sabato 31 marzo 2012

Avevo scelto una tasca molto stretta ed era per quello che perdevo molte cose. E non era una sensazione sgradevole, dopo il primo impatto. Prima c'era la consapevolezza di tutto quello che non si era voluto vedere e che era destinato a noi. Era un afferrare con una strana consistenza. Dove la mano diveniva coppa. Contenuto e contenitore. E pieno e vuoto erano le naturali angolazioni della stessa fame. Poi c'era la rorida fase del voltarsi. Del captare tutti i colori in cui la luce di adagiava. Era un rendersi leggeri, quasi imitare il vento, che non aveva bisogno di molto. Vivere per differenza. Disegnati dai vuoti e da quello che ci aveva ritagliati. Senza essere sagome. Ma pieni pulsanti. E per caso ci si trovava con una nuova forma e nessuna battaglia. Forse dei frammenti di orgoglio in meno. Per aver detto troppo e male. Perchè l'orgoglio era un problema di parole, e non di dignità. Per molti conta bilanciare quello che si è detto. Con una stadera di precisione. E ritrovarsi esatti li fa sentire integri. Nel gioco dell'aver dato meno di quanto si è ricevuto, quasi di aver saputo spezzare il filo prima che il rimesso cadesse del tutto. Ho imparato ad immaginare quella voglia di nascondere come un immenso buco nero e la voglia di luce mi ha sempre spinto a dire e fare quello in cui credo. Senza artifici. Troppo filo e poca stoffa. Al limite di un ridicolo stridio tra l'anima ed il resto. In fondo, ciò che contava era quasi sempre scivolato sul fondo. Nell'angolo più difficile e doloroso. Dove potevi calare la mano e sentirlo, granarlo come un rosario. Un amico invisibile. Ognuno di noi l'avuto. Ma dimenticarlo è stato facile, perchè si aveva il diritto sacrosanto di sgranocchiare patatine vere all'uscita di una finta messa. E riempire altre tasche. Mi sono accorta così, come quando sbatti la faccia contro un vetro, che raggiungere le cose non sempre è facile, come si crede. Anche quelle che credi tue, disegnate da una appartenenza radicata. Come una radice nella pancia. Disegnare le cose significa staccarle da noi e vederle, finalmente per quello che davvero sono. Senza di noi. E mi piace questo rotolarmi addosso le parole, come pietre sui fianchi di una collina. Per perdermi nel fiato sempre troppo corto mescolato alla voglia di riposare a valle. Di arrivare. Di toccare l'erba. E intrecciarla ai miei capelli. Ci sono cose che sono nostre, macchiate da un imprinting dimenticato, dalla carezza della donna pesce. E dal suo morso. E ci sembrano più naturali della voglia di immergersi e giocare con il fiato, fino a non poterne più. E ritornare sopra ogni plausibile superficie a ritrovare l'aria. Come se fossimo piccoli mari. Ho poggiato la mia testa sulla tua pancia. Come se tu fossi prato e io un piccolo gatto in cerca di calore. Perchè su di noi c'erano solo nuvole. Incastrate al soffito ed alla tenda glicine di quello strano mondo che ci conteneva. Una bolla ofattata, dove il tuo respiro rimbombava e mi scheggiava i lobi. E io sentivo, e non mi facevo domande. E nessuno ne faceva a me. Chi non prova interesse nelle mie parole, non ne prova per la mia mente. E io sono la mia mente.
Rubo primavere, succinte ed umide. Piccole e profumate. Minuscoli gigli increduli. Ebbri di rugiada. Solo per farne bende. Vene di un buio fecondo. Una spirale. E poi impicco, placida, ogni alba. Placida lei e disperata io. O il viceversa. Non riesco a vedere. Guardo, ma non vedo. E' tutto sfuocato ma vicino. E' quello il segreto dell'innocenza. O forse dell'incomprensione. A volte sembra si sovrappongono. Del rendersi tutto più semplice o più complicato. Più complicato quando è semplice. E più semplice quando è davvero un gran macello. Uno stragemma. Mi fa sembrare tutto nuovo e più lungo. Senza confini. Mi sembra di dilatare, o a volte smettere, di sentire. O solo di accorgermi che sta accadendo. Dovrei fermarmi, ma ancora scorro e dico e sento. E mi riargino. Perchè continuo a stupirmi di quello che succede. Di quanto sia più reale di ogni storia inventata. Di quanta fantasia sia impregnata la realtà. E di quanto stupore sia latrice precaria. Perchè mi imbatto in una amarezza sottile, come una lama. E dopo che mi ha sfogliata, come il vento sulle pagine, mi ricompongo e trattengo. Ma dove sono gli altri? Perchè è così dannatamente difficile starci vicini? Come se potessimo condividere lo stesso spazio solo per poco e poi fossimo costretti a spostarci. Per incontrarci ancora.O forse mai. Ma mai è solo l'avverbio degli immemori. E il tempo che ci è concesso è solo una pausa.
E io riesco a dimenticarmi.
Ma faccio fatica a dimenticare.
E' il gioco delle impronte.
Non si ritorna mai uguali.
Ho rinnegato i miei principi. Non ho esitato mentre esangui scivolavano sotto il rubinetto. E io liquida non ne provavo affezione. Per quell'abbandono. Ero più fluida della crudeltà ed ascoltavo lo scroscio che li accartocciava. E soffocavano. E io con loro. E quell'afflato che mi raccolse non si chiamava. Forse era amore. O dolcissima sincerità. Cruda e ruvida. O lentezza. Quella lentezza con cui le cose ritrovano il loro posto. E non è sempre esatto. Forse solo quello un pò più giusto.
La perfezione smette di esistere, come una serpentina furiosa,
nel momento in cui tutto ha ancora un senso.
E forse lo aveva anche prima che ce ne accorgessimo.

