giovedì 30 marzo 2017

E io ne sentivo i morsi.
Ancora li sento.
La mia diversità è solo un riflesso di tutta la paura che provo.
Del non sapere più dare.
Non ero come le altre.
Quanto avrei voluto.
Ero ridicola e sporca, vestita di illusioni.
Tutti parlano di colori, di vita, di primavera, di vecchi e di nuovi amori, che poi è lo stesso. E io resto immobile, come un mostro, con poco sangue nelle vene, spesso sbagliato, a caccia di un poco di calore che illumini i brandelli della mia anima. Come se fossi una virgola travolta da un fiume di parole. Voglio silenzio e cose vere. Nulla è più vero del silenzio. Perché quello profondo ed intimo buca l’orrore del vuoto. Il resto del mondo lo sento fuori dalla mia bolla. E afferro i miei sogni come una lama tagliente e li strofino sulle vene, sui polsi, fino a tremare. Questa solitudine fa male, ma è indispensabile. Poi morirò e nascerò ancora. Spero migliore. O solo nuova. Perché non so smettere di piovere, di vivere, di sognare, di desiderare, con tutta me stessa. Come una donna sa. Eppure vorrei, schiacciare questi stupidi battiti, uno per uno. E farne una collana da deporre ai piedi della luna.
Ma adesso è tardi.
Ci penserò domani.

sabato 25 marzo 2017

Su quale sponda potrò osservare le foglie che vanno verso il mare?
In alcuni luoghi lasci pezzi di te, come se fossero ami. E a volte riaffiorano e bucano la carne. Altre neanche ti sfiorano. Li senti bucarti, farsi strada tra le vene, ma tutto è differente. Non ti riguarda. E quei posti hanno, per caso, o per fortuna, o solo perché è tempo che sia così, smesso di parlarti, di comunicarti, di ricongiungerti ad una parte di te che credevi non dovesse mai scomparire, ma che invece ha fatto posto ad altro. La vita spinge e se ne frega. E corre, anche quando sembra lenta.
Non finisce, anche quando sembra troppa, o troppo poca.
Mi piace sorridere a chi è andato via, con la corrente.
In fondo resta solo chi c’è sempre stato.
Ed è banale come tutte le verità.
Ma è bello vedere che le cose vere e profonde lasciano dei meravigliosi segni, dei legami in quella che chiamiamo l’anima. E che forse, se è possibile, è molto di più. Succede quando le parole sono così piene da grondare emozioni.
(A due anime amiche che mi hanno fatto piangere di gioia e di malinconia perché ho guardato i loro occhi e come i loro occhi non riuscivano a smettere di volersi bene)

