta sembrava appena nato, nato nuovo, come solo la forza dell'amore può fare. E sa. Perchè l'amicizia è il più puro dei sentimenti. Sì. L'amicizia è fatta di acqua fresca, di terra fertile e del cielo e dei suoi pezzi più azzurri. E si fa mano, voce, passo e calore e grido. Si fa rimprovero e sollievo. Conforto, o schiaffo, graffio o carezza. Oggi è il tuo compleanno, ma lo era anche ieri, o forse il giorno prima, o l'anno scorso. Per me, lo è ogni volta che sento la mia anima vicina alla tua, tutte le volte che chiedo alla terra e al mondo che tu sia felice. Ecco, l'amicizia è l'assenza di remore per il bene, per il meglio per l'altro, la capacità di convidividere uno o mille desideri. Come se fosse facile. Perchè sperare per gli altri richiede uno scarto contro l'egoismo che inevitabilmente ci accompagna. Solo dopo, dietro quell'angolo c'è il posto per le amiche. 
Auguri mia piccola immensa Lu.
Mi piace tentare di starti ancora più vicina oggi, così.
E non ho altro dono che sentire insieme il legame, quasi magico,
della vita che tra di noi si è fatta caso e sorpresa e bellissimo dono.
E ho imparato che è meno facile e semplice condividere la gioia che il dolore.
In fondo, è semplice incontrare chi ci riversa i suoi problemi addosso,
accade di continuo, e tutti sono convinti di averne il diritto, di accomodarsi e 
di togliersi le scarpe, e di vomitare la propria vita.
Come se fossimo zolle di terra da addossare ad altra terra.
Tonfi di vita su vita.
Difficile è invece invitare gli altri a raccogliere le nuvole con noi.
Un pò di leggerezza e di serenità.
E a sorriderci incontro.
Vieni?

Nel gioco delle sovrapposizioni, io non sono qui. Destinazione inferno, con un solo tasto. Ed il mio dito affonda nella decisione, che forse è una idea. O solo un sogno. Nel gioco delle dimensioni, la mia è quella più semplice. Io amo la semplicità. Per quello non smetto di credere nel mondo. Deve essere tutto più semplice di quanto crediamo. Avverto il bagliore acido di una pelle al contrario. Su cui la luna ha lasciato la sua polvere. Qualcuno mi ha raccontato delle favole ed innavvertitamente ha lasciato la porte della mia mente spalancata. Così di notte vago tra castelli e monti, a caccia della scarpetta, o solo di una capra. O dei frammenti. Della sequenza di una storia che non coincide. Come quando le due metà della mela non si ritrovano. Il verme ha divorato un lato, lo ha levigato, e adesso è una metà che deve fare della sua forma bislcca un'unità. Ho camminato a caccia della bellezza, muta e silente, ne assaporavo il richiamo. A me succede così, di gioire immensamente e poi di immensamente soffrire, colpa della mia pelle inversa. Della voglia di fiducia, di distendermi sotto le stelle e lasciami chiamare dal vento. Non chiamatela sensibilità. Non ha nessun nome, forse quello di errore. Ma è brutto da pronunciare, gratta il palato. E sento nelle lettere il disappunto che la vita mi ha insegnato ad annusare, per scansarlo, per evitarlo, per modellarlo. Perchè, ad un certo punto della storia, non saprei dire quale, vivere è diventata una gara contro lo specchio. E quel bisogno, come un alito sul collo che mi diceva di guardarmi e non sbagliare. E forse allora scelsi di essere migliore e tra vivere ed amare scelsi l'amore. Un amore da leccare, ovunque fosse capitato. Per sentirne il brivido del distacco e chiudere gli occhi. 
E' bellissimo saperli tenere chiusi, anche quando sai che non dovresti.
Fino ad urtare con la luce.
E dentro quello specchio, io non mento, non posso.
Non so farlo.
Dovrei spiegare ma gli altri sanno guardare solo con i loro occhi.
Ma non sanno prestarli.
Per quello si limitano a giudicare.
Ed io annaspo nella mia egocentrica astensione.
Le vite degli altri sono fatte di cose, di una molteplicità di oggetti. Di una proteiforme moltitudine che gli giace dentro. Come se fossero sacchetti. Spesso sigillati a mano. Anche il corpo è una cosa. La cosa tra le cose, fatta di una devastante e maestosa fisicità in cui qualcuno, forse il dio albero, o il fumine primogenio, ha annegato, o solo tentato, quella voce che ci ostiniamo a chiamare  l'anima e che non smette di parlarci, con i suoi fremiti, i suoi slanci, il suo distendersi e la sua voglia di invadere, coprire, cambiare. Povera colomba immemore, invisibile vessillo, nella palude del corpo al contrario, nei suoi meandri, dentro, chissà dove, come dentro una prigione di carne, o su un altare. Come se il mezzo fosse il suo assordante limite. E lo strumento si facesse intralcio, slancio o ponte. Il corpo è la voce della mente. Il suo disegno di sangue e aria.
Vorrei spiegarvi.
Spiegarvi lentamente.
Con la stessa lentezza che sa dosare la forza.
Questa volta senza perdere neanche un frammento.
Senza schegge e senza croci.
Senza saltare neanche un passaggio.
Senza perdermi nei preamboli.
Senza tutti questi senza.
La misura della mancanza di libertà.
Con il pensiero più liscio di un nastro.
Ma mi sembra di non esserne più capace.
Mi sono persa al confine tra dolore ed egoismo.
L'estate è fuori da questa finestra
e ha strascichi e segni anche sulla mia pelle.
La mia caviglia e le sue storte.
Ma io non riesco a fermarla.
Troppi eventi.
E troppo poco me, dentro di essi.
Non ho infilzato neanche un istante.
Spettatrice di tanta vita, rifuggo le sue spire assordanti
e mi accantuccio.
Perchè voglio bere silenzio.
Perchè passerà.
Perchè è così che deve essere.
Lo so.
E cerco di non dimenticare nulla.
Prima di chiudere la porta.
Neanche tre chicchi di tormento.
Da sciogliere sotto la lingua.
Ed il mio nome stretto intorno al polso.
Come un palloncino.
A voi lo hanno mai stretto forte forte?
Avete mai sognato di volare con lui?
E che una volta l'ordine delle cose si capovolgesse?
C'è un limite a tutto e, quando lo si raggiunge,
si diventa nuovi.
E' un modo per andare via senza essere mai tornati.
Mi piace pensarlo.
E un pò anche dirvelo.
Con un filo di voce.