venerdì 30 marzo 2012

Rubo primavere, succinte ed umide. Piccole e profumate. Minuscoli gigli increduli. Ebbri di rugiada. Solo per farne bende. Vene di un buio fecondo. Una spirale. E poi impicco, placida, ogni alba. Placida lei e disperata io. O il viceversa. Non riesco a vedere. Guardo, ma non vedo. E' tutto sfuocato ma vicino. E' quello il segreto dell'innocenza. O forse dell'incomprensione. A volte sembra si sovrappongono. Del rendersi tutto più semplice o più complicato. Più complicato quando è semplice. E più semplice quando è davvero un gran macello. Uno stragemma. Mi fa sembrare tutto nuovo e più lungo. Senza confini. Mi sembra di dilatare, o a volte smettere, di sentire. O solo di accorgermi che sta accadendo. Dovrei fermarmi, ma ancora scorro e dico e sento. E mi riargino. Perchè continuo a stupirmi di quello che succede. Di quanto sia più reale di ogni storia inventata. Di quanta fantasia sia impregnata la realtà. E di quanto stupore sia latrice precaria. Perchè mi imbatto in una amarezza sottile, come una lama. E dopo che mi ha sfogliata, come il vento sulle pagine, mi ricompongo e trattengo. Ma dove sono gli altri? Perchè è così dannatamente difficile starci vicini? Come se potessimo condividere lo stesso spazio solo per poco e poi fossimo costretti a spostarci. Per incontrarci ancora.O forse mai. Ma mai è solo l'avverbio degli immemori. E il tempo che ci è concesso è solo una pausa.
E io riesco a dimenticarmi.
Ma faccio fatica a dimenticare.
E' il gioco delle impronte.
Non si ritorna mai uguali.
Ho rinnegato i miei principi. Non ho esitato mentre esangui scivolavano sotto il rubinetto. E io liquida non ne provavo affezione. Per quell'abbandono. Ero più fluida della crudeltà ed ascoltavo lo scroscio che li accartocciava. E soffocavano. E io con loro. E quell'afflato che mi raccolse non si chiamava. Forse era amore. O dolcissima sincerità. Cruda e ruvida. O lentezza. Quella lentezza con cui le cose ritrovano il loro posto. E non è sempre esatto. Forse solo quello un pò più giusto.
La perfezione smette di esistere, come una serpentina fuorisa,
nel momento in cui tutto ha ancora un senso.
E forse lo aveva anche prima che ce ne accorgessimo