mercoledì 15 marzo 2017

Lontana, afferro la metà di me stessa e la scia di pupille piene come specchi, colme di emozioni; palpitano e si dileguano, come lucciole nella notte. Una volta ho calpestato una sabbia che si illuminava ad ogni passo, prima che arrivasse l'onda. Contemplo la gentilezza, che per caso sfiora gli attimi, e mi stupisce e poi che dà un senso occasionale, morbido e lieve, alla vita. Questo mi fa sorridere, come con il sole tra le ciglia. E penso che sia facile giudicare gli altri dalle apparenze, anche quelle grossolane e maldestre; troppo, e quasi inutile. E ancora preoccuparsi della propria idea, tremula, negli occhi degli altri; con la voglia di incastrarla ad un istante immobile. Esistere per potersi contemplare. Conta il sorso di felicità che la vita offre, a calici improvvisi e provvidi. - Sei mai stata felice Sara?- Mi capita spesso di incastrare a pezzi di soffitti il mio pensare peregrino e solitario, anch'esso quasi inutile, se io non fossi nei miei pensieri e nella mia mente. Prima di piegarmi sul fianco e di abbracciare la notte. Appena riaffiora, lieve come una carezza e con gelida come una lama, sul mento, sul collo, sul petto. Tanti hanno parlato prima di me della memoria corrotta delle stanze degli alberghi. Di cubi sconosciuti che generano un labile senso di appartenenza che poi svanisce e si dissolve al primo sole. Depositano bagagli di vite, di sogni, gemiti e progetti, paure e ansie, fugaci ed ostinati, tra lenzuola e ruote che strisciano,  su corridoi, immemori, come tunnel. Fino al nuovo giorno che porta la realtà e la rilancia come un dardo nelle esistenze e queste ineluttabilmente si schiudono al nuovo giorno, come fiori a primavera, o come lampi nello stomaco.
Immobile, adesso, riavvolgo il fiato, per poi lasciarlo scorrere come il filo di un aquilone, nella luce che verrà.
E mi prendo tutto il tempo che serve per un istante di felicità.
All'improvviso, come succede per i temporali estivi, sento ancora brividi ed un freddo inspiegato. Un gatto nella notte, lontano, o forse non tanto, non troppo. Dalla finestra, un rettangolo di cielo, è quasi giorno. Il mattino ammorbidisce ogni malinconia, con l'odore del giorno che arriva ed i suoi rumori, che nascondono i miei battiti. Non voglio provare nulla di negativo e appena riaffiora respiro, forte e bene, fino a sentirmi scorrere. Tra poco mi alzerò e non voglio perdermi neanche un attimo di questa vita. Sono giorni strani che segnano un cambiamento, e il distacco da una me che non mi piace più. Solo che ogni decisione, nella anime confuse come la mia, è precaria, fragile, come velina, e trema e il mio fiato con lei. La luce riga le lenzuola e mi bagna le dita. Troppi pensieri, troppo di tutto. Si dimentica solo quando si smette di ricordare di dover dimenticare. All'improvviso sei davvero diversa e quello che ti faceva paura, quella maledetta paura del distacco e dell'abbandono ti sembra naturale come respirare. E giù fino alle viscere per raggiungermi e non abbandonarmi. E sentire la mia carne ed il mio sangue. Ed oltre. Forse così tutto diventa leggero. Perché la leggerezza vera è saper rinunciare a se stessi e non prendersi sempre troppo sul serio. E vivere senza preoccuparsi delle conseguenze, soffrendo, e sentendo sempre. Solo quando non si sente tutto diventa pesante, perché là ristagna la assenza di coraggio. Lo dico a me stessa, e mi assento.
E se io mi amassi un poco di più?
Sarebbe un modo speciale per smettere di essere
così assurdamente egoista.
L'amore ha dita libere,
come ali.
E poi sarebbe così facile se non fosse difficile. Il posto degli altri spesso è la loro assenza. Una mollica o un pugno di vuoto. Un respiro segreto. Una goccia o l'incrocio di due sguardi. Di chi è passato e adesso non c'è. Non so se esserci è sinonimo di bene. Spesso io resto e sbaglio. Perché sono smodata, irregolare, incasinata e fermamente convinta che il bene abbia una sua logica che sottende le altre, tutte le altre, e che spesso è ostica ed incomprensibile. Come una spina tra le vene. Il rosso è un frammento di quella memoria. Un grumo, una cicatrice, un segno. Come se il dolore fosse irrinunciabile, comunque. E forse agli altri del tuo bene non importa nulla, neanche ti vedono per davvero, pallida come una ombra, smangiata come un vecchio orlo. Sei solo una parola masticata e deliziosamente risucchiata dal vortice del tempo che fu. Forse. La malinconia prenderà il posto della tristezza. Tempo, perché il tempo guarisce. Anche se non c'è tempo? E le mie dita sentiranno solo polvere e non graffierà più. Gli altri restano se vogliono. Sono stanca di tenere, di spiegare, di ripulire ogni traccia, ogni contorno, e stemperare ogni sfumatura. E forse tutta questa solitudine è la sola cosa di cui ho bisogno. Una riga umida prima, ed il mio mascara nero, dopo. Veloce sulla guancia. Nel confine tra gli sguardi esatti. Quasi una virgola tra le ciglia, e tra i pensieri. Devi chiudere gli occhi Sara. Stanotte non piove. Ho accesso un sacco di stelle e le ho scaraventate nel buio. Senti la loro buona e tenue carezza e non aver paura del silenzio. Spesso è pieno della eco del passato. E tu Sara devi infilare passi nuovi nella vita. E lasciare andare via gli altri. Perché sarai esistita per loro solo quando sarai lontana come un ricordo, come la linea di un tramonto che si accartoccia e arde. Uno spettacolo indecoroso ma ricco di meraviglia.
Ho baciato questa stella. Ha le impronte delle mie labbra. Le ritroverai là. Nel tempo. Nel tempo di poi. Stelle e baci, strani ed apocrifi. Capaci di illuminare un pochino il buio. Come un sorriso. Ma per poco. E capaci di fare strada, quando tutto sembrerà insopportabile.Come ora. Come una parola speciale.
Quella che le anime sincere non si possono e devono negare.
La mia parola speciale la ho strofinata a quella stella.
Fino a farmi sanguinare il labbro inferiore.
Adesso è l'attimo dopo.
Devo andare.
Non chiedermi il perché...
Ti ho già detto tutto mille volte nei miei sogni.
Sogni urlati contro pareti e soffitti sconosciuti, dove ho disegnato la mia identità e il mio delirio.
E forse è lo stesso.
Tutto quello di cui sono capace.
E adesso slegami.
Devo andare.