In momenti come questi, nulla di tragico, solo un momento casuale di riflessione asciutta e di assenza desiderata, bramata, mi pento di non essere riuscita, nel tempo, a trattenere esattamente quelle cose che mi ero appuntata alla testa, o su di là, da quelle parti. Come se fossi un imbuto, una donna imbuto, e gocciolo oblio e distrazioni. Da un certo punto in poi la mia vita è diventata una collana di distrazioni, perle che scorrevano sul filo, l'una dietro l'altra. E tintinnavano un pochetto all'impatto, con una assestazione precaria. Mi era ripetuta spesso, che avrei assolutamente dovuto ricordare quella cosa, quel nome, quel titolo di film, quella marca di calze, di shampoo o di biscotti. E invece, adesso sento solo, al posto di quel nodo, di quel fazzoletto invisibile, che c'era qualcosa che avrei dovuto ricordare, qualcosa che era così importante ed indifferibile ed irrinunciabile. Al punto di non aver lasciato traccia. "E' un pò distratta". E il volto di mio padre diventava i suoi occhi blu come due spilli; in fondo quella maestra, la mia, non si era resa conto dell'incredibile disastro che aveva creato alla mia giovane e pseudospensierata giovinezza. Se gli avesse detto che avevo sgozzato un compagno di scuola, non sarebbe stato altrettanto grave. Il rendimento era l'unico parametro della mia modesta ed acerba vita. E tutte le rassicurazioni successive non giovarono al mio destino ed alla punizione che ne sarebbe venuta. E neanche quella ricordo. Nulla di rilevante, niente di che al cospetto dello sguardo inceneritore di mio padre. La mia memoria è un colabrodo. Trattiene poco e male. E chi lo sa cosa sia davvero utile. Quale sia la misura della probabile utilità. Non mi importa essere efficace nel dire, nè di dire. Ma di non aver non detto. Una specie di vizio, era così sin da piccola, con i miei slanci in un patto di lealtà con il mio cervello, il morbido ed indisponente piatto da portata, di cui sopra. Forse per quello condisco sempre tutto con il prezzemolo. Ecco io sono in quel tocco, anche se sbagliato, eccessivo. Non mi è mai importato essere cinica, perchè sento il cinismo irritante quasi quanto la supponenza. Ed è per me solo una forma spietata di moralismo. Ci ho provato a comprenderlo, mi sono ritirata, irrigidita, infilata nelle mie ossa, ma poi ho ripreso a scorrere, ad accatastarmi in onde. E ho compreso che non voglio stare senza l'irruzione e l'entusiasmo e la confusione della bellezza, perchè la bellezza è ovunque. E forse dovremmo esercitarci a cercarla, a stanarla. Non ha bisogno di tortuose e fittizie ostentazioni. Ma di occhi senza pretese, con la sola voglia di essere riempiti. Perchè è quella la misura reale, di una oscillazione irreale, non permetterci mai di avere occhi pieni zeppi. E vi dirò, francamente, che spesso mi è capitato, e mi ha fatto persino rabbia, di restare delusa. Non parlo di sconvolgimenti emotivi esistenziali, o di tormenti o di lacrime versate o di devastanti episodi. No, parlo del semplice fluire della vita. Del rispetto e del pensiero. Di una pila di mattoncini. Perchè forse gli occhi sono solo un tramite. E il ricordo è solo un segno. Forse il corpo ne conosce altri. Io mi sono abituata a non dedicare pensieri a quella delusione. Ma di innalzarla al cielo come una lanterna nel buio. Perchè il pericolo nella vita è in alto, non in basso.
 Poi con il tempo ho capito che la memoria è la casa,
è l'immagine più vivida della nostra perfezione.