giovedì 29 marzo 2012


Asfittico quel tubo e tutto scorre. E io non sono sangue. Sono acqua. E mi nascondo tra le vene, come rugiada nel prato e nelle sillabe. E le cucio con il mio respiro. Annaspo. E quelle vene sono il confine tra la vita, la mia, ed il mondo. Forse lo specchio è nei miei occhi. E nella lamina che gli impedisce di fondersi in sorrisi e lacrime. E li preserva. Quasi obbligandoli a restare là. Figli di una magia sconosciuta e per quello irresistibile.
"Gioca con me.
Io non esisto.
Per quello puoi crearmi.
E puoi distruggermi".
Non soffrirò. Non questa volta. E tu annoderai quella catena alla mia caviglia. Una catena di fiori e nuvole. Avrà l'odore di una promessa mai violata. Io lo sono stata. Mentre cercavo l'assenso del mio carnefice. Prima di fuggire. "Potrai mangiare il cuore ad una colomba. Invece del mio." Gli avevo sussurrato. Ma lui mangiò sia il mio che di altre mille colombe. E io non fui pasto ma sazietà e briciola. E mi colorai di rossa e incredula gelosia. Livida più della delusione. Fino a perdere il filo e la più savia direzione.
"Non ho nome e ne ho infiniti.
Adesso chiamami nuvola e poi pesce e poi tigre.
E poi ancora nuvola."
Non so più piovere perchè non ricordo più come rendermi goccia impavida.
E mi limito ad accarezzare le vene della terra.
E a mordere semi.
Sono la bestia che mi vive nel cuore e mi piega e mi sconcerta.
E prima di addormentarsi bacia la luna.
Perchè non sa più morderla.
E non ho mai smesso di essere curiosa di mondi alternativi ed alterni.
Cuscini di risvegli inaspettati.
Di una normalità insolita che si grana sotto la vista come un rosario di carne.
E tutta la vita che vi si addensa.
Tanto da renderci spettatori, spettatori per caso.
Perchè poi esiste quel rigore leggiadro e che si flette e ci flette come steli di fiori invisibili. Fantasmi indaco che si slargano e ci cospargono la mente di nenie odorose e di proclami. Forse di stupore. La scoperta di una affinità inebria e ci ritrae, nella placenta benefica e nel segreto tiepido del nostro nascondiglio. Fino a farci nodi. E dirsi diventa difficile. Perchè è un pò spogliarsi di intimità. Indecisi se provare freddo o vergogna. Una parola, una carezza ed un alito di vento. Fino a scompigliare l'incanto. La confidenza è un equilibrio più fragile di una melodia lontana ed indefinita. Se chiudi gli occhi ti viene più facile capire. Ancora di più sentire. E mi bevo dentro un bicchiere trasparente. Sempre troppo pieno. Ne sono l'orlo indagatore. Vorrei essere presa e compresa. Ma non oso confessarlo. Forse perchè non è esattamente vero. E la verità non è mai esatta come la menzogna. Ed ogni volta che ci traduciamo in parole ci sottraiamo all'anima. Come ombre che si infilano dentro una fessura, un pò per scomparire e un pò per trovare un invisibile sollievo. Forse ogni ombra sogna di divenire figura. Di colorarsi. Almeno un pò. E per quel poco che le consente di tornare serena alla sua sagoma asciutta e austera. Ad essere ancora ombra.
Avrei voluto ma non è stato.
E mi riannodo, fino a sentire male.
Ma non troppo.
E quasi ci rido.
Non faceva così male.
La solitudine è la proiezione di spazio più prossima a noi stessi.
Invalicabile senza l'assenso.
Tutto dipende dall'andatura.
Dal passo, dal salto, dal dislivello.
Questione di equilibrio.
Più fragile di ogni plausibile previsione.
Anche se nulla è immobile, anche quando vorremmo,
e nulla si ferma,
e la vita scorre.
E e noi continuiamo a macinare vita.

Ho strani riflessi sulla gola. Hanno l'odore della luna. E mi stupisco ma non smetto. Non c'è un senso in quello in cui credo. Ma mi riempie l'anima, come un ventaglio. Nei giorni caldi, quasi soffoco e lui immobile mi agita. Da dentro. Fino ad increcciarsi con le vene. Come se fossero corde di una stiva alla deriva. E tracimo, ma mi contengo. E la mia lava non diviene vulcano, nè bocca, nè urlo. E quello che diviene neanche lo so. E neanche mi importa. Conta solo il sentirsela dentro, come promemoria di una vita. Ancora a venire. Ma non ho aspettative. Anche se la crudeltà richiede molta stupidità. E' un ripiegarsi su se stessi per leccarsi e succhiarsi ferite che tutto possono giustificare. Ma niente giustifica il brutto. Quello si chiamerebbe rimedio e non ha niente a che vedere con i sogni. E a me piace pensare che vivere sia sognare, più che si può, e disegnarsi i giorni a forma di farfalla. Solo per crearle sempre ali nuove. Una specie di tentativo, di esistere sul bordo, a ridosso e oltre i margini. Perchè il destino è l'avvicendarsi della forma che riusciamo a dare ai nostri pensieri e la pulsione della vita che vi infiliamo dentro.
E senza senso, mi sposto senza ritrarmi.
In una strana assonanza che non è assenza.
Non questa volta.
In fondo, tutto questo mi apparterrà comunque.
Oltre ogni logica.
Oltre questa carne e le ferite sagge che nascondo.
Perchè nscondere è la più impudica delle ostentazioni.
E la verità è sempre più a fondo di quello che crediamo.
E io ci credo.
Ricompare sempre, alla fine.
L'ho imparato mille vite fa.
Avevo un vecchio giradisci e tra graffi e sogni strusciava musica,
quasi in segreto,
impastata all'odore dei gerani e del mare.
E quella musica oggi mi ronza nella testa.
Quanto vorrei sapervela descrivere.
"Seducimi anche se non mi ami.
Ho bisogno di sentirti che mi scavi nella mente.
Annusami, senza prendermi.
Perchè ho un disperato bisogno di tremare ancora

