mercoledì 21 ottobre 2015

Strana la nebbia nella mia terra di salsedine. Le pigne sulla strada e gli aghi sparsi. Come dopo una battaglia. Ha un odore che sa di lontananza. Di tanto tempo. Di tante vite fa. Le dune sfondate dal mare lasciano intravedere l'incontro tra il cielo e le onde. E quel rumore non lo scordi più. La voce del mare è un tatuaggio di suoni nella mente. Da piccola avevo sempre paure delle tempeste di pioggia in inverno. Temevo che si portasse via la nostra casa, come se fosse di cartone. Quasi mi piaceva. E poi pensavo al freddo. E ad altro in verità. E faceva così paura. L'idea di mio nonno lontano e della sua solitudine. Una mattina ci svegliammo e tutto era immobile. Dopo aver tremato tanto. Una domenica come tante. E il mare aveva rubato alla mia terra, alla nostra terra, dei suoi uomini. Una storia incomprensibile per dei bimbi. Ancora di più per i figli di quella povera gente. Avevano incominciato a essere meno bambini, così all'improvviso e neanche lo sapevano. E a volte accade tutto ad un tratto. A noi altri metteva tristezza, una tristezza spessa e densa. Come se la cogliessimo negli occhi della gente del paese. Abituata alla crudeltà del suo signore. In un paese piccolo si condivide tutto. E tutto diventa di tutti. Anche il dolore. Forse solo quello. Per il resto ognuna ha la sua casa e le sue porte. E in quei momenti sa rinnegare il mare e le sue leggi. Nel tempo ho incontrato quei bambini. Erano uomini. "Sapete mio padre morì a mare d'inverno. Io ero piccolo.". Ed ero piccola anche io. Tanto più di lui. Perché ignoravo. E ricordavo senza capire fino in fondo. La tristezza è un ricordo grigio. Indelebile. E spontaneamente si accovaccia dentro la pancia. Senza fiatare.
Spesso ho quasi paura a manifestare questa parte di me.
Allora prese forma una delle tante me.
Aveva fame di strada e di sapere.
Parlava con le conchiglie e le baciava. 
Senza aspettarsi mai risposte.
Una parte legata da nodi duri alla mia carne.
La traccia della semplicità della mia terra.
Una impronta di sangue e amore.
L'amore per le parole asciutte e con poco sangue.
Hanno l'odore del sale.
E pochi sanno riconoscerlo.

E il diavolo che è in me ha una bocca immensa. Sorride alle mie viscere. E le annusa. E si diverte a leccarmi il cuore. Fino a farmi tremare l'anima. Non è un serpente. Nessuna forca. Ma ha la corolla di fiore. E gioca a rigirarmela nella testa. Come una sciarpa. Fino a farmi chiudere gli occhi. Per raccontarmi i colori. L'universo che un tempo persi. Un universo di colori dissolto. Per un errore. E' un diavolo buono. Spesso si pente del mal fatto. Raramente restituisce ciò che ha tolto. La chiama fame. Io la chiamerei malattia. Ha una paura fottuta del buio e si nasconde in un cantuccio ogni notte. Lo sento piangere e promettere che cambierà. Quanto vorrei credergli. Ma poi che diavolo sarebbe? Un buon diavolo. Spera di non farsi vedere. E alcune notti diventa davvero trasparente. Lo scambieresti per un angelo. Da lasciarsi le penne. E forse lo è. Ma non oso dirglielo. Credo di essere fumo. Ma abbracciarlo è fumare nebbia.
L'angelo che è in me è sempre trafelato. Arriva sempre al momento sbagliato. E si crede cattivissimo. Ma ha solo confuso le mani con i piedi. E a volte passeggia sulle sue mani. Quasi ci balla. Basta guardargli gli occhi per capire che non sa mentire. Si rotola in menzogne a fin di bene. Perché preservare gli altri dal dolore è il suo vestito migliore. E' permaloso. Un pessimo angelo. Ma si nasconde gli errori. Ma poi si pente e li ricerca. Anche se ha smarrito la mappa. Ha solo un vizio. Ulula alla luna. E la accarezza con le sue ali silenziose.
E io non ci sono.
Non più.
Mi sono rintanata in un angolo della mente.
Nel cantuccio che mi lasciano.
Quando ne hanno voglia.
Quando non stanno scommettendo il loro turno.
Mi limito ad osservare.
E mi basta poco per capire.
Non ho più nulla da dire.
E francamente fa un pò male.
Ma solo poco poco.
E' solo colpa delle mie mani ebbre.
Accecate dagli sputi di un arcobaleno.
Immensamente bello.