Siamo ammalati di passato. Nelle mie orecchie la tua voce. E già mi sfiori. Mi giri intorno. Fino al collo. E le tue parole sono perle di una collana. Pronte a scivolare giù. E ti rivivo attraverso le idee. E ti fai fiore e frusta. Non c'è perversione. Quella si infila. Come la luce tra le imposte. E' uno spiraglio. E quando chiudi la porta si spezza in segmenti. Siamo quello che vogliamo quando varchiamo la soglia principale. Ed usciamo ed entriamo dalla stessa porta. Senza deviazioni.


E' strano dover comprendere come un nuovo mondo di idee si schiuda. Come un seme nella terra. Lo sperma del cielo. L'amore che si fa zolla. Prima la spacchi e poi lo ricopri. Nella sua culla. Il seme. Nella sua culla di terra. Nessuno ci pensa alla sua paura. E piano piano diventa voglia. Di vivere. E iniziare ancora. Senza aver finito. E senza aver mai iniziato davvero. C'è il culto della parola che si finge carne. E inizia a sanguinare di un sangue che sembra finto. Un sangue di parole. Ma non lo è. No. Sono gocce. 
E a volte fili.

E senti tutto il bene che ti ha avvolto. E non puoi ignorarlo. Come una coperta che ti avvolge le spalle. Una rete di bene. Dalle maglie fitte e lente. Perchè il male tenta di smangiarle. Ma nessun male potrà lasciarci morire di freddo. E unire i rettangoli di solitudini lontane. E' un puzzle fatto di vite. Mani che si sfiorano e non si toccheranno mai. E i dolori che si sciolgono in lievi ma profonde empatie. Sangui estranei e stranieri che per istanti ci lasciamo scorrere dentro. Mentre le storie ci scorrono dalle labbra alle orecchie fino alla pelle. E ascolti verità che nessuno ha il diritto di negare. Perchè ogni anima è mondo e tempio. E spesso le nostre preghiere sono sconosciuti rami che bruciano. Al fuoco di un dio piccolo ma potente. Immensamente potente. E neanche lo sa. Nella misura in cui la sua forza ci stritola le vene e ci lascia espodere  il cuore.
Ad ogni nuova alba.
Nessuna novità.
Poi capita.
Solo un nuovo ramo che si lascia sbocciare i fiori addosso.
Stufo di dover ardere.
Perchè è così che può accarezzare il cielo.
Sei nelle mie parole perchè sei nella mia mente.
Il mio problema è che non so dosare l'entusiasmo. 