mercoledì 21 marzo 2012

Stanotte milioni di asterischi hanno trafitto la notte. La hanno bucata come aghi di pino, pungenti ed odorosi. Pregni di lontananza. Che giorno è? Si sperdono solitari e senza direzione. Solo per lasciare la scia del loro odore misterioso e silenzioso. E poi il silenzio è la forma di seduzione più sottile e pericolosa, perchè spalanca la soglia sottile della curiosità, pregna di promesse inespresse. Ciò che è svelato non seduce più, al massimo rassicura, anche se non sazia. Come un tozzo di fame che riempie un buco, senza ricoprirlo mai. Praticamente non basta. E nel non bastarsi c'è tutta la miseria di una fine sussurrata, strisciata e che come un verme lecca la terra. E io, sotto quella pioggia di frammenti, assistevo inerte al frantumarsi del cielo. C'era la luna e l'ho stretta nel pugno. Fino a sentirla palpitare. Con il suo cuore di luna bastarda, pulsante e disperata, sui polsi. Gocce di sangue a macchiare la mia solitudine. Campo fecondo di impura tentazione. Sterile come un deserto, dove i miraggi evaporano insieme al buio. E resta solo freddo.
Quanto dolore può starci nel cassetto del cuore?
Ma che giorno è?
A volte le lacrime possono sembrare ali liquide ed evanescenti.
Perchè erano ali le mie ciglia sul tuo cuore, mentre tentavano di sfiorarlo,
e lo accarezzavano, senza fermarsi,
ed io non sapevo smettere di guardarti.
Piccoli voli provvisori e precari.
Solo il sole può asciugarli.
Voli interrotti.
E mentre cadevo,
mentre ero persa nella mia caduta libera,
ho sognato che qualcuno sapesse abbracciarmi,
forse per cadere insieme a me.

*

E precipitevolissimevolmente io sprofondo. E di profondo soffoco, annaspo e quasi mi bardo. Capita così di spogliarsi, di privarsi di ogni forza ed indugiare nella cruda ed idolente nudità, quella del dolore. Lo incontriamo per caso ma lo curiamo, vezzegiamo, nutriamo, consapevolmente. Perchè separarcene ci renderebbe meno protetti. Dentro o fuori, non per chiarezza, ma per delusione. Come una pianta di prezzemolo sul davanzale. E' come se l'amore non portasse pensiero. Si inizia a pensare quando si è smesso. Forse il pensiero è solo un illustre e lusinghiero rammendo. Ti illudi di ricamare il cielo, ma stai solo cucendo e tappando buchi. Come se fosse facile dire per non dire affatto. E non raggiungersi mai. Chi ha la risposta migliore? E cosa vince? La caduta mi ha dilaniato l'anima. L'ha resa rivoli e pentimenti. E adesso al suo posto una fragola mi guarda e sorride. A volte prega. Sta imparando a piangere. La lotta con il tempo e con il vuoto, incalza e non ha più passi, ma solo morsi. Non fanno neanche più male. E neanche portano fame. Accorgersi dell'inganno non è la parte più difficile, ma lo è il resistere. L'ho compreso da tanto l'inganno, ma io adoro le favole; quelle contorte, dove il cattivo diventa sempre buono ed il lupo si innamora della pecora e si pente. Dura sempre poco, sempre troppo poco, ma quello sì che è vero amore. A volte capita di fingersi orchidea mentre si è una stupidissima margherita, leale e tenace, ma rinnegata dal suo stelo e destinata a rotolare in un prato sconosciuto. Uno dopo l'altro. E attendere e attendere il sole, in piena notte. Un intrepido ed indefinito incrocio tra fede e stupidità. Una eroica dilatazione del cuore. Una infedele mongolfiera. Parrebbe quasi una smodata forzatura, un incauto eccesso, come un rimesso dei pantaloni che si scuce mentre stai correndo. E' scarso tempismo o solo purissima sfiga? O quella scarpa che perdi, senza essere neanche cenerentola. A me le scarpine di cristallo fanno un male pazzesco. Si è mai vista una principessa in infradito? Raccontami una favola e donami una menzogna, per rendermi felice.
Ho perso petali e ciglia, ma sono ancora un fiore, se mi annusassi lo sapresti.
E tu non sai proseguire, neanche vuoi, ma devi.
Ti tocca perchè fermarsi sarebbe un modo stolto di continuare, senza finire mai.
Di nutrire quella pila di incompiuti traballanti.
Inconcludenza come un ventaglio che si slarga e non copre mai abbastanza.
Con il dragone che ondeggia con la sua fiamma nelle fauci di carta.
E ti ritrovi peggiore di ciò credevi.
Rubi nuvole, solo per piangerle.
Mi fa un male cane ricordarmi di averti amato.
Mi sforzo di distrarmi e di scordarlo,
come ho scordato te.
Ma in una parte di te
non smetti mai
di parlarmi e sussurrarmi.
E di abbracciarmi, fino a farmi male.
Fino a toccarci le ossa