Nella stanza di lei

Pochi segreti, alcuni speciali. Parete indaco e soffitto luna notte. Lei è gelosa della sua intimità, piccola gobba di un cammello. E nella cruna dell'ago, un filo, un altro pezzetto. E ricuce la vita, distratta e malinconica, ora. E a volte impudica mentre ride, ride, e sorride. La bellezza resta bellezza, comunque e sempre.  E quella fragile intimità la srotola dal nastro di tulle che ripone, con cura, al riparo da occhi indiscreti, sotto il materasso. Pochi respiri intatti, alcuni rotti dalla paura, una delle sue, improvvise come un tuffo, di quelle che inaspettatamente strofinano il soffitto, nelle sue notti. Già le sue notti, nella sua stanza segreta. Lei dorme su quei sussurri e su quei bisbigli adagia la schiena, fino a sentire i baci del destino sulle sue vertebre. Fino alla nuca. Prima di piegare il capo sui sogni,e ribaltarsi. E tiene a fondo, a ridosso delle vene e del respiro, tutto quello che conta, per portarci soffiare quando capita. Un urlo, per potersi ricordare di lei, oltre la misura di ogni assenza. Lei graffia, come una gatta impaurita. Perché la vita, quella di lei, le ha insegnato a fidarsi poco e male, molto male. La stanza, quella stanza ha una chiave sola, minuscola e nera. Ed i minuti si addossano ai minuti, senza mescolarsi. Come piccoli soldatini di uno squadrone. Ognuno ha la sua misura, anche se inesatta. Qualcuno potrebbe ricordare un istante durato una notte. E dei giorni più celeri di altri. Ed altri terribilmente lenti, e gonfi di solitudine.
La stanza di lei...
si macchia di passi ignoti.
Senza direzione.
Lei sa.
Sente.
Prima.
Sente sempre, anche quando non vuole ammetterlo.
Ma non si ferma e si imbratta di quei passi.
Perché sanno di vita.
E lei ne ha una fame, incredibile.
In quel delirio c'è proprio lei, che scorre senza limiti.
Feroce come un fiume che vuole solo la sua foce.
Il resto non conta.
Non più.
Ora non è più adesso.
Almeno non quello.