giovedì 15 ottobre 2015

E innocente il gioco.
Quasi pulsa.
Batte nelle vene.
E affonda come un sasso nello stagno.
E sei l'onda.
Tu lo respiri.
E non vuoi.
Spogliami.
Spogliami la carne.
E il cuore.
E poi sfondalo.
Dolcemente.
Spogliami e vestimi di luna.
Quando ti penso tremo.
Tremare è il gioco più innocente.
E cerchi un rifugio.
Quando una donna si sente una stella.
L'incastro dei brividi nella mente.
Come se fosse cielo.
E tremarti addosso.
Non per riscaldarmi.
Ma per resistere.
L'amore è il filo che si interseca con i nostri giorni.
E ci smebra la vita in segmenti irregolari.
Complica e devia.
E perfidamente lega.
Come in una foresta.
In un non luogo.
E desiderare è un pò essere immortali.
Divinamente umani.
Dei di carne,
con il cuore nel petto,
che tentano di vendicarsi della morte.
Non voglio essere amata, solo mangiata.
E poi nutrita.
Non voglio amore.
Ho solo fame.
*

Vertigini di raso. Afferro un lembo. Scivolano e affondano. Soffici come piume. Si sovrappongono. Ma poi sfuggono. Come scalare la panna. Il tempo che le ciglia si bacino. E le piume si sfiorano, ma non lasciano segno. E a volte mi sento così. Una ciglia smarrita. Dimenticata in un orlo. Un segnalibro di pagine invisibili. Perchè è bello pensare che i pensieri si inseguano. E le parole vaghino. Diventino sangue. E fiato. E tra tutte queste distese sterminate, galassie della mente, poter essere un piccolo intervallo. Quasi una virgola.
Così mi assento.
E mi riavvolgo dove mi ero interrotta.
Come una fiaba spezzata.
Ed una musica rammendata.
E' un lembo di carne. Su cui ho inciso un pensiero distante. E una illogica nostalgia. Una pausa. Una sosta. Una piazza. Un punto che non si arcua in domanda.
Tra essere e dare non so scegliere.
E mi semino obliqua.
«Nel corpo, non meno che nel cervello, è racchiusa la storia della vita».