*

Mangio troppa marmellata. E quel barattolo è come se fosse il bordo denso ma fragile della luna. A chi non piacerebbe immergersi nella luna? Tuffarvisi per navigarci dentro, respirarla, bagnarsi di luna, nuotare nella luna e poi saziarsi. Senza una sequenza regolare. Senza inizio e fino. Perdersi è l'unica via per ritrovarsi. Di una luna morbida e cangiante. Spaventa la mutevolezza, soprattutto se non è leggera. Spaventa, ci fa ritrarre, specie se ingombra, asfittico involucro ruba carne e gonfia l'anima, soffiandoci dentro come dentro un palloncino. Forse a poggiare le labbra sul mio cuore si sentirebbe solo vento, tanto vento, quasi una tempesta. E capita di volerla afferrare e ricominciare a stringere, quasi a concentrarsi sulla presa, più di ogni altra cosa. Si diventa dita e là si resta. Ma solo per poco. Perchè è bello liberarsi e liberarsi le mani e non sentire alcuna presa. Senza contenitore nè contenuto. Nell'incapacità di dosare quella forza, in una periferia di noi, forse dimenticata e ritrovata, forse stanata o solo rinnegata. Ci si ritrova tutti, pezzo per pezzo. Con centellinata pazienza. Ecco, adesso io sono furia, sono voglia di cancellare, sono voglia di ricostruire, sono voglia di perdonare e di essere perdonata, forse di amore, senza chiedere e richiedere nulla.
E non perdere neanche un pezzetto.
Ma forse è già perso.
Come il neo sulla guancia che non trovo più.
E me ne disegno uno nuovo ogni giorno.

*

Il mio bisogno sordido di devastare dei, di farli a pezzi, come simulacri di una onnipotenza menzognera. Dove è la forza? Cosa la distingue dal sogno? E' come una goccia sulla roccia ricade la voglia di impiccare santi. Sono innocente ma pagana e selvaggia. Di una innocenza sporca, bisognosa e poi arcaica. Ho pregato con la carne, fino al ridicolo e adesso gioco con la cenere. Su una spiaggia muta e sazia. E stringo al petto le parole, come se fossero solo mie. Perchè le ho detto e ripetute ma nessuno le ha raccolte. Parole e foglie di un autunno senza regole. Forse ho perso l'ombrello e non so più aspettare la pioggia. Dove sei sorella acqua? Dove sorgi e dove ti perdi? E io che credevo di saper resistere, di essere forte, di saper essere forte. Quasi mi ricordo quando ho fatto di tutto per provarlo. Il morso sulla nuca in cui io scorsi l'eterno e quasi il mistico. Ma erano solo denti ed unghie. E io terra ridicola. E mi credevo terra feconda, prima di riscoprirmi deserto. Ho chiesto per errore e ho perseverato per orrore e diabolico bisogno. Mi separo dal dolore, sempre per poco tempo, troppo poco, perchè poi quella pellicola, come se fosse la mia seconda pelle, torna. Aderisce e graffia. Chi c'è c'è. E spesso è nenia. Altre incomprensione. Assorbe come un panno tutto il non detto, mischiato al troppo e troppo detto. E io non ho il coraggio di strizzarla tutta quella solitudine.
Le cose diventano diverse se le guardi da diverse angolazioni.
E' così che il mondo si trasforma,
senza mutare mai.
Il dolore è una esigenza folle ed immobile.
La verità stessa cessa di essere mutabile, non appena viene detta.
Ha bocca, mani ed occhi suoi.
Ho un suo spazio che niente e nessuno può modificare.