Non so dosare l'entusiasmo.
Perchè poi la verità è sempre nei pressi nella menzogna. Incastro i pensieri ai tasti. E mai come adesso sono stata me stessa, un'ombra di carne che non vuole lasciare alcuna traccia.  Mi piace pensare di essere proprio quella traccia. Una me stessa confusa, mescolata, allo stato gassoso. Una me stessa che non si perde. E si lascia le molliche lungo il percorso, una scia irregolare ed imprecisa di briciole. Una donna che ad ogni strattone si prende per mano e si raggiunge.
Sto ascoltando in maniera leggera il silenzio.
E ho voglia di riavvolgermi la vita intorno ai polsi.
Come una sciarpa di seta rossa.
E questa solitudine mi rassicura enormemente.
Un tempo mi piaceva persino essere guardata.
Osservata.
Pensavo che l'osservazione fosse un ascolto più intenso.
La cornice della comprensione.
Adesso alito contro il vetro, per nascondermi.
Mostrarmi non è stato più difficile.
Come prostituire la mia mente.
Con pensieri, parole, opere ed omissioni.
Per mia colpa, mia colpa, mia grandissima colpa.
Ops, devo aver intersecato i pensieri della mia devota vicina di banco.
Almeno credo.
O è la fodera della mia mente che a volte resta incastrata nella zip.
Incautamente.
 

Mi capita di pensare che spesso siamo capaci di accusare gli altri, se di accusa si tratti e di accusa si possa parlare, di tutto quello che noi realmente siamo. Perchè è più facile vedere negli altri i nostri limiti, quello che non vorremmo essere. E forse non sappiamo, perlomeno fino in fondo, di essere. Il nostro alone grigio, lo strato livido che non sempre riusciamo a spostare. E ci invade anima ed il cuore. Come se la ragnatela di quel ragno riuscisse persino ad esserne la culla. Ci vuole più forza ad evitare di fare del bene che a fare del male. Mentre sarebbe semplicissimo tutto il resto. O giù di là. Quando è nata mia nonna l'anagrafe era una realtà approssimata ed approssimativa. Ed anche le sue risultanze. Spaventosamente dilatate da altre esigenze contingenti. Si nasceva settimane prima che lo stato siglasse la venuta al mondo. Perchè era tutto più lento. E forse meno esatto. Ma era tutto impastato in una umanità essenziale ed autentica. Straordinariamente imprecisa ma vera. Ecco, qualcuno dice che il compleanno di mia nonna sia stato ieri, qualcun altro in famiglia dice che sia oggi. Non voglio dire sarebbe stato. Perchè oggi è, e resta, il tuo compleanno nonna, ovunque tu sia. E lo sarà anche domani e tra un mese. Ed ogni volta che ti penserò. Perchè mi piace sentirti dentro e tenere dentro di me tutto l'amore che mi hai insegnato. Tu sei stata maestra di vita, di leggerezza e d'amore. E mi piace pensarci e rivederci con il cono di gelato a prendere il fresco nelle serate d'estate, mentre mi raccontavi della tua infanzia e della tua famiglia.
Era bellissimo stare così.
Vicine.
E tu eri sempre inaspettatamente odorosa.
Non lo sapevo ancora ma era quello un modo per tramandarsi la vita.
Divenire eco di una memoria.
E allora mi sembrava che non sarebbe mai potuto finire. 
La tua culla è nel mio cuore.

Mi piacerebbe essere corteggiata dal vento. Vorrei che entrasse nella mia testa, intendo proprio nella scatola cranica. Trovasse un foro e cominciasse a soffiare. E mescolasse la mia mente, come una zuppa. Annullasse ogni volontà e ogni resistenza. Ed essere delicatamente, moderatamente, lentamente, sedotta. Come una foglia dalla rugiada. Come un fiore dal sole. La riva da un'onda. In fondo è la natura che ci ha insegnato l'amore. Un tempo ero fuoco, un fuoco quasi pacchiaco ed invadente, fragile e sincero, e non osavo, io ardevo e masticavo sogni di fuoco. Mi piaceva sentirmi ardere. E farlo sentire. Mi sono scoperta più donna di quello che credessi. Un tempo, quel tempo, esattamente quello, che è scivolato sotto la porta, come una lettera mai spedita, spersa tra spiragli. Come se fossi rimasta incastrata in quelle lettere. O erano troppo? Una overdose di intenti. Oggi, ho questo presente dalle mille forme e da nessuna. E vorrei, per una volta, solo gocce sincere. Una pioggia buona e vera. Qualunque cosa fosse, ed era, sì che era, adesso è stato. Ed è affondato. Io sono la scatola in cui quel passato, così vicino e dolce, e caro, è precipitato, mentre la vita spinge, perchè non concede tregue. Ed è stato vano trattenere, con le dita dentro il mondo, a rovistare radici per non sopportare l'abbandono, la separazione, il distacco. Tanto da sentire la linfa al posto del sangue e della dignità. O forse non vano, ma solo passato. Adesso avrei paura a toccare anche una piuma. Come se le mie dita avessero perso il tocco. E avvicinarmi a quel vetro non è mai stato così difficile. Disegnarci la casetta, con il comignolo e tanto fumo. Troppo, in proporzione.
E io ho una voglia immensa di pane.
Del suo profumo all'uscita da scuola. 
Di quando tutto era semplice e così pieno di sole.
E mi costringo a sembrare peggiore di quella che sono.
E non è il massimo.
Perchè ho imparato il dono della clemenza con me stessa.
E non ho mai smesso di guardare la vita, occhi negli occhi.
E tutto questo è munifico, egocentrico e sentito guizzo.
Nella mia pozza.
Mentre graffio vertigini.
Affondo.
Nella mia pozza.
La gente non ricorda le sue radici e la loro fame.
Perchè per essere arrabbiati ci vuole una vera fame.
Io le detesto le mie visioni invisibili, le ignoro, gli volto le spalle.
Sono sempre vere.
La verità è in noi, prima di tutto il resto.