*
Illogico è il dolore. E senza voce. Cerca di bucarti la pelle. Per trovare una via di fuga. Una porticina. Uno spiraglio. Un urlo. E con le dita parli. Fino a fartele sanguinare. Voraci e sgomente come rami contro la roccia. Cercano il segno in cui lasciare un nuovo segno. Per colmare i solchi e sperdere la propria voce muta.
Non ho più nome.
L'ho donato al mare.
L'ho visto annegare tra le onde.
L'ho visto dilaniato nel becco di un gabbiano.
L'ho visto colare a picco, come un sasso.
E ogni volta l'ho creduto mio.
E l'ho seguito.
Come un granellino di sabbia.
Fino al fondo.
Dove credevo dormissero i pesci.
Nella pancia del mare.
Come uccelli inversi.
E ogni volta mi sono svegliata, esatta come una campana a festa.
Oggi sono un morbido nulla.
Indolente e rabbioso.
In momenti come questo, come quando accarezzi il fondo, perchè altro non sai fare, vorresti una memoria liquida. Dove le parole non prendono forma. E si può dire tutto e nulla.
Senza direzione.
Come frecce pentite.
Mordimi le viscere.
Masticami il cuore.
E poi stringilo forte tra le mani.
Come un pesce che sta per morire.
Legami la mente.
Ho polsi sinceri.
E lacrime vergini.
Quasi ridicole.
Le potresti scambiare per il mare.
*
Poi ci sono cose che non sembrano dolci, ma che lo sono per davvero. Dolci come l'odore del mare ad aprile. Riempie l'anima e la gola. Di tenera nostalgia. Forse perchè ad aprile io fui quasi felice. E quell'odore, quasi incompiuto e imperfetto, mi riporta in quel punto. Come se fosse un punto di partenza e di arrivo. E ancora. Le conchiglie che si rotolano sulla riva e raccolgono e svuotano sabbia. Nessuno penserebbe a tutto questo come dolce. O forse lo hanno pensato in molti e non lo ricordano. Ma vi è infinita dolcezza nel velo di acqua che le accompagna e le ricopre e poi le libera nella luce. Senza farle mai asciugare. Abbandonandole solo per un attimo. E poi tornare ad accarezzarle. E permettergli di perdersi ancora. E di riempirsi e svuotarsi.
E la dolcezza in genere ha la corteccia ruvida della spontaneità.
Vorremmo solo qualcuno capace di lisciarla.
Come per incanto.
La magia del toccarsi senza che finisca mai.
Fino a divenire una sola superficie.
E in un dopo che poi è un quasi dentro, un pò più a fondo, nell'attimo dopo, trovare una carezza, una parola, un sorriso. Senza un motivo. Perchè la dolcezza è la capacità di accarezzarci, fino a farci sorridere. E ridere. E mordere luce. Senza nessun perchè. La logica spegne le emozioni, perchè a quel punto, ci raggiungiamo oltre la pelle. E la pelle ha compreso il quasi tutto. E d'istinto ha gioito. Come se respirasse.
Oggi, voglio sentirmi libera di esprimermi.
E ricamare sul bianco.
Piccoli grazie.
Come se fossero frammenti di luce.
Sulla pelle del mondo.
Un piccolo rettangolo.
*
Arresa. E tra le mie braccia fasci di aurora. Tagliano. E a volte torna. Torna l'aurora. E si mescola al disincanto. Non c'è il pallido stupore. Non c'è più. E ho una coltre fitta e densa che avanza. E la mia aurora mi sta tremando tra le braccia. Senza parole. O solo una. O forse di più. Non riconosco più le parole. Avrei voluto spiegare. Perchè così capisco. Estraendomi i pensieri dal petto. E tenendoli tra le mani. Toccandoli. Perchè a volte penso con il cuore. Per quello è così difficile spiegare. E quando poi si formano ingorghi mi perdo tra l'amare e il credere e il pensare e il sentire. E penso attraverso il sangue. E amo attraverso la mente. La parte in cui ho portato poche persone. Davvero poche. E' tutto confuso. E l'aurora fa male. Ho tagli in cui la luce si insinua. E mi scava. Un orgasmo di luce. Non ho avuto paura e ho visto le stelle. Mentre mi coprivi il cuore. Con il tuo. E sentivo batterti contro. E respiravo il mondo. Mentre mi perlustravi la mente. Avrei voluto descriverti quello che provavo. Quello che pensavo. Non per farti capire. Ma perchè era bellissimo. E non era lo stesso. E le stelle lo impedivano. Sì, io amo con la mente. E sanguinare non mi spaventa. Là sono davvero io. E lì mi avresti trovata. Aurora dopo aurora. In silenzio. A raccogliermi i battiti. Relegata nella soffitta della irrealtà. Ad intrecciarla con le mie favole di carne. Perchè la verità non basta. E oltre a quella non ho altro.
E mi lascio osservare.
Farfalle sulle labbra



E tra le mani. C'è stato un tempo in cui
le mie labbra sputavano farfalle. Piovevo farfalle.
Le osservavo mentre frustavano l'aria con le ali.
Ne imitavo i colori. Li imprimevo nella mente.
Descrivendomeli nella testa.
Me li raccontavo e le mie parole mi facevano compagnia.
Rigavo i pensieri di mille colori. E me ne riempivo le mani.
Farfalle dalle labbra alle mani. Fino alla testa.


Un volo fino al cuore.


Sciami di farfalle lo avvolgevano.
Le lasciavo sul mio palmo.
E loro lo accarezzavano.
Per alcuni istanti mi sono
sentita una di loro.
Una farfalla cieca. 
Poi ho riaperto gli occhi.

Ho dipinto le mie ali.
E le ho spedite al vento.
E ho volato.
Con le mie ali finte.
E strappate.
Per poi vivare nella mia ombra.
Le mie ali sono rimaste incastrate là.

Adesso nella mia mano è adagiata una sola farfalla.
Mi inonda il palmo con il suo respiro.
Lei mi presta la sua aria. E io il mio palmo.
Io vivo nelle sue ali.
A volte la nutro di parole. 
E le dono pezzettini della mia pelle.
E della mia dignità. Sento il suo odore.


E' l'odore della luce.



E' tornata. Ho cercato la luce.
L'ho cercata come si cerca
la forza nella disperazione. 
E si impone al cuore di contrarsi.


E adesso io sono la sola galleria tra il mio corpo ed il mio cuore.


Non aspetto più parole. 
Le dono senza chiedere nulla in cambio.
Ho lasciato che nella mie mente
fossero deposte gocce di cera. 
Calda. Irriverente ed impudica.


Ne ero la indegna coppa.
Ma la luce le ha sciolte.
Sento solo la loro traccia.
E di tutta questa indegnità.


Da bimba spargevo le foto sul pavimento.
E le affiancavo e le allontanavo.
File di foto.
Spezzate e ricomposte.
Come con le parole.
Per dire tutto o nulla.
A volte le ritagliavo.
Non per distruggerle.
Ma per nascondere pezzi agli altri.