*

E mi rigiro dentro dubbi, molliche e voglia. Non sono santa. E lo sussurro, sparsa e discinta, pentita e riversa sul bordo della strada. Qualcuno mi aveva disegnato le ali. Mi piaceva colorarle. Le coloravo di cielo, solo per renderle invisibili. Vorrei essere abbracciata, fino a perdere il respiro e precipitare. Io ho dentro un demone indaco. Sanguino, senza lacrimare. Non più. E tutto si alterna alla saggezza, ad una saggezza livida. Come un laccio emostatico che ti stringe le coscia. Un solco nella carne. Forse una traccia. O un preludio. Ed è diverso ogni volta quel precipizio. Nessuna voglia di compiacermi. Ho questo sangue che vaga senza direzione. Troppo, come un fiume rosso. Non chiamatelo peccato. E' voglia che qualcuno mi percorra con tutta la lentezza profonda e lieve del desiderio. Senza tempo. Senza fretta nè bramosia. Senza troppo pensiero e senza troppo corpo. Non voglio che qualcuno mi attraversi la mente ma che, all'improvviso, sappia spalancare la porta più segreta del mio pudore. Senza parole. Senza paura e senza chiedere. In un non gioco dove ognuno non smetta di giocare. Non sono un angelo. Io ardo e voglio essere spenta e sfogliata, come un libro senza indice. Voglio qualcuno che mi veda finalmente senza essere guardata e condivida la mia voglia di buio. Dove è difficile toccarsi ma se accade ci si trova e ci si perde, senza remore, nè rancore. La benda morbida di una ragione che gocciola e scivola su un pendio sconosciuto. E riga.
Abbraccia la mia inferfezione e la mia paura e il mio tormento e i mille spilli che sfiorano la mia pelle.
E traboccare e sanguinare.
E finalmente traboccare e sanguinare di me.
E poi pensare di poter brillare poco.
Come una stella.
E di entrare nella mia estasi.
Più morbida della panna.
Sono femmina.
E sorridermi, perchè mi basto.
Catturami dentro un istante e gioca con la mia mente.
Incatena ferocemente la lanterna che mi abita.
Solo un gioco è quello che voglio.
Senza più labirinti.
Io non sono l'anima.
Ma il suo nudo involucro.
Dove tutto rimbomba.
La solitudine è il privilegio degli altruisti.
Negletta agli egoisti.
Sono fatta di foglie.
Mi disegnano sulla terra.

*

Non sono nata triste. E a volte sono anche allegra. Ma essere felice è altro. E il contrario della felicità non è la tristezza ma la infelicità. Anche se a volte la chiamiamo sfiga. Ho attraversato un mattino appena appena tiepido, sui miei tacchi e l'aria tra le ciglia. Non è primavera ma per un istante l'ho sentita. Schiacciata contro il mio sterno. E respiravo. Ho fissato perplessa dei ragazzi sul motorino che mi hanno lanciato dei complimenti e mi sono girata dietro per vedere per chi fossero. E' un pò che ho smesso di sentirmi femmina, vagamente femmina. Gli uomini che ho incontrato mi hanno sempre creduta un pò buffa. Più tenera che scopabile. Eppure è accaduto anche quello. Come quando pensi che il mondo sia nelle tue gambe che si spalancano e quell'accogliere è un pò morire per rinascere. Lasciarti affondare per distruggerti e non sentirti. Vertebra per vertebra. E' succeso casualmente. O forse solo lentamente. E forse quel tocchettino di tristezza, minuscolo come un puntino, che avevo in dotazione, si è dilatato e si è espanso come una giungla invisibile. Un mondo di plastica. Tra il gomito e la mia mano. E si alternava. Scivolava giù per il braccio e mi segnava radici invisibili. Fino alle viscere. Come quelle che ti senti affondare, dentro. A ridosso dell'anima. In quella zona che è ancora fatta di una strana consistenza ma che diventa rarefatta come nebbia. Forse sono nata con una nuvoletta dentro. Capace di accarezzare o di piovermi, all'improvviso. E per quello ogni volta che vorrei abbracciare annego e soffoco. E non sempre ho avuto sole abbastanza per asciugarmi. Mi sono persino dimenticata che ci fosse.
Non sapevo rubare i suoi raggi.
Nè spezzarli come rami del cielo.
E a volte neanche riuscivo a riconoscerli.
Io non ci riesco.
Non ci riesco proprio.
E spesso mi infilo dentro promesse e spergiuri.
E frammenti di pagine già scritte.
Solo perchè ho paura di tutto quel bianco nel foglio successivo.
Basterebbe solo voltarsi.
Strappare tutte quelle parole.
E portarle via.
Strisciarle come la coda di un gatto.
Le mie parole sono solo mie.
E per me.