E adesso ho questo silenzio e l'odore della polvere che mi riempiono la mente. La bocca al sapore di albicocca e tre, forse quattro, grani di pepe e di delirio, tra le dita, sotto le unghie. A volte li lascio scorrere sotto il pollice come un rosario. Ma non so più pregare. E' solo un esercizio per quando ricorderò come si fa. E questo bisogno che mi ha scavata da dentro si allontanerà come uno spiritello biricchino e come fumo che svuota e lascia valli su cui fiumi bramano solo di scorrere, per precipitare a valle. Si nasce e di muore, per distacco. E resterò sola a ridosso del mio sangue. Non potrò più negarlo. Si è animato qualcosa di strano e ho notti insonni e pomeriggi imbottiti, come cuscini di piume, di sonno e di sogni. Di quelli che sono così reali e pieni di scampoli della vita passata, mescolata e confusa, in cui percepisci solo qualcosa di noto e familiare. Ma non sai cosa sia, e hai quasi paura di guardarlo, non prima del risveglio, quando sbarchi sulla riva della confusione e dell'insofferenza. Come se sapessi, intimamente e profondamente, di aver lasciato qualcosa sull'altra sponda. E non ti sforzi neanche di ricordare, perchè non ti abbandona un senso di nostalgia. Una medusa che ti riempie il petto. A volte una delle sue spire potrebbe sgorgare dalla bocca o dal petto. O attorcigliarsi alle caviglie. E tu respiri piano e con indolenza. Avverto, avverto quel fluire, e questa cosa non mi succedeva da tanto. Da quando non ne avevo la consapevolezza. E adesso la ho, anche se la rinnego. Per mesi ho sognato il pianto di una donna, quell'anno. E non ne comprendevo le parole. Credo che ogni donna non possa restare indifferente al pianto, anche se sconosciuto e lontano, di un'altra donna. Sarebbe spezzare il filo che ci sottende tutte, e che ci lascia chine sulla vita, come ipotenuse che cercano di sfiorare il cielo. A volte sono stata accusata di molte cose, ma l'unica accusa vera è quella di essere strana, a modo mio. Di soffrire inaspettatamente per ciò che accade. E per ciò che accade. Come se fossi in affano sui sogni ed in caduta libera ed incapace di tirare la cordicella. Per il resto, non ho mai fatto volontariamente del male a qualcuno. Perchè nel male c'è una bruttezza incancellabile che ci segna l'anima come carbone e lascia sempre e nella migliore delle ipotesi i suoi aloni. Se accade è perchè viviamo per uno strano prestito della chimica e ci strifiniamo la vita degli altri. A volte, per caso. A volte no. 
Non posso permettere più a nessuno di varcare la soglia della mia mente.
E di giocarci.
La crudeltà non mi seduce più.
Supremo è il mio rispetto per la follia.
E la follia nasce da una intiuizione che si fa spazio e selvaggiamente
esplode.
 