Forse….


Ho il cuore tra le mani.
Sembra un piccoolo sole che si spinge verso il vuoto.
Si contorce e si modella in archi di vuoto e di luce.
Tutta quella che non ha.
Prima di tuffarsi e stemperarsi in
linee di assenza
ed in mille ombre.
Quelle che ci raccolgono e ci adagiano.
Sul bordo.
Ci avvicinano al suolo.
Fino a renderci sue vene.
In avido ascolto.
Forse i nostri cuori sono le radici della terra.
I suoi vasi comunicanti.
Le radici di un fiore.
E come ombre silenziose affondano.
Si infilano sotto.
Nel resto del senza.
L’alcova del bisogno.
Fino a non lasciare traccia.
L’oblio del cuore è un labirinto.
Sotto la pioggia la terra è assolutamente nuda.
Quasi indifesa, si ascolta.
Fragile.
Ogni passo la riempie di crepe.
E quelle crepe a volte sono le uniche parole di cui siamo capaci.
E le soffia polvere.
La paura della terra.
Paura, quasi livido e scostante terrore.
Di ascoltare i sussulti che ci sono sotto.
Come un cuore lontano che batte.
E non ci sembra neanche più il nostro.
Il mio corpo è una terra da ascoltare.
In silenzio.
Perché così ti accorgeresti che è la tana di una luna muta.
Lana spessa e grezza.
Impregna e si impregna.
E io mi parlo e mi “parolo” addosso.
A cascata.
Solo per nasconderne i battiti.
Ed inventarmi il silenzio.

Sara sarà


E accadde mentre si lavava i capelli. Le accadde di capire, mentre tra lei ed il soffitto c’era solo acqua che le rigava, indulgente ed imprecisa, il cranio e separava, senza dividere; già acqua, acqua che non sarebbe tornata, e che giocava lenta ed implacabile sul suo capo. Una matassa di sogni spenti ed asciutti che ricominciava a strusciarle addosso. In uno di quei momenti in cui il corpo diventa un oggetto, tra gli oggetti. Come se fosse svuotato di ogni volontà. Il corpo è una cosa che si lascia vivere da noi. L’oggetto degli oggetti. Nel gioco della vita. Come se fosse un pulsante, un joystick, una lancia, uno sputacarezze, una ruspa o una pinza da insalata. E poi pian piano diventa sempre altro. Una specie di magazzino. Lei comprese, ne percepì una vaghissima sensazione, nulla di tattile, ma trattenne. Tenne per quale istante quella sensazione di essersi avvicinata alla verità. E che forse la verità non le interessava. Perchè la verità non era mai reale. Nè ferma. Era la non verità, senza diventare menzogna, che diventava solida, forma, carne e misura. E di riflesso ci dava la possibilità di cambiare strada. Ancora a raccogliere vita e voglia e desiderio. Per quello deviamo e ci rivoltiamo e continiamo a camminare. Contro ed oltre ogni apparente immobilità. Così slentò la sua corsa dietro a quel perchè. Lo sentì scivolare via con l’acqua. Come quando da bambini si capiva il trucco. Ed era solo imparare ed imparare a capire. Quella era una domanda che ne aveva precedute altre. Perchè domandare era un modo per smettere di rispondersi. Non aveva mai previsto che tentare di vivere fosse una possibilità. Una tra le tante. Senza che fosse neanche la migliore.
Solo che aveva il sapore del sole.
E forse una parola nuova da sciogliere sotto il palato.
Non voleva spiare il mondo.
Lei voleva guardarlo.
Ad occhi pieni.
Ed inspiegabilmente alternava un pensiero delicato ed uno brutale.
Quasi mangiarsi di baci e morsi.