*

Ho provato vergogna. E ho rimosso le figure. E sono rimaste le parole. Ma le parole sono capaci di creare altre figure, pericolose e fameliche. Sono l'artificio più morbido che l'anima conosca. Ho provato vergogna e non mi sono voltata, ho sfidato il nulla ed il nulla ha riso. Ieri arriva sempre troppo presto. E questo tempo ci sembra infinito anche se non ci basta mai. Così ho incominciato a rispettarlo, a rispettare il tempo, ed il mio tempo e forse anche un pò me.
Si sta bene quando si dice la verità.
E spesso non ha bisogno di parole.
Perchè si adagia nella parola più eloquente.
Quella che non mente mai.
Il silenzio.
Adesso non mi spaventa più.
Non è un sipario che si cala briscamente.
E' una finestra che lentamente si spalanca.
E non voglio distruggere quello che ho lasciato dietro.
Perchè sono io.
E non voglio dimenticarmi.

Lu

Più che sorella. Complice e valanga. Occhi bagnati d'oriente. Lei è fiore. Il fiore. Per caso, e spesso il caso si veste di fortuna, adagiato sullo stelo vicino. O precipitato da un'altra galassia. Perchè lei è così. Metà angelo e metà diavolo. Forte ma fragile. Quel fiore, prima sconosciuto, era divenuto, come di incanto, familiare, quando io all'improvviso ne avevo sfiorato la corolla. E questo mi aiuta a sperare che c'è tanto di buono nel mondo. O comunque tanto buono per noi. Tanto da spingerci ad adagiarci in amicizia e confidenza ed intimità. Come se ci conoscessimo da sempre. Da prima di incontrarci. Lei è lo specchio che mi riavvolge e mi raccoglie. Ricompone i suoi frammenti e si lascia ricostruire. E a lei posso dire. Tutto. Anche quello che non dico a me. Lei c'è. E' realtà. E mi piace. Perchè il mondo è fatto anche di tanto bene che ti avvolge senza una ragione. Senza un motivo. Di incastri casuali e causali. Lei è Lu. Mia. Perchè a volte appartenersi è così semplice.

*

Ho fatto copia-incolla di un pezzo di vuoto. Ed ha coperto per bene. Anche quello che non doveva. E io non dovevo. Ha fatto il suo buon dovere di vuoto. E non ha distrutto. Il vuoto non cancella. Sospende. E' che quello che si rende dovere, e miseramente ci rende dovere, è impregnato di una morale, che come un fazzoletto impedisce al sangue di scorrere, ma non sa fare a meno di sporcarsi. Era ieri. O forse no. Perchè siamo fatti di frammenti che hanno il dono di una incompletezza imperfetta che non sa dosarsi. E c'erano occhi scuri, come la terra bagnata. In cui le stelle, anche se per istanti, restavano intrappolate. Prima di riesplodere altrove. E mani che graffiavano la musica e l'aria. E non riesco a ricordare nulla di più sensuale. Forse la bellezza è proprio quello, quella capacità di scalfire il tempo, quello che ci è concesso, e adagiarsi dentro di noi, come in una nicchia. E là riuscire a ritornare, se ci è concesso. Le dita di quelle donne a disegnare suoni e cerchi, contro la notte, sono dentro e contro di me. E hanno rubato alla mente uno spazio che a volte è anche un suono. Perchè ho la sensazione che dal contrasto nasca del buono. Basta aspettare. E le mie dita palpitavano intrecciate alle tue. Come se le tue ne fossero la casa. Perse nell'odore, carico di speranza e di sogni, della foresta. E tutto era così sconosciuto da sembrare possibile. Dove siamo finiti? Noi e i nostri sorrisi, denti sui denti. E mi hai sorpreso mentre ti ho sorpreso a baciarmi la fronte. Ho finto di dormire e non ho respirato. Avevo paura di rubarti l'aria. Innaturale come la finzione. E pezzi di fango si sono infilati nelle vene. Mentre le mie tempie non hanno smesso di sbattere come tamburi. Non ho ritrovato la sospensione tanto ambita, a forma di spirale, verso un cielo nuovo. Ma almeno ho rivisto il cielo. Mi ero quasi dimenticata che ci fosse. Perchè a volte fuggire significa vestirsi di indifferenza. E tutti quei frammenti non sono parti, ma piccoli mondi. Monadi. E ognuna di esse riflette lo stesso cielo. Basta accetterlo. Siamo tutti, diversi, confusi e spersi, sotto lo stesso cielo. E' l'unico modo che abbiamo per sentirci meno soli. E stemperare la distanza.
Ho guardato sotto quella pietra e non c'era nessun messaggio per me.
Mi sarebbe piaciuto trovare parole, solo per me.
Solo ostinatamente e dannatamente mie.
E' così che nasce l'insostenibile senso di possesso.
Da dentro.
Da una delusione che non sa riaccattorciarsi in fallimento.
E si disegna una aspettativa più grande, quasi smisurata,
così sconfinata da poter far dimenticare ciò che la ha preceduta.
Perchè la misura di ciò che si ha che riesce a stemperare
l'ansia verso ciò che ci manca.
Oggi mi sembra di avere occhi colmi e sazi.
Ma dura poco.