*

Sembrano lontani i tempi in cui eccedevo.
Adesso centellino e rifletto.
E accarezzo le nuvole.
– Che noia
So che lo avete pensato.
Ho scoperto che le persone a cui ho tenuto di più hanno sempre detestato le cose che scrivo. Forse all’inizio mi hanno fatto complimenti, ignorando che fossi più complicata delle mie parole, se è possibile.
Adesso scrivo poco e ancora peggio.
Dovrei iniziare a fare la 0 con il bicchiere.
Magari imparo.
Mi infilo in un tunnel. A ciglia strette. Mi trema l’anima. Ed i polsi. L’uomo dei miei sogni avrebbe dovuto ricoprirli di baci. Ma l’uomo dei sogni è resta nei sogni, incastrato ai lori stracci. Nella rete di una dimensione che non si fa toccare.
Tutto sarebbe semplice, se riuscissi a dimenticarmi di me.
Dimenticherei anche il resto.
Forse mi mancherei, persino.
A volte ci sono frasi che feriscono più di un pugno nella pancia.
Sicuramente ne ho dette anche io.
Ma adesso so quanto fanno male.
Al cuore.
– che noia

lunedì 6 marzo 2017

*

Luna annegata nel cielo.
Luna soffocata e persa.
Il cielo l’ha inghiottita.
E nascosta.
Mi vesto da spigolo.
Mi piego per sentire.
E raccogliere vento.
Come una coppa.
Io rubo tempo al tempo.
E me lo infilo nelle vene.
E di passato cospargo gli angoli della bocca.
Umetto il suo contorno.
Fino a chiamarlo desiderio.
Prima di rinnegarlo.
Amputando le mie labbra.
Luna che pulsa.
Altrove.
Il cielo l’ha sputata.
La notte è un sipario.
E il giorno è il sipario della notte.
Tenda su tenda.
In attesa dello spettacolo.
Nulla copre più della luce.
Gioco con un raggio di sole.
Copre ogni tristezza.
Ci spalma sopra un velo.
E scorre sulle mie cicatrici.
Oltre ogni probabile possibilità.
Ma non cancella.
E diventai femmina.
E mi bagnai di innocenza.
Intrecciai lacrime alla terra.
Come rami e radici.
Quanta poca dignità c’è nella tristezza.
E nel suo urlo.
Come se vivere fosse un dovere.
E la vita non fosse un delirio continuo di sangue e carne.
Non smesso di trattenere.
E indegnamente scorro.
Come una diga.
Conto i miei passi sull’asfalto. E i miei tacchi bucano pozze di luce. Infilzano nuvole. Mi fanno compagnia rumori e stelle. Forse sono parole. L’aria è crudele. Striscia sulla pelle ricordi. E la luna è una immensa tasca. Ma sorride. Se avessi la possibilità cambierei pelle. Con corteccia. O forse con petali silenti. Lisci e bugiardi. Sola. Sola come la notte che si stinge nel giorno. E mi resta ancora tra le dita. Sola come il giorno che si tuffa nella notte. L’aria assedia le caviglie. E restare in equilibrio è più difficile. Sei prigioniera dell’istante. Era maggio. E già non c’era più. Era maggio. E poi tornò. L’amore. Odore di bucato sul collo. E baci morbidi. Fatti di lingue timide. Tornò. E io non c’ero. Mi illudevo. E costruivo castelli sulla riva. Inespugnabili. Ma sempre troppo vicini. L’onda arrivava. Sempre. E la sua schiuma trasformava tutto. In una grande pozza. Non voglio più spiegare le cose. A chi le conosce. Saremmo in due a perder tempo. E questo è un mio privilegio. Non lo baratterei con nulla al mondo. Neanche con l’anima. Se la avessi.
Oggi c’è un foro al centro dei miei pensieri.
Tutto si insinua e scorre.
E non trattengo.
Preferisco astenermi.
Non mi era mai resa conto di quanta carne c’è nei pensieri.
Più che altrove.