luna nera


Un brivido ed una parola. E poi una vertigine. Mi sento e fino in fondo. E fino in fondo mi distruggo. Cancello gli occhi, la bocca, la mia voce, le mie vene, e le mie mani, fino alle nuvole. Fino a piovermi a dirotto. La pioggia scroscia in una notte senza stelle. Non ho emozioni sui polsi oggi. Solo rovi e tormento. Quello della incomprensione. Purissima, come solo la paura sa far germogliare. Buca la pelle, come se fosse una zolla arida. E fa male. Quando la lama ha segato ogni confine ed ha reciso la vena. Dove va il sangue? In che direzione? E nello specchio dell’indefinito ho iridi diluite in una strana indifferenza. Parole che non riesco più a pronunciare. Non le voglio. Sento solo uno strano silenzio. Fende la dignità e i suoi brandelli e mi squarcia il ventre, come un piacere all’inverso. Mordo aria, mordo il cielo, mordo la mia mente, con i pensieri, quelli più sbagliati possibile. Per il terrore, sacro e virgineo, di sporcare tutto, oltre me stessa e questa pelle sbagliata, una pelle inversa. In fondo aspiriamo alla perfetta comprensione, ma quella è il solo perfetto vestito del sangue. Il resto una favola senza capo né coda, dove il lupo non sa che pecora sbranare. Respiro, respiro ancora e le dita si perdono in questi tasti ed in queste parole e nel senso dell’inutilità di istanti. Qui nel mio fiato ho una verità e poi un’altra e poi ancora. E non respiro. Perché vorrei saper dire e raccontare una storia senza pause, senza virgole, senza sospiri. Senza giudizi. Sono difficile e persa nella mia rete di donna pesce. Ed è facile vedere il tormento che mi deforma e si infila tra i denti. E ho solo voglia di mordere e mordermi e dilaniare tutto questo errore di donna che sono riuscita a creare. Una donna intorno ad una voragine. Chi può mai sporgersi per guardarci dentro? Io non lo farei, meglio i muri fragili della incomprensione.
Ed è il silenzio il solo fodero del mio desiderio.
Delle mie mani sole, nel buio.
Perché nel buio i graffi scompaiono e sembrano bellissime.
E non ho bisogno di sembrare migliore di quello che sono.
Così per caso e poi per gioco. Tra vena e vena. Nella sua solenne lentezza, non so che ora fosse ma mi intrappolai in te, come nella più tenera e candida delle perversioni. Oserei dire feroce e lo sussurrerei. Ed è successo? Tu lo sai? Era ieri o domani? Scivolai dentro me stessa ed un desiderio che pulsava di rosso. Rosso come il sangue del mio dito, che vorrei descriverti, e come il palloncino che mi esplose davanti alla giostra. Rossa come la mia gota mentre mi parli. E come la mia mente mentre ti ascolto. Ho sempre odiato il rosso. Ma adesso no. Oggi lo sfioro e me ne tingo i polpastrelli, perché rosso è il tratto tra la mia mente e la mia carne. Un sentiero semplice se chiudi gli occhi. Perché ho la disperata sensazione che ci si può riconoscere per davvero solo nel buio. Ed è per quello che non ho mai aperto gli occhi. E sono ancora chiusi. Ma tu lo sai.
Il cuscino come argine dei suoi pensieri. Ha altro da dirsi nelle sue notti. Sta scandagliando il fondo, più o meno meticolosamente. Sente l’odore del futuro e ancora lo teme e ne centellina la fragrante fugacità. SI ascolta i polsi e così si placa e si divarica come una corolla. L’aria nella gola, troppa, senza neanche tanta paura; giusta quella che le serve. Un taglio sui jeans, ed passi alla rinfusa. La caviglia sorride, nei suoi schizzi imbarazzanti di sensualità. Senza una direzione, con una maledettissima voglia di vivere, come se il lembo si fosse slentato. E sul cuscino qualche lacrima, che non guasta. Hai mai bevuto le sue lacrime? La luna c’è ed è il suo palloncino. Ma a lei i palloncini hanno sempre fatto tristezza, languidi e smunti, alla fine della fiera, a grattare il soffitto, come barlumi di vita che si strusciano, esattamente sotto il tetto del mondo. Supplici a suggere frammenti di vita. La voce della gente la circonda, come uno scialle sgualcito. E lei resta sotto la sua patina, in un distacco che non è solo attesa, anche se sa, e sa che domani non sarà altro che domani.
In notti come queste, anzi come questa, vorrebbe solo musica, quella che piace a lei e che la spacca a metà come una mela. Spicchi che si sfiorano, lasciandosi ricucire dalle vene.
E quella lama a ridosso dell’anima, ad ogni palpito che brucia il cuore.
O forse altro.
Si disegna le linee della mano, per infilarci dentro sogni.
Ha perso la mappa stinta delle sue ferite.
Ma sa che la pelle è pregna di memoria.
Il senso dell’incompiuto mi lega i polsi e lascia il suo solco. Quanti giri di corda? Mi rifugio nel fiato, perché mi aiuta a non sentire quella riga perfida e sottile, come l’anima di ferro, che taglia. Come la delusione. Segmenti di respiro ed il prato come un tappeto, a raccogliere rugiada sparsa. Stringi forte, più che poi, perché ho bisogno di piangere. Urlerei volentieri alla luna questa notte, fino a lasciare cadere frammenti di cielo. E poi non so. Resta quella maledetta sensazione, come una seconda pelle. E quasi soffoca.
Sfioro la tempesta solo perché l’aurora è già finita.