*

Oggi mi sento animale_ssa obliqua. E nego. E mi lascia scivolare, densa, sul mio precario equilibrio. Come una calza che sfugge, all'improvviso, alla gamba. Nessuna nudità ha mai ucciso. Perchè è pienezza. Pienezza e sorpresa colma. Forse stupore. E' un naturale ma anomalo modo di ritrovarsi in un punto in cui siamo già passati. E riafferrare il testimone. Io esisto. E sto imparando a resistere. Perchè è poi infinitamente esistere. Lo senti il mio respiro sul tuo collo? Non aver paura. Basta la mia. I miei occhi ti giaciono addosso, come fessure stanche e sconfitte. Attendono di percuoterti. Come fa la luce con le cose. Invisibili e continue linee di luce creano cose. Le rapiscono al buio. Niente è fermo nel mondo. Prova a non muoverti. Sono affamata e respiro voglia. E a volte tristezza. Sulle mie labbra, lenta e tonda, si schiude una luna. E azzanna. Avvicinati piano. Voglio sfiorarti con la mia distanza e mescolarla. Intuire per annusare il mondo. Nella tenda dei sensi. Nessun trapezio nè contorsione. Io avanzo madida di semplice curiosità. E si fonde. Così per caso ho capito. O forse solo ricordato. La verità rende liberi. E il vento è sempre poco. E mai per sempre.

*

Ho le tue mani sul mio collo. Sento le tue dita seguirmi le vene e segnarle. Con un tocco deciso. Pausa dopo pausa. Come catene di carne e ossa. E' così facile masturbare i miei sogni? E attendo. E l'improvvida attesa mi pulsa nelle vene, contro la carne, a ridosso del respiro. Prima di colarmi a picco umida, più veloce di una lacrima. Mi basta poco per giocare con il mio fiato. E incolonnare soffio e saliva. Per disegnarci pile e perversa vertigine. Una cauta colonna da cui precipitare. Per penetrare il vuoto. E per smettere di donarmi. Vedere la delusione come un'ombra che si sovrappone alla fiducia. Una luna nera che mangia tutte le stelle. E le sgranocchia. E scava e scava nel buio. Sono allontanandomi la sua sagoma è netta. Quasi un alone. Era prima. E sarà ancora. Perchè non si smette mai, o meglio mai del tutto. E i cicli di noi legano altri diversi cicli di noi. Come ere geologiche. Strati su strati. Senza dimenticare mai. Solo accantonare. E riscopro quella saggezza che pervade le vite degli altri. E la contemplo. Astenendomi dall'infilarmici. E dal più ingordo infil_amici. Non è un antidoto, ma è la malattia. Quando pensiamo di accarezzare l'aria non lo facciamo invano. Mi piace credere che la forza del soffio, di quel soffio, ingnaro e sconosciuto, inevitabilmente sfiori qualcuno. E a volte lo sappia persino toccare. Una stretta invisibile. Perchè molte delle cose più belle sono invisibili. Anche la dolcezza. Prima di imbrattarsi nel corpo. E prendere le forme più strane.
Viviamo prestandoci l'aria.
A volte taccio.
La mia bocca si impedisce di dire.
Ma il mio corpo urla.
Fu allora, così, che mi ripiegai le labbra
come petali rossi e
fasciata dall'aria ripresi a camminare.
Passo dopo passo.
Mi piaceva pensare che stessi guardandomi.
E che mi disegnassi con il tuo sguardo.