Era il trofeo. La mia follia. Per asciugare il mare. Il cappotto di parole mai dette. E assaporare gli schizzi del mio delirio. I liquami dei miei fiori di sangue. Dei soliloqui urlati alla luna. Volevi spingerti là. Proprio là. Sotto la coppa vuota della luna. E lasciarmi sfumare. Come buio alla luce. Quando ognuno sente tutta la potente voce del sole. E si sente redento. Baciato dalla bocca giusta. E là sul bordo del mondo andare via. Con le mie ciglie nella tasca. E il rimesso sul cuore. E io mentre la luna si spegnava avvertivo tutto il peso immane. Del mio essere strana. E mi intrecciavo al castagno. E mi facevo ramo di frutti piumati e cinguettanti. Era facile giudicare la follia. E scapparne. E sembrarne migliore. Troppo facile. Andare via e graffiare il muro per cancellare il passaggio. Me lo ha detto la luna. Mi ha chiesto di continuare ad essere. Quello che capita. E di non avere forma. E di non avere paura a lasciare follia sulle foglie. Sacchetti di follia pura. Come rugiada al mattino. O come coltello nell'aria. Per scavare forme. Anche se avrebbe allontanato gli altri. Gli avrebbe donato il dono sublime e grandioso della saggezza e la bellezza del loro pontificare. Parole su parole. E aloni di disprezzo. E' facile senza cuore sembrare migliori.
E io sono e resto quello che capito.
Rigurgito di luna pazza.
Bottone stridente.
Ma me stessa.
Senza forma.
Come la verità.
Condannata alla peggiore solitudine.
Quella di sfiorare gli altri.
C'era una luna amara in cielo ieri.
Esattamente quello che detesto, l'amarezza.
Il velo di un lutto inesistente.
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