Nel buio ho imparato a riguardare i colori. Poco per volta. E' stato come ritrovarli nel posto in cui li avevo lasciati cadere. Goccia per goccia. Chissà perchè tutto ciò che è drammatico ha una intensità liquida. Lacrime, sangue, umori, saliva. L'umanità è quasi costretta ad essere più intensa, quando è bagnata. C'è nel colore una sincerità incontrollabile, quasi spaventosa nella sua ingombrante ingenuità. Non ha regole. E si dona. Un tempo, non so più quante vite fa, ero avvezza a rotolarmi nel colore, e non mi risparmiavo. Affondavo gli occhi nel mare, come in una tela, e ne bevevo tutto le sfumature, ogni tono. A volte lo comunicavo, altre lo tenevo per me. E mi piaceva. Perchè ne percepivo le variazioni. Quasi con la presunzione, a mia volta, di essere fatta di mare. E succedeva anche per i prati, per il cielo, per i fiori. Per caso, poi, rinvenni, delle riviste d'arte, nella libreria di mio padre. E iniziai il mio viaggio alla ricerca di quella bellezza, nuova e portentosa. Era la possibilità di duplicare il mondo, e poi ancora, e renderlo infinito. Ecco, era esattamente il dono dei propri occhi agli altri. E io forse ancora non me ne rendevo conto. E mi perdevo tra quelle figure, ne percepivo la magnificenza, lo splendore del saper riprodurre la vita. Ero una bambina, con il suo mondo segreto, e all'improvviso diventava di polvere e silenzio e di libri. L'estate era questo, era la tensione della conoscenza, e i suoi brividi portentosi, mentre ti sentivi protesa in quell'universo dilatato in cui ti sentivi meravigliosamente incompiuta.
E mi sembrava di poterlo esplorare tutto il mondo.
E che non mi sarei mai e poi mai stancata.
Non lo dicevo, ma lo speravo, dentro.
La vita poi ti distrae.
Ha questa orribile pretesa.
Ma poi ricapita e ti risenti così. 
Proprio così.
Come se fosse estate, anche se nevica.
Con l'odore di quei pomeriggi rassicuranti e pieni di sogni, sotto le vene.


Pesa molto il disincanto. Vela le ciglia ed il mondo appare a righe. Lo percepisci a pezzi. Dientro la gabbia della diffidenza. La belva dentro di me mi sussurra e mi ride nelle trombe di eustachio. E così mi fodera di distacco. E questa visione, in cui le sillabe si mescolano tra di loro, come falene, e le vocali sono quasi invidiose delle consonanti, è una tela che confonde e distrae, distacca, copre. Un velo imbrattato sull'anima.
Apro gli occhi.
E sento l'aria appena fresca del mattino.
La mente è un foglio bianco.
Lo imbratta il cane del vicino che abbaia furioso
al mio gatto che fugge dispettoso sul muretto.
Prima o poi ci resterà secco.
Per il momento l'unica che ne paga le conseguenze sono io.
E i miei timpani.
Ed il mio foglio macchiato.
Scaccio inorridita questo pensiero. 
E cerco nell'aria l'odore del caffè che non tarda ad arrivare.
E' un ricordo sempre rassicurante.
Sa di casa.
Non sento la bestia ora, ma non mi tranquillizza la sua assenza. Ci sono sensazioni negative che ci sono anche quando mancano. Lasciano una forma, come dentro al letto e tra le lenzuola sgualcite. Si è infrattata ora, ma poi torna, e all'improvviso mi percorre e sbrana e rovista. E mi fa suo immondo pasto. E mi ricerco nella mente il pensiero della serata appena trascorsa. Il piacere del vino freddo nella gola e le risate che si intrecciavano. A caccia di una spensieratezza un pò arruginita ma così gradevole. Non dover spiegare, non dover capire, non dover spiegare ancora. Io non so più parlare agli altri. Io pretendo. Io chiedo. Io osservo. Io deduco. Maledettamente deduco. E poi intreccio le mie sensazioni come corde. Fino a farne nodi. E' come avere una seconda pelle. Non copre. Avverte. E non sbaglia.
Il cane ha smesso di abbaiare.
E il mio gatto dorme sotto la palma nel giardino.
Forse anche lui sogna.
Un nuovo cuscino su cui rifarsi le unghie.
Una ciotola colma di croccantini, solo per lui.
Una nuova padrona che lo faccia mangiare prima.
O di diventare amico del cane del giardino vicino.
E' un gatto incompreso, e molti lo credono un pò stronzo.
Ma lui non può farci nulla.
E' così.
Lo ricordi ancora il mio nome?